23. La giusta misura

Chi vuol vivere oltre il limite giusto e la misura perde la mente ed è in palese stoltezza.

SOFOCLE, Edipo a Colono, vv. 1219-1220.

1. Il cristianesimo e il desiderio infinito

Come ci ricorda Nietzsche, la tragedia non è un genere letterario, ma la condizione della vita in generale e dell’esistenza in particolare, dove la felicità non è separabile dalla crudeltà. Per questo la fine della tragedia non segna, a parere di Nietzsche, l’esaurirsi di una forma artistica, ma, drammaticamente, l’interruzione brusca della visione greca della vita, perché, con la morte e la resurrezione di Cristo, avvenuta quando a Roma regnava Tiberio, una vita eterna si annunciò al di là della vita terrena, e la teologia della salvezza dissolse la visione tragica dell’esistenza.

La contrapposizione fu netta e consapevole, se è vero che Pan, il dio della tragedia dalle zampe pelose e dal piede caprino (traghikós), divenne, nell’iconografia cristiana, l’immagine del diavolo. Nietzsche riferisce fedelmente questa drammatica fine della visione tragica dell’esistenza a opera del cristianesimo e la descrive con queste parole:

La tragedia greca perì in modo diverso da tutti gli antichi generi d’arte affini: morì suicida, in seguito a un insolubile conflitto, dunque tragicamente, mentre tutti quegli altri scomparvero a tarda età con la morte più bella e tranquilla. [...] Con la morte della tragedia greca si produsse un enorme vuoto, ovunque profondamente sentito. Come una volta ai tempi di Tiberio i naviganti greci udirono, in vicinanza di un’isola solitaria, lo sconvolgente grido: “il grande Pan è morto”, così per il mondo ellenico risuonò ora come un doloroso lamento: “la tragedia è morta! Anche la poesia è perduta con essa!”.1

La tradizione giudaico-cristiana ha sciolto il nesso tra felicità e crudeltà che la natura, nella sua innocenza, vincola, attribuendo la felicità alla vita in quanto creazione di Dio e la crudeltà all’uomo che, con la colpa, ha infranto la bellezza della creazione. In questo modo, la tradizione giudaico-cristiana, a differenza della cultura greca, non ha voluto guardare in faccia il dolore nella sua ineludibile realtà, e, con questa rimozione, si è congedata dalla tragedia, incanalando la sofferenza sui sentieri della speranza che conducono a scenari di salvezza.

Così facendo, la tradizione giudaico-cristiana ha perso la giusta misura, che consentiva al Greco di vivere la felicità dell’esistenza pur nella crudeltà della legge di natura, e ha educato l’uomo al desiderio infinito. Non più la “fedeltà alla terra” come vuole l’espressione di Nietzsche,2 ma “nuovi cieli e nuova terra”, com’è nell’annuncio di Isaia.3

Interpretato nella prospettiva della vita futura, il dolore non ha più nulla di tragico, ma viene inscritto nello scenario della speranza, che proietta il desiderio al di là della misura terrena. Questa proiezione qualifica la terra come “valle di lacrime”, ma in compenso rende il dolore sopportabile. Nell’attesa della liberazione dal dolore, il desiderio oltrepassa i confini della terra e la caducità del tempo, per ancorarsi all’eternità promessa.

Alla moderazione greca che si accontenta di ciò che ha, subentra, con il cristianesimo, quel desiderio infinito che vuole ciò che non possiede, ma spera di ottenere dall’amore di Dio, che non ha creato una natura “innocente e crudele”, ma, come dice il Genesi “buona”4 e, se pure attraversata dal dolore causato dalla colpa, riscattabile proprio attraverso l’accettazione incondizionata del dolore. Di qui l’amore per la sofferenza, che non si deve solo sopportare, com’era nella mentalità greca, ma, in quanto pegno di salvezza, addirittura abbracciare. In questo modo, come ci ricorda Nietzsche, il desiderio di salvezza inscrive il dolore nell’erotica:

La dottrina della redenzione conosce la beatitudine (il piacere) soltanto nel non opporre più resistenza, non più a nessuno, né alla disgrazia né al male – l’amore come unica, come ultima possibilità di vita. [...] La dottrina della redenzione io la definisco un sublime sviluppo ulteriore dell’edonismo su base assolutamente morbosa.5

Non più il “substine et abstine” dello stoicismo greco, con cui si fondava un’etica della forza e della moderazione che tutelava la dignità dell’individuo, rendendolo capace di reggere il dolore con quello stile che doveva condurlo a una bella morte, ma l’amore per il dolore, letto come strumento con cui Dio mette alla prova la fedeltà dell’uomo, e come garanzia per la felicità futura.

Il Greco regge il dolore perché è proprio della sua etica sapersi governare nella sofferenza. Il cristiano ama il dolore perché legge nel dolore la condizione della salvezza. Oltrepassando la misura terrena della felicità per una felicità eterna promessa, il cristiano non contrasta il dolore sulla terra, ma lo accetta e lo ama. Il desiderio illimitato di felicità lo conduce all’accettazione incondizionata del dolore. Nasce così quella “beatificazione” della sofferenza che ha nel “discorso della montagna” di Gesù6 la sua enunciazione e l’invito alla sua pratica, perché ad attendere il cristiano c’è un mondo senza lacrime, senza dolore, senza morte, che per la mentalità greca era semplicemente inimmaginabile.

Il desiderio infinito che non accetta la morte attende la resurrezione dei morti, la vita senza termine, la visione di Dio, in una parola: la vita eterna che più non conosce né il dolore, né il limite. Qui il gioco non è più nelle mani dell’uomo che contrasta come può il dolore sulla terra, ma in quelle dell’onnipotenza divina che lo elide. La storia non è più dell’uomo, ma di Dio, che non interviene in questo mondo per migliorarlo, ma per produrre uno stacco, una rottura definitiva, in vista di un altro mondo che più non conosce né il dolore né la morte, e a cui si rivolge il desiderio umano nel suo spasmodico tendere.

Ma chi è Dio? A porsi questa domanda è Agostino che, nell’inquietudine del suo cuore (inquietum est cor nostrum), chiede:

Che cosa sei tu per me?
Che cosa sono io per te?
Dillo a quest’anima: Io sono la tua salvezza.7

Dio è dunque per il cristiano il bisogno incontenibile di salvezza che orienta il desiderio e la pratica di vita. Perciò, conclude Agostino: “Io correrò dietro la tua voce e ti troverò (Curram post vocem hanc et apprehendam te)”.8 Ciò a cui l’uomo non può pervenire con le sue forze, lo ottiene da Dio.

Ma qui non si fraintenda. Il bisogno d’aiuto è un bisogno naturale. Ma un conto è invocare gli dèi nelle angustie della vita, un altro è ipotizzare uno stato in cui non vi sarà più bisogno d’aiuto perché Dio avrà espunto definitivamente il male e la morte. Questa è la differenza tra i Greci e i cristiani. Una differenza che investe la portata del desiderio e il limite inscritto nella “giusta misura”. Per questo la poesia di Pindaro dice:

Anima non t’affannare
Per una vita imperitura, tocca il fondo
D’ogni via del possibile.9

Mentre la fede di Isaia annuncia:

Ecco io creo
cieli nuovi e nuova terra;
non si ricorderà più il passato,
non verrà più in mente,
perché si vivrà e si gioirà per sempre
per le cose che io creerò.10

Se il Greco, come ci ricorda Pindaro, invoca gli dèi per essere liberato dal male presente,11 il cristiano si rivolge a Dio per ottenere la liberazione non solo dai mali presenti, ma, come recita il “Padre nostro”, dal male in generale, in vista di quella salvezza vera, incondizionata, definitiva che è la vita eterna, dove il dolore sparirà per sempre.

Questo desiderio infinito, che è la vera anima del cristianesimo, porta alla svalutazione del mondo, che diventa irrilevante nei suoi accadimenti, buoni o cattivi che siano, perché la salvezza è nella fine del mondo. Per questo Agostino può dire che: “Chi ama il mondo non conosce Dio (Amare mundum non est cognoscere Deum)”,12 e prima di lui, Gregorio di Nissa può, senza scandalo, sollecitare i cristiani alla verginità, per accelerare la fine del mondo e, con la fine del mondo, l’avvento della salvezza.13

Attendendo la fine del mondo, e con la fine del mondo la resurrezione dei morti, il cristianesimo non si separa solo dalla sua matrice ebraica, ma sancisce in modo definitivo la sua abissale distanza dalla mentalità greca, se è vero che all’annuncio della resurrezione dei morti di Paolo all’Areopago, gli ateniesi reagiscono sorridendo:

“Dio ha fissato un giorno in cui, a rigor di giustizia, giudicherà il mondo per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone sicura prova a tutti col resuscitarlo dai morti”. Quando intesero parlare di resurrezione dei morti, alcuni ci risero, altri dissero: “A proposito di questo, ti ascolteremo un’altra volta”.14

2. La grecità e la giusta misura

Per i Greci il dolore appartiene all’ordine della natura, così come il debito di morte che ciascun individuo deve pagare alla specie. Gli dèi possono soccorrere gli uomini, possono salvarli dalla tempesta, dal naufragio, talvolta dalla malattia, ma non dalla morte e dalla precarietà dell’esistenza a cui sono inesorabilmente esposti. Per questo i Greci chiamano gli uomini “mortali (brotoí, thnetoí) e li contrappongono agli dèi, gli “immortali (athánatoi), la cui condizione rappresenta il limite che l’uomo non può valicare.

La colpa di Prometeo, il titano che vuole emancipare gli uomini, non consiste tanto nel dono del fuoco e delle tecniche con cui gli uomini possono meglio sopperire alla loro esistenza, ma nell’aver distolto gli uomini dal loro limite che è la morte, infondendo in loro quelle cieche speranze (typhlàs elpídas)15 che aboliscono la differenza tra mortali e immortali. Per questo invito all’oltrepassamento della misura, Prometeo sconta la pena.

La misura (métron) è il tratto che caratterizza la grecità. Essa non nasce, come nella tradizione giudaico-cristiana, dall’ottemperanza a una legge espressa da una volontà, la volontà di Dio che ha creato l’ordine del mondo e l’uomo, a cui chiede di essere conforme a quest’ordine. La misura greca nasce dal reperimento di un ordine, che l’uomo deve individuare per poter vivere in una natura che, senza scopo e senza finalità, è pura e semplice sovrabbondanza di vita. Una vita che si alimenta e si produce attraverso la morte che infligge alle sue singole determinazioni: piante, animali, uomini.

L’uomo, proprio perché espressione della natura, può dimenticare di essere solo una sua determinazione, e perciò essere tentato dall’illusione di una vita senza limite che è propria della natura, ma non delle sue determinazioni. Se cede a questa illusione, l’uomo commette quell’unica colpa che i Greci concepiscono per l’uomo: l’hýbris, la tracotanza, la pretesa di oltrepassare il proprio limite, al di là della misura che la natura, per poter alimentare la sua vita, concede alle sue singole determinazioni.

A differenza della tradizione giudaico-cristiana, infatti, la cultura greca non concepisce l’uomo come fine del creato, perché, indifferente a tutto ciò che genera, la natura non si fa carico della sorte dell’uomo. Per questo l’uomo deve farsi carico della sua sorte, non affidandosi all’illusione di una vita eterna, ma cercando di guadagnare, nel tempo che gli è stato assegnato, una vita buona, come dice Aristotele, e, per quanto possibile, felice.

La forza vitale della natura che è in lui può indurre l’uomo a rimuovere la morte e, sospingendolo nell’illusione del senza limite, generare il sogno dell’immortalità. La consapevolezza della morte, che il Greco in tutte le sue espressioni culturali non cessa di ribadire, restituisce l’uomo alla sua misura, e in questa misura l’uomo può eleggere, nell’indifferenza della natura, se stesso come fine.

Eleggersi come fine significa, per l’uomo, appropriarsi del tempo che gli è stato assegnato, conferendogli un senso attraverso le opere che nel tempo può compiere. Se in queste opere vogliamo ravvisare la differenza tra l’uomo e l’animale, che la tradizione cristiana chiama “anima” o “spirito”, ebbene allora è proprio la consapevolezza della morte, e non la sua negazione o rimozione, a consentire all’uomo di esprimere il suo spirito, non come signore del creato come è scritto nel Genesi,16 ma come signore del tempo che gli è stato assegnato, in cui può dispiegare le sue opere, secondo misura (katà métron).

Questa misura l’uomo non la ricava dalla natura, che i Greci concepiscono come cháos, letteralmente “apertura” della vita che si genera e sovrabbondante si diffonde,17 ma la ricerca nell’ordine (kósmos) che l’uomo riesce a reperire nella natura, e a cui fa riferimento per fronteggiare il caos.

Quest’ordine l’uomo lo ricava registrando la regolarità con cui accadono gli eventi di natura. A questa regolarità dà il nome di “legge (nómos)”, che non è una “legge della natura”, perché la natura semplicemente accade al di fuori di ogni legalità, non avendo nessuno deciso come deve accadere, ma è una legge che l’uomo applica alla natura, a partire dal riconoscimento del suo andamento, del suo ritmo, della sua scansione, per orientarsi in essa e fronteggiare l’imprevedibile.

Se la constatazione delle ricorrenze e il calcolo delle frequenze costituiscono quella misura che consente di ridurre l’imprevedibilità dell’evento, lo stesso criterio può essere assunto per prender posizione nei confronti di quel massimamente incontrollabile che è la condotta umana, la cui irregolarità è dovuta al fatto che gli uomini, non conoscendo se stessi, o non sanno quello che fanno, o, sapendolo, nascondono le loro intenzioni, come fa Odisseo per raggiungere i suoi scopi.

La caratteristica di Odisseo non è tanto l’astuzia quanto la phrónesis, che non è “furbizia”, ma “saggezza”, ossia capacità di trovare di volta in volta, nell’incalcolabilità degli umani comportamenti, quello che Platone18 e Aristotele19 chiamano il “giusto mezzo (mesótes)”, ossia il punto di equilibrio tra forze contrastanti.

Qui avviene la decisione (proaíresis) che deve tener conto del tempo opportuno, che i Greci chiamavano kairós, una parola il cui primo significato è quello di “giusta proporzione”20 che, attentamente calcolata, consente di rinvenire il punto di debolezza tra le forze contrastanti. La sua forma è la prudenza (phrónesis) necessaria a chi, trovandosi a decidere in un contesto che non lascia intravedere regolarità e quindi prevedibilità, produce operazioni che non si possono dedurre da principi immutabili, ma dal vaglio delle circostanze.

Reperito un ordine nella natura per sé “caotica”, nel senso di “aperta” alla produzione di vita, attraverso la scansione di nascita e morte delle sue determinazioni, reperita la linea di condotta nell’agire, regolata da quella saggezza o prudenza (phrónesis) che consente di muoversi nell’imprevedibilità delle circostanze, all’uomo è concessa una vita buona (eû zoé) se si attiene a quella giusta misura che lo prevede non come signore della natura, ma come parte della natura. Qui Platone è chiarissimo:

Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell’universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica.21

E la vita cosmica è regolata secondo necessità da quelle misure di cui Giustizia (Díke) è gelosa custode. Sono infatti le Erinni, ministre di Díke, che “ricondurrebbero il sole nella sua orbita se oltrepassasse le sue misure”22 ; è l’Anánke che “guardando la volta celeste, costringe gli astri a tenere i confini”23 ; è la Moîra che “tiene l’essere nei vincoli del limite che tutto intorno lo cinge, affinché non sia incompiuto né manchevole”24 ; “È secondo necessità che dove gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la loro distruzione, poiché pagano l’un all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”,25 perché “se non vi fossero queste cose, non si conoscerebbe il nome di Díke”.26

Conoscere il nome di Díke significa per l’uomo sapere che la vita è generazione e corruzione, successione di nascite e morti, per cui occorre interiorizzare la morte come misura della vita, il cui movimento è orientato a un compimento (télos) che è a un tempo il suo fine, la sua fine, la sua forma. Ma se ciò è “naturale” dal punto di vista della natura, che non può proseguire la sua vita senza la morte delle sue determinazioni, trova una resistenza nelle singole determinazioni che, pervase dal conatus existendi, come dice Spinoza,27 non si rassegnano alla propria fine, al punto di infliggere la morte ad altre vite pur di alimentare la propria vita.

Questo spettacolo della crudeltà, che percorre l’intera natura dal mondo vegetale a quello umano, nel caso dell’uomo, che pure è consapevole della propria fine, assume, per il Greco, i tratti dell’hýbris, della tracotanza, della colpa, in quanto oltrepassamento della giusta misura determinato dalla volontà di vivere a spese degli altri, per cui, come scrive Natoli: “La crudeltà innocente della natura diventa colpa nell’uomo”.28 E allora gli dèi, che non sono tanto l’espressione di un altro mondo quanto la misura inoltrepassabile di chi vive in questo mondo, puniscono gli uomini illudendo quanti, inebriandosi nella presunzione della loro potenza, non si attengono a quell’unica virtù che i Greci non cessano di indicare nel riconoscimento del proprio limite.

L’oltrepassamento del limite avviene per un offuscamento della mente: “Fui accecato dalla violenza (áte), e Zeus mi tolse il senno”,29 dice Agamennone nel momento in cui riconosce il torto inflitto ad Achille. E qui Agamennone non ricorre a un alibi morale, perché anche Achille, la vittima del sopruso, vede le cose allo stesso modo:

O padre Zeus, come sono grandi le átai che tu assegni agli uomini.Altrimenti non avrebbe mai l’Atride commosso fino in fondo il thymós nel mio petto,
e non avrebbe menato via, inflessibile, la fanciulla a mio dispetto.30

Non una colpa originaria come nella tradizione giudaico-cristiana, ma la crudeltà dell’esistenza offusca la mente e oscura il discernimento, per cui continua deve essere quella frequentazione del sapere a cui invita Socrate, non per una propensione intellettualistica, ma in base al principio che chi sa, chi non si lascia offuscare la mente, non commette il male.

Nasce da qui la filosofia come terapia della mente per il miglioramento della condotta umana, dove l’accento non è posto sull’imputabilità della condotta, ma sulle condizioni che rendono una condotta saggia o insipiente, e quindi contenuta nella giusta misura o improvvida nella prevaricazione.

3. Il mondo contemporaneo e l’oltrepassamento della misura

La giusta misura, che presiede il governo di sé e le leggi della città, è per il Greco il riflesso della giustizia cosmica, della giusta proporzione delle parti nel Tutto, che dunque è armonia e perciò bellezza (kosmióteta).

Da questa visione cosmica non poteva nascere alcun progetto in ordine alla dominazione del mondo perché, come cosmo, il mondo non è creazione di un dio né opera dell’uomo, ma, in sé perenne e custodito nella sua giusta misura, è per sé.

Considerato il più perfetto esemplare d’ordine e nello stesso tempo la causa di ogni ordine riscontrabile nelle realtà particolari, che soltanto in gradi diversi si avvicinano a quello del Tutto, il cosmo non è tanto un sistema fisico, quanto quell’ordine necessario a cui l’uomo, come parte, deve assimilarsi. Nel riconoscimento e nell’accettazione del proprio esser-parte, l’uomo trova la sua collocazione e il senso della sua esistenza che è nell’adeguarsi, in quanto parte, all’ordine (kósmos) del Tutto.

Si tratta di una totalità che non nasce dalla somma quantitativa delle parti, ma da quella nota qualitativa che fa di quelle parti composte un ordine, un cosmo. Da quest’ordine, che è poi la ragione dell’universo, il suo lógos, nasce quella pietà cosmica che non è tanto un sentimento religioso, quanto l’espressione antropologica di quella relazione universale che è la composizione delle parti con il Tutto.

Da questa pietà cosmica trarrà spunto la prima riflessione ontologica della filosofia occidentale, là dove Platone pensa la relazione tra i molti e l’Uno.31 L’esito di questa riflessione è che il Tutto ha la precedenza sulle parti ed è migliore delle parti. È ciò per cui le parti sono, e in cui hanno non solo la causa del loro essere, ma anche il significato della loro esistenza.

Esempio vivente di questa relazione è la pólis descritta nella Repubblica (Politeía) di Platone, dove la relazione ontologica tra i molti e l’Uno, preparata dalla pietà cosmica, trova la sua espressione politica. Come nel cosmo, infatti, così nella città le parti non solo sono dipendenti dal Tutto per il loro essere, ma anche mantengono quel Tutto con il loro essere. Come l’ordine del Tutto condiziona l’essere e la possibile perfezione delle parti, così la condotta delle parti condiziona l’essere e la perfezione del Tutto. La filosofia greca concepisce quindi l’ordine storico-politico in funzione dell’ordine cosmico-universale, e in questo senso i filosofi greci sono veramente cosmo-politici, perché pensano l’ordine del cosmo come vero modello per l’ordine della pólis.

Questa cosmologia si dissolve con la nascita della progettualità tecnica, per la quale non è più l’ordine del cosmo a dettare legge alla pólis, ma è la pólis, come comunità degli uomini, a definire di volta in volta il cosmo. All’orizzonte cosmo-politico si sostituisce il disegno di una politica cosmica, dove il progetto tecnico dell’uomo cancella ogni ritmo della natura, mentre le scansioni della sua storia cancellano quella “giusta misura” che, al dire di Eraclito, segnava il “divampare e lo spegnersi dei cicli cosmici”.32

Qui svanisce ogni possibilità di confronto, perché la tecnica avanzata dell’Occidente non è una variante della tecnica antica, ma la sua antitesi. A mutare, infatti, non è solo il misurato, ma la misura, per cui, rispetto all’ordine del cosmo, la tecnica occidentale appare smisurata, cioè fuori misura. Nel Tutto non “rappresenta la sua parte”, com’era nell’invito di Platone là dove richiamava la legge antica, ma al Tutto “impartisce le parti”, e così capovolge quella gerarchia aristotelica per la quale l’economia, la politica e l’etica, avendo per oggetto l’uomo, non potevano essere le scienze più alte, perché ciò avrebbe significato pensare l’uomo come l’essere più alto nel Tutto cosmico:

Sarebbe assurdo pensare che la politica o la saggezza siano le forme più alte di conoscenza, a meno di non pensare che l’uomo sia la realtà di maggior valore nel cosmo. [...] Di fatto ci sono realtà di natura ben più divina dell’uomo come, ad esempio, i corpi celesti di cui è costituito il cosmo.33

Con la tradizione giudaico-cristiana, il cosmo perde la sua immutabilità, perché è visualizzato come l’effetto di una volontà, la volontà di Dio che con la sua onnipotenza l’ha creato, per poi consegnarlo al dominio dell’uomo cresciuto all’ombra dell’onnipotenza di Dio. Raccogliere il senso del mondo nella volontà di Dio significa affidare a esso un significato, inscriverlo in un progetto, assegnarlo a un fine, perché tutto ciò è implicito in ogni atto volontaristico. Il Genesi stesso non ne fa mistero, ma narra espressamente che Dio, dopo aver creato Adamo ed Eva e dopo averli benedetti, disse loro:

Prolificate, moltiplicatevi e riempite il mondo, assoggettatelo e dominate sopra i pesci del mare, su tutti gli uccelli del cielo e sopra tutti gli animali che si muovono sopra la terra.34

Il segreto del mondo creato da Dio è quindi l’uomo. Questa destinazione verrà confermata nel mistero dell’incarnazione, in cui Dio stesso si fa, per amore dell’uomo, creatura nel suo Figlio, creatura che, in quanto tale, chiama Dio suo “Padre”. Evocato dal nulla e destinato al nulla, il mondo, a questo punto, non ha più senso in se stesso, ma nell’uomo per il quale è stato creato. Fu così che:

Iddio, che già aveva formato dalla terra tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo, li condusse da Adamo per vedere con qual nome li avrebbe chiamati; perché il nome che egli avrebbe imposto a ogni animale vivente, quello doveva essere il suo vero nome.35

Allo stesso modo oggi, in assenza di Dio, l’uomo nomina tutte le cose secondo il significato che assumono per lui e secondo il possesso che è stato in grado di realizzare. Evidentemente, con argomenti biblici, non si può obiettare che il nome dato dall’uomo alle cose non è il loro vero nome. Questo lo può dire, e in effetti lo dice, il pensatore greco, per il quale la potenza dell’uomo è superata dalla potenza della natura,36 ma non il pensatore cristiano e post-cristiano, per il quale la natura è impotenza alla mercé della potenza prima di Dio e poi dell’uomo.

Oggi, che la scienza e la tecnica hanno dato il nome a tutte le cose, l’uomo, questo “signore delle tecniche (mechanóen téchnas)” come già lo chiamava Sofocle,37 teme che le sorti della natura, dominata dalla potenza dell’uomo, possano sfuggire al controllo che l’uomo è in grado di esercitare sulla propria potenza. La natura, resa esausta dalla volontà di dominio dell’uomo, può infatti sfuggire al controllo di questa volontà. Il verificarsi di questa eventualità da un lato rivelerebbe la potenza della natura misconosciuta dalla storia dell’Occidente, e dall’altro condurrebbe questa storia alla sua fine (éschaton) secondo l’ipotesi biblica.

All’interno di questa visione apocalittica, che alimenta l’inquietudine che accompagna ogni forma di progresso, occorre riconoscere anche la dimensione costruttiva del sapere che, come ha chiarito Bacone, ha il potere di ridurre la fatica e il dolore che, nella visione giudaico-cristiana, sono le conseguenze della colpa originaria:

In seguito al peccato originale, l’uomo decadde dal suo stato di innocenza e dal suo dominio sulle cose create. Ma entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte, in questa vita. La prima mediante la religione e la fede, la seconda mediante le tecniche e le scienze. In seguito alla maledizione divina, il creato non è diventato interamente e per sempre ribelle: in virtù di quella massima “guadagnerai il tuo pane con il sudore della tua fronte” (Genesi, 3, 19) attraverso molte fatiche (non certamente con le dispute o le oziose cerimonie della magia) finalmente è costretto a dare il pane all’uomo e cioè è costretto agli usi della vita umana.38

La potenza del sapere concorre quindi alla redenzione attraverso la rimozione dei limiti che la natura pone alla competenza umana. Ma se la redenzione passa attraverso la liberazione dai vincoli, l’uomo non ha più bisogno di Dio, perché ha fatto proprio l’attributo di Dio che è la libertà da ogni vincolo. La scienza e la potenza che le è connessa decretano la morte di Dio, perché l’onnipotenza di Dio trapassa nell’autoaffermazione dell’uomo che, grazie al sapere, può ottenere da sé quel che un tempo, con la preghiera, implorava da Dio.

Il sapere scientifico e il fare tecnico non avvengono più, come per i Greci, all’interno dell’ordine naturale e delle sue leggi pensate come immutabili,39 ma sull’ordine naturale, abolendo la differenza tra natura e artificio. E questo perché la natura non è più pensata come limite all’intervento umano, ma come semplice materia prima a disposizione dell’intervento umano.

Ma quando diciamo “intervento umano” diciamo qualcosa che forse è già stato superato, perché le ideazioni che hanno trovato la loro oggettivazione nella tecnica, superano di gran lunga la competenza soggettiva degli uomini che usano la tecnica. Questa sproporzione tra l’estensione della cultura oggettivata, di cui ogni prodotto della tecnica è espressione, e l’inadeguatezza della cultura soggettiva, dovuta al limite delle nostre competenze, determina quella che Günther Anders chiama vergogna prometeica, che consiste:

Nell’incapacità della nostra anima di rimanere “up to date”, al corrente con la nostra produzione, dunque di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti, e di raggiungere i nostri congegni che sono scattati avanti nel futuro (chiamato “presente”) e che ci sono sfuggiti di mano. La nostra illimitata libertà prometeica di creare sempre nuove cose (costretti come siamo a pagare senza sosta il nostro tributo a questa libertà) ci ha portati a creare un tale disordine in noi stessi, esseri limitati nel tempo, che ormai proseguiamo lentamente la nostra via, seguendo da lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto e proiettato in avanti, con la cattiva coscienza di essere antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici.40

Il dislivello prometeico non è dato solo dalla distanza, che si fa ogni giorno più grande, tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, ma anche dal fatto che gli strumenti di produzione (le macchine), di organizzazione (i sistemi), di riflessione (i saperi) accolgono in sé una quantità tale di cultura oggettivata da far apparire la cultura soggettiva di chi li impiega in tutto il suo limite e la sua inadeguatezza, per cui già all’inizio del secolo scorso, Simmel scriveva:

La macchina è divenuta molto più “spirituale” del lavoratore. Quanti lavoratori, persino all’interno della grande industria, sono in grado oggi di capire la macchina con cui hanno a che fare, di capire cioè lo spirito investito nella macchina?41

Ciò significa che l’uomo, nell’età della tecnica, non riesce più a immaginare e tanto meno a prevedere quello che le sue macchine possono fare, non riesce più a sentire ciò a cui lo porta il suo agire, non riesce ad aver coscienza della quantità di conoscenza oggettivata incorporata dalle sue macchine, rispetto alle quali il corpo umano è, nel complesso macchinale, il congegno più asincronizzato.

Questa serie di dislivelli tra l’uomo e il mondo artificiale prodotto dalla tecnica crea quella condizione patologica che denominiamo ansia, la quale non nasce tanto dal “ritmo della vita moderna”, ma dalla complessità della cultura oggettivata incorporata dalla tecnica in rapporto all’insufficienza della cultura soggettiva del singolo uomo incapace di dominarla e quindi di starle al passo, perché le possibilità implicite della tecnica oltrepassano di gran lunga le possibilità di cui l’uomo può disporre in ordine alla sua fantasia, alle sue emozioni e alle sue responsabilità.

Al dislivello tra la cultura oggettivata nell’apparato tecnico, a cui sono da ricondurre le figure dello sviluppo e del progresso, e la cultura soggettiva del singolo individuo, sempre arretrata rispetto alla prima, fa riferimento anche Max Weber nelle sue considerazioni sull’insensatezza che, nell’età della tecnica, vanno assumendo, per il singolo, nozioni fondamentali come la vita e la morte. Scrive in proposito Weber:

In quanto la vita del singolo individuo civilizzato è inserita nel progresso, nell’infinito, per il suo stesso significato immanente non può avere alcun termine. Rimane, infatti, sempre un ulteriore progresso per chi c’è dentro, per cui nessuno muore dopo esser giunto al culmine, perché questo è situato all’infinito. Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva “vecchio e sazio della vita”, perché si trovava nell’ambito della vita organica, perché la sua vita, anche per il suo significato, alla sera della sua giornata gli aveva portato ciò che poteva offrirgli, perché non rimanevano per lui enigmi da risolvere ed egli poteva perciò averne “abbastanza”. Un uomo incivilito, invece, coinvolto nel continuo arricchimento della civiltà con idee, conoscenze, problemi, può diventare “stanco”, ma non “sazio” della vita. Egli, infatti, di ciò che la vita dello spirito di nuovo sempre produce, coglie solo la minima parte, e sempre qualcosa di provvisorio e mai definitivo, e quindi la morte è per lui un accadimento assurdo. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche la vita civile come tale, in quanto appunto, con la sua assurda “progressività”, fa della morte un assurdo.42

Se la cultura soggettiva è rimasta molto arretrata rispetto alla cultura oggettivata, se la trasformazione dell’uomo è rimasta molto indietro rispetto alla trasformazione del mondo, il sigillo della finitezza, prima che nell’essere-per-la-morte come vuole la speculazione filosofica dai Greci a Heidegger, è riscontrabile nella quotidianità della vita quale ci è imposta dal mondo della tecnica, per il quale l’uomo non solo non è ancora all’altezza, per il dislivello ormai incolmabile tra cultura oggettivata e cultura soggettiva, ma non potrà mai essere all’altezza, perché la cultura oggettivata della tecnica è in geometrica espansione.

Se nelle epoche pre-tecnologiche l’uomo misurava la sua finitezza sull’immagine che si faceva della natura o di Dio, oggi, nell’età della tecnica, la misura della sua finitezza è data dal mondo dei suoi prodotti; e se prima erano la terra e il cielo il limite dell’uomo, ora è il mondo della tecnica, rispetto a cui il singolo uomo misura la sua impotenza. La cultura delle cose, infatti, ha di gran lunga superato la cultura degli individui, e il sogno prometeico di dominare il mondo si è capovolto nell’incubo di un mondo tecnico che domina l’uomo.

In questa trasformazione del sogno in incubo sono le radici profonde dell’odierna patologia dell’anima, le cui potenzialità sentimentali, pulsionali ed emotive sono completamente azzerate dalle richieste intellettuali di cui si nutre la cultura oggettivata delle cose rispetto alla cultura soggettiva degli individui. Se è vero, come scrive Simmel, che: “L’intero stile di vita di una comunità dipende dal rapporto tra la cultura oggettivata e la cultura dei soggetti”,43 dobbiamo dire che la cultura dell’età della tecnica è una cultura senz’anima, perché è stato ormai valicato il limite oltre il quale è possibile portare la cultura soggettiva degli individui all’altezza della cultura oggettivata nelle cose.

In questa inadeguatezza, in questo ormai inoltrepassabile dislivello è la radice profonda della malattia dell’uomo contemporaneo, che non riesce più a interiorizzare la produzione di quella intelligenza impersonale, e separata dalla sua, che crea un mondo il quale, per il fatto di non poter essere interiorizzato, resta per molti aspetti straniero.

L’estraneazione dell’uomo contemporaneo, nelle forme dell’indifferenza emotiva, della non partecipazione, dell’afasia comunicativa, dello schematismo emozionale, fino alla depressione e al limite estremo della follia, è solo il sintomo della rottura di quel patto amicale tra uomo e natura che l’uomo aveva conosciuto fin dal primo giorno della sua storia, non in virtù di un’armonia prestabilita come per l’animale, ma proprio grazie e in forza della mediazione tecnica.44

Ma allora la tecnica era uno strumento nelle mani dell’uomo, quindi un contenuto della sua cultura soggettiva, e ancora non si era verificato quel capovolgimento45 che ha fatto dell’uomo un semplice funzionario dell’apparato tecnico, e della sua cultura soggettiva qualcosa di troppo inadeguato rispetto alla cultura oggettivata dispiegata dalla tecnica.

A questo tipo di cultura oggi si sono completamente arresi anche l’istruzione scolastica e, più in generale, gli istituti cosiddetti “di formazione”, che sembrano aver definitivamente rinunciato a ogni ideale educativo e formativo, a vantaggio della pura e semplice acquisizione di strumenti e competenze tecniche. Il fenomeno è antico e in continua progressione, se è vero, come già scriveva Simmel all’inizio del secolo scorso, che:

Mentre l’ideale educativo del XVIII secolo mirava alla formazione dell’uomo, quindi a un valore personale, interno, nel XIX secolo il concetto di “formazione” si è ristretto a una somma di conoscenze oggettive e di tipi di comportamento. Sembra che questa discrepanza si ampli di continuo.46

1 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, Adelphi, Milano 1972, vol. III, 1, §11, p. 75.

2 Id., Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 1, Prefazione, § 3, p. 6: “Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze”.

3 Isaia, 16, 17-22.

4 Genesi, 1, 1-25: “Iddio disse: ‘Sia la luce’: e la luce fu. Vide Iddio che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; e chiamò la luce ‘giorno’ e le tenebre ‘notte’. Così fu sera, poi fu mattina: primo giorno. [...] Poi Iddio disse: ‘Si radunino tutte le acque che sono sotto il cielo in un sol luogo e appaia l’asciutto’. Così fu. E chiamò l’asciutto ‘terra’ e la raccolta delle acque chiamò ‘mari’. E Iddio vide che ciò era buono. [...] Quindi la terra produsse erbe e piante che fanno seme secondo la loro specie e che hanno in sé la propria semenza. E Iddio vide che ciò era buono. [...] Poi pose due grandi luminari nel firmamento del cielo per dar luce sopra la terra, presiedere al giorno e alla notte e separare la luce dalle tenebre. E Iddio vide che ciò era buono. Iddio fece poi le bestie selvagge della terra secondo la loro specie, gli animali domestici secondo la loro specie, e tutti i rettili della terra, secondo la loro specie. Ed Egli vide che ciò era buono”.

5 F. Nietzsche, Der Antichrist. Fluch auf das Christenthum (1889); tr. it. L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, in Opere, cit., 1970, vol. VI, 3, § 30, p. 203.

6 Matteo, Vangelo, 5, 1-12.

7 Agostino di Tagaste, Confessiones (401); tr. it. Confessioni, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1992-1997, Libro I, 5, 5: “Quid mihi es? Quid tibi sum ipse? Dic animæ meæ: salus tua ego sum”.

8 Ibidem.

9 Pindaro, Pitica III, vv. 85-87.

10 Isaia, 16, 17-22.

11 Pindaro, Pitica III, vv. 82-84: “Cosa cerchiamo dagli dèi, conformi / alle menti mortali, / consci di ciò che siamo e del presente”.

12 Agostino di Tagaste, In epistolam Iohannis ad Parthos (415), Discorso II, §§ 8-9; tr. it. Commento alla prima lettera di Giovanni, in Amore assoluto e “Terza navigazione”, Rusconi, Milano 1994, pp. 148-153. Il testo al § 8 recita: “Come potremo amare Dio, se amiamo il mondo? Due sono gli amori; quello del mondo e quello di Dio: se abita in noi l’amore del mondo, non è possibile che entri anche l’amore di Dio. Si allontani l’amore del mondo, e abiti in noi l’amore di Dio (Quomodo poterimus amare Deum, si amamus mundum? Duo sunt amores, mundi et Dei: si mundi amor habitet, non est qua intret amor Dei. Recedat amor mundi, et habitet Dei)”; e al § 9: “Non amate il mondo e neppure le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo l’amore del Padre non è in lui (Nolite diligere mundum, neque ea quæ sunt in mundo. Si quis dilexerit mundum, non est charitas Patris in eo)”. Lo stesso motivo ritorna nel De civitate Dei (413-426); tr. it. La città di Dio, Rusconi, Milano 1984, XIV, 28, pp. 691-692, e nel Commento alla prima lettera di Giovanni, in Amore assoluto e “Terza navigazione”, cit., II, § 11.

13 Gregorio di Nissa, De verginitate, in J.P. Migne, Patrologia græca, in Patrologiæ cursus completus, Paris 1856-1866, vol. XLVI.

14 Atti degli Apostoli, 17, 31-32.

15 Eschilo, Prometeo incatenato, in Tragedie e frammenti, Utet, Torino 1987, v. 251.

16 Genesi, 1, 26: “Poi Iddio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e su gli uccelli del cielo, su gli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie’”.

17 A questo proposito è utile ricordare che la radice indoeuropea della parola cháos è cha, che interviene in vari gruppi di parole quali chásco, chaíno che significano “mi apro”, “mi dischiudo”. Questo riferimento alla radice ci consente di pensare che cháos originariamente non significava tanto disordine e mescolanza, quanto quell’apertura che Esiodo colloca “all’inizio” e “per prima”, prima della stessa terra “nata in seguito”, e prima di tutti gli dèi, dal momento che ogni teogonia e ogni cosmogonia, ogni generazione di dèi, di uomini e di mondi accadono dopo di essa e all’interno di essa. Scrive in proposito Esiodo, Teogonia, Utet, Torino 1977, vv. 116-122: “All’inizio, per primo, fu il Cháos; in seguito quindi la Terra dal largo petto, dimora sicura per sempre di tutti gli immortali, che abitano le cime del nevoso Olimpo, e il Tartaro tenebroso nei recessi della Terra dalle larghe vie; quindi venne Éros, il più bello fra gli dèi immortali, colui che scioglie le membra, che di tutti gli dèi e di tutti gli uomini doma nel petto ogni volontà e ogni accorto consiglio”.

18 Platone, Timeo, 36 a.

19 Aristotele, Etica a Nicomaco, Libro II, 1106 b.

20 Si veda a questo proposito l’ottimo saggio di G. Marramao, Kairós. Apologia del tempo debito, Laterza, Bari 1992.

21 Platone, Leggi, Libro X, 903 c.

22 Eraclito, fr. B 94.

23 Parmenide, fr. B 10.

24 Ivi, fr. B 8, vv. 35-37.

25 Anassimandro, fr. B 1.

26 Eraclito, fr. B 23.

27 B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata (1665, edita postuma nel 1677); tr. it. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Boringhieri, Torino 1959, Parte III, Proposizioni 6-9, pp. 140-142.

28 S. Natoli, Neopaganesimo (1991), in I nuovi pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, il Saggiatore, Milano 1995, p. 26.

29 Omero, Iliade, canto XIX, v. 137.

30 Ivi, vv. 270-273.

31 Platone, Parmenide, 136 e-166 c.

32 Eraclito, fr. B 30.

33 Aristotele, Etica a Nicomaco, Libro VI, 7, 1141 a-b.

34 Genesi, 1, 28 (corsivo mio).

35 Genesi, 2, 19 (corsivo mio).

36 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, capitolo 1, § 2: “L’inviolabilità della natura”, e il capitolo 45: “Tecnica e natura: il capovolgimento di un rapporto”.

37 Sofocle, Antigone, in Tragedie e frammenti, Utet, Torino 1982, vv. 365-366.

38 F. Bacone, Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum (1620); tr. it. La grande instaurazione, Parte seconda: Nuovo organo, Libro II, § 52, in Scritti filosofici, Utet, Torino 1986, p. 795.

39 Esemplare a questo proposito è la considerazione di Aristotele, che nella Fisica, Libro II, 192 b, dice, ad esempio, che la guarigione non ha la sua causa nel medico o nel farmaco, ma nella natura assecondata dal medico o dal farmaco.

40 G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, vol. I: Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution (1956); tr. it. L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sul’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 50.

41 G. Simmel, Philosophie des Geldes (1900); tr. it. Filosofia del denaro, Utet, Torino 1984, capitolo VI, 2, p. 634.

42 M. Weber, Wissenschaft als Beruf (1917); tr. it. La scienza come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1971, pp. 20-21.

43 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., capitolo VI, 2, p. 640.

44 Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., Parte II: “Genealogia della tecnica: l’incompiutezza umana”.

45 Cfr. ivi, Parte IV: “Fenomenologia della tecnica: il grande capovolgimento”.

46 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., capitolo VI, 2, p. 634.