20. Jaspers: la metafisica delle cifre e la ricerca dell’ulteriorità di senso

Filosofare è quel pensare che non si pone alcun limite e non teme alcun pericolo, neppure il pericolo del nulla, perché sa che, solo attraversando anche questo pericolo, è possibile, filosofando, trovare la via.

La filosofia deve rinunciare a qualsiasi soluzione, perché essa è in grado di offrire solo qualcosa che ha una certa analogia con la soluzione, come la liberazione per...

K. JASPERS, Von der Wahrheit (1947), pp. 29,
965.

Che cosa deve fare la filosofia in quel non-luogo che le rimane da abitare dopo che tutte le scienze hanno abitato i loro luoghi e in essi hanno realizzato quell’ideale esplicativo che un tempo era della filosofia? A questa domanda non c’è altra risposta se non quella che prevede la filosofia come ermeneutica del limite che sempre accompagna ogni conoscenza che si realizza nel mondo, e che non consente ad alcun sapere raggiunto di porsi come sapere totale.

Come ermeneutica, la filosofia si applica agli stessi dati a cui si applica la scienza, ma, invece di leggerli come oggetti conosciuti, li legge come cifre rinvianti, nella consapevolezza che il senso delle cose, dei dati, non è tanto in ciò che si dà, quanto in ciò a cui il dato, nel darsi, rinvia. In questo rinvio la cifra gioca un triplice ruolo: fenomenologico, simbolico e desituante.

1. La funzione fenomenologica della cifra

Questa funzione si esprime nella fedeltà al dato, in cui oggi si raccoglie la positività del pensiero e la sua scientificità. Infatti, realizzare forme diverse di pensiero è “fare della letteratura, della poesia, della filosofia”, espressioni, queste, che sottintendono una svalutazione rispetto all’ambito privilegiato del pensiero scientifico che nulla concede alla fantasia.

Ebbene, Jaspers affida proprio alla fantasia il compito di riscattare il pensiero dalla ristrettezza (Enge) scientifica in cui oggi è confinato; ma, da scienziato e poi da filosofo, non rifiuta la lezione scientifica, non stacca la fantasia dal dato, ma la individua proprio nel dato che, nel momento di dare qualcosa, nasconde il tutto, che pure è condizione perché qualcosa si dia:

Per la coscienza in generale la realtà si risolve negli oggetti dell’orientazione nel mondo. Ma nella realtà non ancora risolta razionalmente, e in quella in via di risolvimento, la fantasia coglie l’essere non per averlo presupposto dietro la realtà di fatto, sì da poterlo inferire fantasticamente, ma perché è l’essere stesso che, nella cifra, si rende presente all’intuizione fantastica.1

La fantasia, come funzione cognitiva oltrepassante la datità dell’esperienza, viene presentata da Jaspers, al di là dei limiti estetici in cui è solitamente circoscritta, come una funzione di cui la coscienza ha bisogno a tutti i livelli, da quelli meramente percettivi a quelli storici desituanti. In questo modo Jaspers si ricollega a Kant, per il quale: “La conoscenza percettiva sarebbe impotente senza la sintesi dell’immaginazione”,2 e a Husserl per il quale: “La finzione è la sorgente da cui la conoscenza delle verità eterne trae il suo nutrimento”.3

La datità dell’oggetto, a cui fa riferimento la coscienza in generale nella sua orientazione scientifica nel mondo (wissenschaftliche Weltorientierung), è qualcosa che fenomenologicamente non si dà se non mediante l’intervento di una fede percettiva attivata dalla fantasia, che completa l’apparire e conferisce senso a quell’emergenza che dell’oggetto propriamente appare. E questo perché, scrive Jaspers:

L’essere di cui abbiamo un’esperienza immediata non è che un fenomeno che appare sugli altri, mentre l’essere che conosciamo mediante ciò che appare, in sé, non è immediatamente esperibile. 4

Quando diciamo, ad esempio, di vedere una casa, in realtà vediamo solo una facciata che emerge su uno sfondo che non è percorso direttamente dallo sguardo, ma che è dato come un insieme in cui si distingue la casa. La serie dei rapporti che si concludono nella casa facendola apparire, in sé propriamente non appaiono perché sono nascosti proprio dal lato della casa che si offre alla vista, eppure sono presupposti da quella fede percettiva che consente, in presenza della sola facciata, di “vedere” la casa. Ne consegue, conclude Jaspers che:

Il nostro conoscere procede dalla totalità indeterminata del nostro mondo all’oggetto determinato, per compiersi in una consaputa comprensione del mondo definita e conclusa nei suoi orizzonti.5

Ciò dipende dal fatto che la nostra coscienza è sempre una coscienza situata e, come tale, può aprirsi al mondo solo da un punto di vista (Standpunkt), in una prospettiva, su questi aspetti e solo successivamente su altri. A motivo di questo limite, le cose sono colte per lati, per profili e per adombramenti, che diventano significanti solo se la fantasia li completa e li coordina, conducendoli sulla linea di quei rapporti che l’osservazione, dal punto di vista in cui è situata, non vede, ma suppone affinché ciò che ha sotto gli occhi possa aver senso.

Siccome, però, osserva Jaspers: “Ogni mia visione è legata a un certo punto di vista, e ogni mia ricerca non può mai prescindere dalla mia prospettiva”,6 che cosa spinge a cambiare punto di vista, in modo da aggirare l’oggetto e cogliere quegli aspetti che dal precedente punto di vista restavano celati? Che cosa induce a sospettarne l’esistenza, sì da invitare alla successione dei punti di vista e quindi alla proiezione oltre la propria situazione?

A promuovere la de-situazione non è certo l’apparire dei lati nascosti, che compaiono appunto a desituazione avvenuta, ma è la fantasia che, di fronte al non-concluso apparire delle cose, promuove quella fede percettiva che afferma ciò che propriamente non appare, ma che, nello stesso tempo, l’apparire manifesta come incompiutezza di ciò che appare.

Il campo della fantasia e della fede percettiva che essa promuove è dunque il non-apparire, l’inadeguatezza, il limite di ciò che appare, il suo vuoto, la sua mancanza, a cui la presenza rinvia e che, non colta, non consente di cogliere il senso di ciò che appare. E come a livello percettivo la fantasia promuove quella desituazione dello sguardo che consente, in presenza di una facciata, di vedere la casa che alla facciata dà senso, così a livello metafisico la fantasia desitua il pensiero, affinché questo proceda oltre ciò che è immediatamente presente, per trovarne il senso che la presenza immediata non rivela.

Questo perché il senso delle cose, dei dati, non è tanto in ciò che si dà, quanto in ciò a cui il dato, nel darsi, rinvia. E questo perché, scrive Jaspers: “Ogni ente determinato che mi si presenta si offre come ciò che sta in relazione ad altro a cui rinvia, e in relazione a me a cui sta di fronte”.7 Lo spazio del rinvio è occupato da quella fantasia fideistica che, trattando gli oggetti come cifre, li impiega come termini che rinviano a quell’assenza che dà senso alla presenza.8

Proprio perché abbraccia assenza e presenza, Jaspers chiama la coscienza umana Umgreifende: l’Umgreifende che noi siamo (das Umgreifende, das wir selbst sind) dischiuso a quell’Umgreifende che è l’essere stesso (das Umgreifende, das Sein selbst ist). 9 Questa denominazione vuol sottolineare che la coscienza, prima d’essere coscienza di qualcosa, è propriamente un abbracciare, un com-prendere (um-greifen), un con-essere. Nel suo abbraccio, nel suo “con (um)”, la coscienza trattiene la cosa e il suo altro, che è essenziale per delimitare, determinare e quindi comprendere la cosa. L’altro è ciò che la cosa non è, è il suo non-essere, è ciò a cui rinvia. Essere e non-essere sono dunque il contenuto originario della coscienza, perché, scrive Jaspers:

Ogni essere determinato, ogni essere conosciuto è sempre compreso da un essere più ampio, per cui ogni volta sperimentiamo, oltre alla positiva comprensione di un particolare (e particolare è anche ogni teorizzato sistema della totalità dell’essere), anche ciò che l’essere non è.10

Il rilievo jaspersiano ci invita a riflettere che a ogni nostra puntuale conoscenza si accompagna una negazione e un riferimento. Il termine negato, e al tempo stesso richiamato dalla nonesaustività di ogni conoscenza, è la totalità, in relazione alla quale, la fantasia fideistica legge gli oggetti come cifre rinvianti, e così manifesta a tutti i livelli, siano essi percettivi, storici o metafisici, la propria funzione di trascendenza, di tensione desituante oltre ciò che è effettivamente percepito, storicamente ordinato, ontologicamente fissato una volta per tutte.

Leggere il mondo come scrittura cifrata significa allora assumere una disposizione che, di fronte alle cose, non si trattiene nell’ambito circoscritto del loro apparire per procedere a una si-stemazione del dato (questo è quanto fa la scienza), ma oltrepassare il dato verso quell’assenza a cui l’apparire rinvia, ma che in sé non appare (in quest’ambito opera la filosofia).

Lo spazio di questa assenza, che si estende dall’apparire puntuale alla totalità che non appare, è lo spazio della possibilità che la cifra richiama come completamento, come seguito, come futuro, come senso di ciò che appare. In questo modo la cosa che appare, e che con il proprio apparire attesta il proprio essere, letta come cifra, dispone sulla via del non-essere, sulla via di ciò che essa non è, ma che al tempo stesso non è impossibile che a essa convenga, quindi sulla via del possibile.

Trascendere è percorrere la via del possibile in cerca di quell’ulteriorità che custodisce il senso di ciò che appare e che la puntualità dell’apparire lascia tras-parire. E-sistere è desituarsi da questa puntualità, è disporsi nel campo dell’assenza, ove rinvenire un senso è possibile. Per questo Jaspers chiama l’esistenza: “esistenza possibile (mögliche Existenz)”, e nella possibilità così dischiusa riconosce il senso ultimo della libertà:

Soltanto per l’esistenza, la trascendenza diventa quella realtà (Wirklichkeit) che, sfuggente in ogni fenomeno, ma per se stessa mai sfuggente, è propriamente ciò grazie a cui sono libero.11

Come e-sistenza, l’uomo vive nel campo dell’assenza e del possibile. Questa assenza, ricoperta dalla lettura cifrata del mondo, non si traduce in un rifiuto del mondo, in una sua soppressione, ma semplicemente in una sospensione del suo senso. Dice Jaspers: “Il mondo viene, per così dire, posto nella dimensione dell’esser-sospeso”.12 La sospensione (Schwebe) vuole evitare due false assolutizzazioni che nascono da un improprio isolamento (isolierende Verabsolutierung): l’assolutizzazione della trascendenza, intesa come realtà assolutamente separata dal mondo, e l’assolutizzazione del mondo come unico ambito in cui ogni senso e ogni significato si risolve.

Nel primo caso la fantasia fideistica si tradurrebbe nell’evasione fantastica e, al limite, nell’allucinazione, nel secondo caso l’uomo sarebbe privato della sua e-sistenza come possibilità che, desituandosi dal campo circoscritto della presenza (Gegenwartigkeit), si protende verso quell’assenza (Nichtgegenwartigkeit) che è l’essere come lontananza dalla presenza attuale, come sporgenza di tutta l’oggettività nel suo futuro, nel suo avvenire (Zukunft), che è poi l’advenire (zu kommen) all’uomo.13

La presenza “avviene” in uno sfondo d’assenza che consente a ciò che si presenta di presentarsi e di apparire per quello che è. Nella struttura originaria dell’apparire, presenza e assenza si richiamano vicendevolmente, e già in questo richiamo si raccoglie quella tensione metafisica (metaphysische Spannung) che di fronte al dato non si arresta, ma, sulla scorta della negatività con cui ogni dato si presenta, procede in cerca della pienezza di senso che, stante la negatività di ciò che si presenta, è sempre un al di là.

A proposito dell’esperienza metafisica (metaphysische Erfahrung), pensata come un’esperienza di fondo inscritta in ogni puntuale esperienza, intesa come percezione di senso (Sinneswahrnehmung), Jaspers osserva che:

Al fondo di ogni esperienza c’è l’esperienza metafisica che mi pone davanti all’abisso, dove sperimento tutta la carenza desolata che si determina quando l’esperienza si riduce a mera esperienza dell’esserci, quanto la ricchezza di senso che si produce quando l’esperienza, rendendosi trasparente, diventa cifra.14

Senso significa a un tempo “significato” e “rinvio”. E come nell’esperienza percettiva, le altre facce dell’oggetto, nascoste dalla faccia che appare, sono colte in assenza, seguendo il rinvio dei profili della faccia esposta, così, nell’esperienza metafisica, la pienezza di senso, l’esperienza dell’essere è esperienza di una presenza e insieme di un’assenza (trostlosen Mangel) che traspare (transparent wird) nella presenza percepita (in der blossen Deseinserfahrung).

In tal modo Jaspers capovolge l’asserto empirista esse est percipi nel suo contrario esse non est percipi, perché l’essere si annuncia come mancanza dell’apparire, come assenza di senso, come quell’ulteriorità che la datità oggettiva lascia trasparire. In questo senso, scrive Jaspers:

Gli oggetti del mondo sono trasparenti. Dall’oscurità dell’essere essi ci vengono incontro come suoi aspetti, come suo linguaggio. Essi non sono conclusi in se stessi. Assunti nel loro isolamento si rivelano privi di senso. Dissolvendo la loro trasparenza appaiono incompiuti (endlos), nulli (nichtig), non veri (un-wahr). [...] Assunti invece come cifre, ovvero come manifestazioni dell’essere, gli oggetti diventano suo linguaggio, nel senso che, provenendo dall’essere, mi colpiscono come ciò che all’essere rinviano quando tento di costruire un senso.15

Raccogliendo queste precisazioni possiamo concludere su una duplicità custodita dall’apparire di ogni oggetto nel mondo. Esso può arrestare a sé l’itinerare della coscienza nelle catene dell’oggettività (in Fesseln an das Gegenständliche), oppure può rilanciarlo in vista di una determinazione ulteriore, di un senso più radicale. Leggere il mondo come scrittura cifrata significa allora decidersi per questa seconda possibilità, sentire la passione per più profonde chiarezze ontologiche, in cui si raccoglie il senso di ciò che nel mondo inadeguatamente appare e, nella sua inadeguatezza, inevitabilmente rinvia.

2. La funzione simbolica della cifra

A questo punto si comprende la funzione simbolica della cifra intimamente connessa alla tematica della trascendenza immanente. Come cifra ogni cosa parla di sé, e insieme di un assoluto che la abita e la trascende e che, partecipandosi nella cifra, illumina, da un punto e da un tempo, l’intera realtà.

Il senso della trascendenza immanente, questa concezione dell’essere tanto contraddittoria per la metafisica tradizionale che procede secondo la logica dell’intelletto e che non conosce altra alternativa se non quella del dualismo metafisico o del monismo panteista, si lascia intendere solo recuperando nella cifra l’antico significato di symbolon, riscattandolo dall’usura del linguaggio che abitualmente lo impiega nell’equazione simbolo-convenzione-arbitrio.

Originariamente symbolon era quella tessera ospitale, quel coccio di pietra che, spezzato, testimoniava il legame tra due persone, due famiglie in procinto di separarsi. Ognuno portava con sé il segno di una comunione, di un patto amichevole che la distanza non poteva annullare. Se poi accadeva di ricongiungersi, allora si procedeva alla ricomposizione delle due metà, e l’unità così ottenuta testimoniava, dopo l’assenza, un’intimità ininterrotta, un legame che non era stato spezzato.

Il significato del termine successivamente si evolse, ma non smarrì il suo senso originario. Nel Simposio di Platone ritroviamo la parola per designare il carattere proprio dell’amore che è simbolo di quell’unità che lega gli uomini, in quanto provenienti da una stessa origine e in quanto alla ricerca, con il consenso pietoso degli dèi, di quell’unità che, proprio a causa degli dèi, era stata spezzata. Per questo ogni uomo è simbolo, tessera dell’uomo totale: “hékastos oûn emôn estin anthrópou sýmbolon”.16 Non diversamente Jaspers parla dell’amore come di ciò che collega (das Verbindende)dalla divisione, e, nell’unità raggiunta, dischiude all’essere (Seinsoffenheit): “L’amore è ciò che, dalla divisione degli enti, giunge all’uno che è apertura all’essere. Come tale l’amore è simbolo”.17

“Cifra”, “simbolo” sono dunque espressioni che dicono unità da remote distanze, tensione verso un’origine (Ursprung) che si presenta ritraendosi, perché, scrive Jaspers:

Nei confronti della nostra volontà di sapere, che pretende di afferrare l’essere all’origine (am Ursprung), l’essere si comporta come ciò che indietreggia (zurückweichen) e che lascia, nella forma degli oggetti che ci stanno dinanzi, dei semplici resti (Reste), delle tracce (Spuren).18

In questi resti, in queste tracce, custodite dalla funzione simbolica della cifra, si raccoglie l’annuncio che l’essere fa di sé all’uomo che si de-situa dalla mera oggettività per sporgere, come e-sistenza, oltre la presenza che rinvia:

Chiamo cifra l’oggettività metafisica, che in sé non è la trascendenza, ma il suo linguaggio. In questo linguaggio la coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt) non coglie né avverte alcuna trascendenza, perché il suo genere e il suo modo di esprimersi sono significanti solo per l’esistenza possibile (mögliche Existenz).19

Ponendosi tra esistenza e trascendenza (Chiffre ist zwischen Existenz und Transzendenz),20 la cifra è simbolo di una distanza; non della distanza che intercorre fra l’oggetto e la sua replica o specularità simbolica, ma di quella che intercorre fra l’essere e ciò che dell’essere la trascendenza porta in presenza (Die Chiffre ist das Sein, das Transzendenz zur Gegenwart bringt).21

Qui la funzione simbolica della cifra non esprime una somiglianza di rapporti come nel caso dell’allegoria, ma esprime un rapporto effettivo e reale tra la presenza e l’assenza, tra ciò che l’essere è, e ciò che l’essere lascia nella presenza come sua traccia. Siamo dunque alla “tessera” platonica che, in un punto, lascia trasparire il resto dell’essere.

Questa distanza e questa intimità nella distanza sono accessibili all’uomo non come coscienza in generale che si trattiene esclusivamente tra gli oggetti dal cui rapporto costruisce sensi e significati, ma all’uomo che, come e-sistenza, si desitua dall’oggettività per protendersi in quella distanza che, ricoperta dalla mediazione simbolica, delinea un nuovo senso del mondo. Un senso che non è più fisico, come quello raggiunto dalla coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt), ma meta-fisico di cui è capace solo la coscienza assoluta (absolute Bewusstsein oder Bewusstsein des Seins). Questa infatti, abbraccia (um-greift)assenza e presenza, e quindi, dalla distanza compone (sym-bállein) vicinanze e intimità.

Ma la cifra è un dono dell’essere (ein Geschenk aus dem Ursprung des Seins), non una creazione progettata dalla coscienza (nicht durch Plan hervorzubringen).22 Anzi, la coscienza nasce come coscienza assoluta, e quindi come con-scienza di una presenza e di una assenza, perché l’essere nel presentarsi indietreggia, nell’annunciarsi si ritrae, perché è trascendenza immanente.

Se fosse pura trascendenza o pura immanenza, come nel caso del dualismo metafisico o del monismo panteista, non si darebbe altra coscienza che quella “in generale” che sa tutto dell’immanenza e nulla della trascendenza; non si darebbe cifra come presenza che rinvia a un’assenza, come linguaggio di un’ulteriorità, di un “al di là” che si annuncia nell’“al di qua”. Quindi se si vuole mantenere la coscienza simbolica, che sola consente di oltrepassare l’immediatezza della pura presenza, allora, scrive Jaspers: “L’al di là come puro al di là (das Jenseits als Jenseits), come realtà totalmente altra deve cadere come mera illusione”.23

La cifra non appartiene mai all’“al di qua” o all’“al di là”, al campo dell’immanenza o a quello della trascendenza; il suo valore consiste proprio nel fatto che queste opposizioni, derivate da una teoria metafisica di carattere dualistico, vengono superate. Essa non è “l’uno o l’altro”, ma rappresenta “l’uno nell’altro” e “l’altro nell’uno”, come la tessera platonica che in un punto raccoglie i distanti, unifica i differenti senza annullare la differenza. In questo senso, scrive Jaspers:

Dopo che la trascendenza e l’immanenza sono state pensate come assolutamente distinte l’una dall’altra, è necessario pensarle dialetticamente nella cifra come trascendenza immanente, se non si vuole che la trascendenza vada irrimediabilmente perduta.24

Nella cifra c’è prossimità e distanza (Nahe und Ferne), c’è unità che non annulla la differenza (Einheit ohne Identität).25 La cifra custodisce dunque la differenza ontologica per cui l’ente non è l’essere, anche se nell’ente l’essere si annuncia e, come trascendenza immanente, si partecipa e si trascende, cioè lascia sussistere in sé ogni realtà e insieme la rende espressiva della sua presenza ulteriore che è poi la sua assenza. Per questo la cifra è sempre nella parte, ma annuncia il tutto; afferma l’unità, ma custodisce la differenza.

Questa duplicità del carattere simbolico della cifra va gelosamente mantenuto. Spezzarla nel senso della differenza equivarrebbe ritornare a quelle espressioni ontologiche superate dalla riflessione periecontologica,26 spezzarla nel senso dell’identità significherebbe cadere nel fraintendimento magico, che nasce in occasione della solidificazione (starrwerden) della cifra.

Per evitare queste deviazioni, che risolvono la realtà nell’assoluta trascendenza o nella piatta immanenza, bisogna mantenere il carattere simbolico della cifra, che consente di traguardare (quer zu sehen) l’identità nella differenza. Infatti, a differenza di quanto accade nell’allegoria che parla d’altro (állos agoreúo), nella cifra il senso simbolico è costituito nel e dal senso letterale. Per questo, scrive Jaspers:

Nella scrittura cifrata è impossibile separare il simbolo da ciò che è simboleggiato. E questo perché la scrittura cifrata rende presente la trascendenza, ma non si lascia interpretare. Se la si interpretasse, si tornerebbe a separare ciò che sussiste solo nell’unione reciproca e si finirebbe col mettere a confronto la scrittura cifrata con la trascendenza, che invece si limita a manifestarsi in essa senza identificarvisi. [...] Non si può interpretare la scrittura cifrata come si fa col simbolo, quando con questa parola si intende un significato che si riferisce a qualcosa che, in qualche luogo sussiste e può essere mostrato, perché la scrittura cifrata è come si presenta in se stessa e non come è chiarita da altro.27

Ma proprio in se stessa, la scrittura cifrata si presenta come un rinvio, non dal simbolo al simboleggiato, dal senso simbolico a quello letterale, ma dal senso presente a un’ulteriore partecipazione di senso. Per questo non si può dire che nella cifra va perduta la differenza tra trascendenza e immanenza. La distinzione non è smarrita perché l’unità, che in ogni cifra si manifesta, è a un tempo rinvio e assenza: assenza del senso assoluto, dell’essere incondizionato che l’oggetto-cifra esprime e insieme richiama, manifesta e a un tempo nasconde. Infatti, scrive Jaspers:

Nel simbolo, essere e apparire si trovano indivisi. [...] Il significato dei simboli è la presenza dell’essere, che nel simbolo si nasconde e a un tempo si rivela (zugleich verschleiert und offenbart).28

Se dunque la cifra, mentre identifica, mantiene la differenza, possiamo capire perché, secondo Jaspers, in tanto può darsi una coscienza simbolica in quanto l’uomo è costituito nella differenza, in quanto è originariamente definito, come e-sistenza, nella trascendenza dell’essere.

La controprova di questo asserto Jaspers la trova nel pensiero moderno, al culmine della parabola hegeliana, dove tra finito e infinito non si dà differenza, per cui la libertà dello Spirito non può esprimersi se non nella perfetta adeguazione ai singoli contenuti. Il suo futuro è la sua morte, il suo compimento è l’ultimo passo della filosofia, perché la coincidenza di finito e infinito è totale, e quindi la trascendenza è irrimediabilmente risolta nell’immanenza:

Mentre l’idealista, per quanto si liberi dall’alterità, rimane sempre presso di sé, e per quanto eserciti la presunta libertà assoluta di cui ci parla la filosofia di Hegel, giunge alla fine a un’esistenziale assenza di terreno, l’uomo che comprende i simboli si imbatte, in essi, nella pienezza della realtà. Il loro significato, infatti, è il reale stesso. La cosa importante è come io sperimento il reale.29

Se nell’apertura del pensiero all’essere sperimento il reale come perfetta identità di essere ed ente, allora non esiste alcuna possibilità per il costituirsi di una coscienza simbolica, se invece il pensiero si afferma come pensiero dell’essere, ma nella sua differenza dall’ente, allora l’immanenza dischiude la trascendenza e, con la trascendenza, l’esistenza e la coscienza simbolica. Infatti, scrive Jaspers:

Realtà empirica e realtà simbolica sono due aspetti dell’unico mondo che si rivela o alla coscienza in generale o all’esistenza possibile. Il mondo è realtà empirica se, prima di ogni interpretazione, è considerato nella sua datità e nella sua universale conoscibilità, è invece simbolo se è considerato come immagine dell’essere autentico.30

Ciò significa che la dimensione del simbolo viene a precisarsi come la stessa dimensione del se-stesso (das Selbstsein), per cui nella lettura della cifra si è ben lontani dal percepire un essere indipendentemente da se stessi, perché questa lettura è possibile solo mediante la decisione dell’esistenza che non si accontenta del dato, ma accoglie il rinvio. Per questo, scrive Jaspers:

Nel leggere la cifra io sono responsabile (verantwortlich), perché la leggo solo mediante il mio me-stesso, la cui possibilità e veridicità mi si rivelano nel modo di eseguire la lettura. Anche la verifica non avviene con altro criterio che non sia il mio me-stesso che si riconosce nella trascendenza richiamata dalla cifra.31

Tale momento etico di responsabilità si risolve sullo sfondo periecontologico-esistenziale, per cui nell’identità non si tralascia la differenza, nella presenza non si annulla il rinvio a quell’assenza, in cui il senso ultimo della presenza è custodito. In questa duplicità di presenza e assenza ritroviamo espresso il senso profondo della cifra, che è poi quello originario della tessera platonica, quale testimonianza di una appartenenza che è insieme tensione verso una distanza non totalmente percorribile. E questo perché, scrive Jaspers:

Noi non viviamo immediatamente nell’essere, perciò la verità non è il nostro possesso definitivo, noi viviamo nell’essere temporale, perciò la verità è la nostra via.32

Come essere temporale, l’uomo non può superare la singolarità del suo atto coscienziale, la sua determinazione nel tempo, la sua situazione prospettica. Può tematizzare l’assoluto, ma sempre a partire dalla determinazione situazionale, dal proprio esser qui e non là, ora e non allora. Questo fatto intrascendibile non consente all’uomo di pareggiare l’incommensurabilità dell’essere, di estinguere totalmente la negatività connessa alla non esaustività della propria individuazione prospettica, perché, scrive Jaspers:

L’essere della trascendenza non si presenta all’esistenza nella sua inseità, perché non esiste alcuna identità tra esistenza e trascendenza, ma si rende presente come cifra, e quindi non come un oggetto determinato, ma traguardando attraverso ogni oggettività (quer zu aller Gegenständlichkeit).33

Se dunque l’uomo non può uscire dalla propria puntuale prospettiva, e non può pensare né parlare se non oggettivando, potrà scorgere l’assoluto, che è irriducibile a ogni prospettiva e a ogni oggettivazione, solo “traguardando”, solo “obliquamente (quer)”, solo “attraverso”, perché:

Noi possiamo parlare solo in oggettività. Un parlare non-oggettivo, un pensare non-oggettivo non esistono. Ma nell’oggettivo e nel soggettivo riecheggia qualcosa di sovra-oggettivo e di sovra-soggettivo.34

La voce che riecheggia è quella della trascendenza immanente:

La trascendenza immanente è immanenza che subito svanisce, ed è trascendenza che nell’esserci si fa linguaggio come cifra.35

Con la cifra, l’oggettività non si risolve in una sorta di esperienza mistica, perché l’oggettività resta il piano in cui la non-oggettività dell’assoluto si annuncia (das Gegenständlichwerden eines an sich Ungegenständlichen),36 nello stesso tempo, però, come semplice oggettività è superata, in quanto il non-oggettivo che si annuncia non si lascia comprendere (begreifen) dalle categorie dell’oggettività perché è Umgreifende. “La cifra che lo annuncia non si comprende, ma nella cifra ci si sprofonda.”37

Lo sprofondare (das Versenden) nella cifra jaspersiana richiama l’esser gettati (bállein) in quell’unità che, nel simbolo, è data e sottratta, è presente e assente, in parte raggiunta ma solo come progetto, come direzione, come via. Lungo la via ci si può arrestare. Non assecondando il rinvio, si possono costruire dei sensi accoglienti che riducono la tensione e acquietano l’uomo in quegli interessi che l’immanenza non manca di offrire, quando riesce a mettere a tacere la voce dell’essere e a solidificare la coscienza simbolica nel sistema, nel dogma, nel dettato ipnotico che, ripetendo se stesso, si autovalida e si spaccia per comune verità.

Allora è il momento di desituarsi, di recuperare con la coscienza simbolica quell’assenza e quella tensione che sono le condizioni del progettare, dell’essere per via, quindi dell’e-sistenza che, pur essendo sempre situata in un esser-ci (Da-sein), non accetta di essere definitivamente conclusa nel suo “ci”.

3. La funzione desituante della cifra

Qui si comprende la funzione desituante della cifra. La coscienza simbolica conduce dall’esserci (Dasein) all’esistenza (Existenz), dalla situazione che circoscrive e conclude alla desituazione come es-posizione, come oltrepassamento, come sporgenza dall’orizzonte circoscritto dalla situazione verso quell’assenza a cui la cifra, nella sua ricerca di senso, rinvia. La situazione è la telluricità dell’esistenza, il suo essere legata a una terra, a una storia, a un tempo, che non sono rispettivamente la totalità della terra, della storia, del tempo. Infatti, scrive Jaspers:

Nella situazione in cui mi trovo, proveniente da un passato e proiettato in un futuro, non sono all’inizio e non sono alla fine. Eppure, situato tra l’inizio e la fine, domando di questo inizio e di questa fine.38

Alla coscienza simbolica la situazione si offre, al pari di ogni cifra, come sintesi di presenza e assenza, tipico di quel trovarsi da un passato verso un futuro, i cui lineamenti si smarriscono in un’oscurità che proietta la sua ombra sul presente, che così rivela presso di sé un’assenza di senso, il non senso del suo “ci”. Il “ci (da)” è ciò che definisce l’esser-ci (Da-sein), la situazione sorpresa nella sua semplice presenza, nel suo mero esser lì e non altrove, ora e non allora, senza ragione, senza perché.

La constatazione non ha mire teleologiche, non cerca fini né cause, ma semplicemente l’altro, a cui la situazione rinvia quando dice di sé, quando appare nel suo essere, ma nell’apparire si qualifica rinviando a ciò che non è. Questo non-essere non le sta semplicemente accanto, ma la costituisce intimamente, perché la determina. Determinandola, la fa essere quella che è, e a un tempo la rinvia oltre il proprio confine: “È infatti di ogni essere determinato l’essere in relazione ad altro da cui è distinto”.39

La coscienza dell’esserci (Bewusstsein als Dasein) può aprirsi “qui” e “adesso”, solo se con-tiene, oltre alla propria presenza, anche la propria assenza, che non è semplicemente contigua alla presenza, ma costitutiva, intima, dal momento che la presenza si scopre proveniente da... e proiettata verso...

Per la coscienza che si scopre nella sua situazione, percorrere l’assenza significa de-situarsi, quindi e-sistere, liberarsi da... e verso..., trascendere, non per mera curiosità, ma perché sollecitata dalla propria situazione che dice provenienza, rinvio, rapporto, e che si offre come situata in un orizzonte manifesto, e situante in un orizzonte che è celato proprio dall’emergenza dell’orizzonte manifesto.

Nella sua situazione la coscienza con-tiene quindi l’essere che appare e il non-essere a cui succede o da cui quell’apparire si distingue. In quel non-essere la coscienza non può pensare il nulla, perché al nulla che cosa potrebbe succedere, e dopo il nulla che cosa potrebbe apparire? In quel non-essere, la coscienza pensa l’essere autentico che, siccome non coincide con alcun ente, né con alcuna totalità ontica, può indifferentemente chiamarsi essere o nulla (Es ist ebenso das Nichts wie das eigentliche Sein).40

Dalla situazione all’essere, il sentiero da seguire è il sentiero dell’assenza, è il sentiero che nega l’assolutizzazione di ogni puntuale presenza e di ogni orizzonte che, concluso, vorrebbe concludere l’itinerare dell’uomo, ridurne l’ansia che sempre accompagna la ricerca di un’ulteriorità che si annuncia indietreggiando, che si offre assentandosi, lungo una via su cui lascia di sé solo delle tracce, delle cifre da decifrare.

Se l’essere è aperto nella sua infinita pienezza, ma celato nel non-essere di ogni apparire, la coscienza umana, che è sempre situata in un determinato apparire, potrà desituarsi in direzione dell’essere solo ponendosi sulla strada del non-essere, e, nella negazione di ogni sapere concluso e di ogni orizzonte limitato, potrà “traguardare (quer zu sehen)” l’essere che da sempre la abita. Su questo difficile sentiero del non, che è negazione di ogni limite perché suo oltrepassamento, Jaspers coglie il senso dell’o-perazione filosofica fondamentale (philosophische Grundoperation), in cui si custodisce l’essenza dell’e-sistenza, in quanto de-situazione, oltrepassamento e quindi libertà, intesa come liberazione dai vincoli della situazione e come risposta all’appello dell’essere. Scrive in proposito Jaspers:

Noi eseguiamo l’operazione filosofica fondamentale quando, oltre ogni ente determinato, oltre ogni determinato orizzonte che ci appare, ci riferiamo col pensiero (über-hinaus-denken) all’Umgreifende. L’Umgreifende è ciò in cui si trova tutto ciò che appare, o che è lo stesso, è la condizione grazie alla quale, ciò che propriamente è, ci appare. L’Umgreifende non è la totalità che risulta dalla somma delle parti, ma la totalità che per noi rimane dischiusa come fondo originario.41

Con l’esecuzione dell’operazione filosofica fondamentale, l’uomo oltrepassa (über-hinaus) la sua situazione, non nel senso che l’abbandona ponendosi come astratta soggettività senza terra, senza tempo e senza storia, ma nel senso che, nella storicità della situazione, si desitua, ponendosi in relazione a quell’oltre che nella situazione si annuncia.

Ma per questo è necessario che la situazione si decanti, vale a dire che l’oggettività e la soggettività che la costituiscono non facciano orizzonte concluso, ma si rapportino come in un dialogo si rapportano domanda e risposta, dove la domanda rinvia alla ricerca di un senso, e la risposta, incapace nel suo limite di offrirlo, lo lascia trasparire.

Fuor di metafora, è necessario che l’oggetto abbandoni l’opacità del dato e, nel darsi, evidenzi il rinvio, e che il soggetto abbandoni le catene che lo legano all’oggettività del dato (in Fesseln an das Gegenständliche) e, oltrepassandolo, pensi l’ulteriorità (uberhinaus-denkt) che si annuncia sulla traccia del rinvio.

L’operazione filosofica fondamentale, allora, è eseguibile solo se l’oggetto diventa cifra che richiama una distanza, e l’esserci e-sistenza che si desitua. Ciò è possibile solo se si intende la relazione soggetto-oggetto come una scissione (Spaltung) e la situazione che la esprime come un limite (Grenz-situation) da spezzare (durchbrechen), perché la trascendenza si manifesta solo nella rottura (Bruch) dell’immanenza, attraverso la quale (Durch-bruch) e nella quale (Einbruch) giunge il suo appello.42

Affinché ci sia cor-rispondenza all’appello, l’uomo è stato donato (geschenkt werden) nella libertà. La libertà non è una proprietà dell’uomo, ma un dono dell’essere. In questo dono si esprime l’essenza dell’uomo come e-sistenza de-situantesi, capace cioè di oltrepassare la propria situazione. “Questo significa ‘animale non ancora stabilizzato’ come diceva Nietzsche.”43

Secondo Jaspers, infatti, per accertarsi dell’origine della nostra libertà è necessario un capovolgimento (Umkehr) del nostro modo di pensare, e precisamente: da un pensare che è andato smarrito nella dimensione oggettiva a un pensare dalla dimensione dell’Umgreifende. In tale pensare si è aperti a un udire (Hören), ma si tratta di un udire che è sempre nel pericolo (im Gefahr) di non riuscire a comprendere la voce. Si tratta di una certezza (Gewissheit) che non è mai abbandonata dall’insicurezza (Unsicherheit), che non è protetta da alcuna autorità.44

L’insicurezza nasce con l’abbandono del mondo oggettivo, da cui ci si desitua non appena l’oggetto-cifra lascia udire la voce dell’ulteriorità che, nell’oggettività, si annuncia come assenza, come carenza di senso. De-cidersi (ent-scheiden) per quell’assenza è tagliare (scheiden) l’orizzonte concluso della situazione e quindi trovarsi improvvisamente in un vuoto di contenuto (gehaltlose Leere), in un’assenza di terreno (Bodenlosigkeit) che non è più rassicurante come quella terra familiare, quella storia e quel tempo che avevano ospitato l’esserci nella sua situazione. E-sistere, de-situarsi, de-cidersi, cor-rispondere a quel dono dell’essere che si chiama libertà è rischiare senza protezione (abschutzlos), senza alcuna garanzia (keine Garantie).

L’oltrepassamento richiesto dall’operazione filosofica fondamentale porta quindi con sé i toni dell’abbandono (Hingabe) che, prima di essere un abbandono all’essere, è abbandono di un terreno sicuro (festen Boden), per un itinerario che offre solo cifre da decifrare, simboli che richiamano distanze, intimità vissute nell’assenza, dove nessun sapere assicura. Infatti, con l’abbandono della situazione, al sapere (Gewusstheit) subentra una certezza (Gewissheit) che non è più vincolante (zwingende) come quella che anima la scienza e la rigorosa razionalità del sistema, ma è solo convinzione che testimonia (Überzeugung) una fede (Glaube) che non sa, ma semplicemente crede.

Il rischio della fede conferisce serietà (Ernst) all’impegno e-sistenziale, e quindi all’uomo che, de-cidendosi per questo rischio, non rinuncia alla propria essenza, ma la realizza come apertura (Offenheit) all’essere e come tensione (Spannung) protesa a ricomporre con l’essere quel patto amicale (sýmbolon) che ogni situazione storica minaccia di spezzare, quando conclude l’uomo nel suo spazio, nel suo tempo, tra le sue cose, che non hanno altro futuro se non quello predisposto dal progresso.

4. La fede filosofica e la trascendenza immanente

Se la cifra è rinvio a quell’assenza che nella presenza si annuncia, la coscienza simbolica, che legge il mondo come una scrittura cifrata, è la stessa intelligenza dell’assente, quindi la stessa apertura del possibile. Nel possibile si inscrive l’esistenza (mögliche Existenz), la libertà come condizione della possibilità dell’esistenza e la fede che accompagna, senza garanzia, ogni progetto desituante.

Nel progetto desituante si aprono tanto il futuro storico quanto l’al di là metafisico. Sia l’uno che l’altro mantengono stretto il legame con la storicità della situazione, per evitare di tradursi rispettivamente nell’utopia che non è in alcun luogo (ou tópos) e nella fantasia mistico-religiosa che fa della trascendenza immanente una pura trascendenza senza relazione e senza contatto.

L’unità di presenza e assenza, in cui si raccoglie il senso della cifra, l’unità di ente ed essere (che non è identità, ma identità-differenza, trascendenza immanente), è data anche nella più modesta percezione che evidenzia una parzialità sullo sfondo di una totalità sfuggente, un’inadeguatezza di senso che inevitabilmente rinvia.

Ciò significa che la possibilità dell’espressione simbolica non nasce da analogie esteriori o da esigenze fantastiche, ma ha il suo fondamento nell’essere stesso di ogni fede che, presentandosi, attesta la disequazione parte-tutto, che non consente alla coscienza di trattenersi nella parte presente, ma le impone un proseguimento nell’assenza a cui rinvia.

Se la forza della cifra sta nella sua ambiguità (die Vieldeutigkeit der Chiffren) che la fa essere richiamo di una presenza e di un’assenza “unità di un essere del mondo e della trascendenza (die Einheit eines Weltseins und der Transzendenz)”,45 allora la sua capacità di incidenza sarà legata all’equilibrio dialettico delle sue componenti, perché una semplice tensione alla trascendenza sarebbe altrettanto sterile quanto una pura adesione al dato storico.

Un rapporto all’essere che volesse evitare la propria situazione temporale sarebbe un rapporto mistico che non impegna l’esistenza che è sempre situata, sarebbe una fantasia religiosa incapace di desituare, perché, trascurando la storicità dell’uomo, ne dimenticherebbe la realtà. D’altra parte, la semplice adesione al dato storico costringe l’uomo o a vivere nell’immediatezza dell’evento, o, nel caso lo desituasse, lo desituerebbe all’interno del sistema che controlla tutti gli eventi, trattenendolo così, nonostante le apparenze, nella sua insuperabile situazione.

Ne consegue che la cifra è tanto più concreta quanto più è ambiguamente dialettica, ossia quanto più trattiene presso di sé la situazione storica e la dimensione trascendente. Lo smarrimento di uno dei due termini è la solidificazione della cifra (das Starrwerden der Chiffren), il suo irrigidimento in un al di là fantastico e storicamente non incidente, o in un al di qua oggettivo incapace di desituare.

Sono per Jaspers esempi di solidificazione delle cifre le costruzioni ontologiche e teologiche fornite rispettivamente dalla metafisica e dalle religioni tradizionali, che dalla metafisica hanno mediato l’impianto concettuale valido per ogni intelletto (das Gleiche für jeden Verstand). Pensare metafisicamente o religiosamente con la coscienza in generale, che opera sulla base dell’universale validità, significa concludere scientificamente e non filosoficamente o religiosamente, significa matematizzare e non pensare o disporsi alla preghiera. Si abolisce il mistero che accompagna l’ulteriorità assente, per risolvere l’ulteriorità dell’Umgreifende nella comprensione raggiunta dal concetto (Begriff).

La cifra, irrigidita nella de-terminazione concettuale, non è più occasione di rinvio, ma categoria escludente che, raccogliendo e precisando in sé ogni possibile senso, non tollera forme di oltrepassamento, polivocità di sensi, diverse interpretazioni. L’intolleranza pratica degli istituti storici che nascono a difesa dell’irrigidimento della cifra è solo un fenomeno secondario dell’irrigidimento teoretico della cifra che, tradotta in concetto universalmente valido, è assunta come criterio per la divisione (Teilung) degli uomini in aderenti ed eretici o separati dalla comune adesione.

Nella mediazione cifrale, che dal noto rinvia all’ignoto, richiamato dall’inadeguatezza e dalla carenza di senso di ciò che si notifica, quanti s’avventurano con-dividono (mit-teilen)lo stesso destino, pertanto tra di loro possono comunicare (mitteilen), a differenza di coloro che, aderendo incondizionatamente a un concetto irrigidito nell’universale validità concettualmente raggiunta, non hanno più niente da dire.

Non sono compagni di viaggio (Mit-reisende), ma semplici con-venuti (Überein-gekommen) in una meta ritenuta da tutti e per tutti definitiva. La comunicazione (Mitteilung) non è più un trovarsi in quel momento mediazionale (Mitteilung) della cifra che dalla presenza conduce all’assenza propria dell’ulteriorità dell’essere, ma si riduce all’avere in comune lo stesso concetto del mondo e di Dio, concetto che non rinvia oltre a sé, ma tutti trattiene nella cattolicità dell’adesione.

Con il termine “cattolicità (Katholizität)” Jaspers non si riferisce a una figura storica, ma a un modo di pensare, e precisamente a quel modo che accosta la realtà non per leggervi delle cifre rinvianti, ma per costruire un sistema con concetti universalmente validi e perciò escludenti, in quanto ritenuti esaurienti ogni possibile verità:

Non solo la chiesa cattolica (e, anche se in misura minore, la chiesa protestante) ha concepito questo pensiero dell’unica verità escludente, perché includente tutto il vero, quando ha fondato con un’altissima costruzione di pensiero il proprio punto di vista, e in modo impareggiabile ha dato un saggio della propria realizzazione nel mondo. Il pathos della verità unica, accompagnato dall’entusiasmo per l’universalità, per l’unità di tutti gli uomini e di tutta la storia in quell’unica verità, è proprio anche della filosofia dell’idealismo tedesco: Fichte, Schelling, Hegel. Questa filosofia, proprio per la via imboccata, non potrà mai avere un seguito. L’unicità, l’universalità e la cattolicità sono dunque la stessa cosa.46

Queste caratteristiche, infatti, sono espressioni della solidificazione delle cifre che, irrigidite, non rinviano a un’ulteriorità assente, ma risolvono la totalità nel sistema concettuale che si presenta come unico, universale e valido per tutti. La potenza del sistema che così si costituisce è nella sua pre-potenza che, escludendo a priori (pre) ogni ulteriorità di sensi e di significati possibili, chiude la coscienza simbolica e assolutizza la coscienza in generale, che tutti accoglie come in un recinto (Hof), dove non si danno altri sensi e altri significati se non quelli predisposti e coordinati dal sistema.

Dove la totalità è ridotta a una corte (das Ganze ein Kirkhof geworden ist), sia essa presieduta dall’autorità assoluta di una Chiesa, o da quella non meno assoluta della ragione scientifica e tecnica, là dove non c’è altra forma logica che quella del controllo e del dominio, altra etica che il conformismo, altra parola che il linguaggio funzionale, altro destino che il totalitarismo, l’uomo perde la sua essenziale possibilità di e-sistenza, e, da “animale non ancora stabilizzato” come diceva Nietzsche, diventa animale da corte, animale domestico, incapace di oltrepassare il recinto, perché, a ricordarcelo, è ancora Nietzsche: “Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente in maniera diversa se ne va spontaneamente in manicomio”.47

Possiamo certo non irrigidirci in conclusioni pessimistiche, ma questo alla sola condizione che si riconceda spazio alla coscienza simbolica e all’ambiguità della cifra. Ma finché questa verrà risolta in quella determinazione concettuale che è caratterizzata da una falsa universalità, perché esprime solo una parte dell’essere, e solo una parte che non sa e non vuol sapere quant’altro, al suo fianco, è, e a essa si riferisce, allora la relazione coscienziale all’assoluto si estingue, perché la coscienza, raccolta tra gli enti e tra i concetti che inequivocabilmente li esprimono, si trova a significare l’assoluto col ni-ente.

Preclusa la via dell’essere, l’unica possibile resta quella dell’avere. Su questa via la cifra diventa concetto chiaro e distinto che, mediante determinazioni e definizioni, possiede la cosa. A “cosa posseduta” si riduce tanto Dio quanto il mondo. L’uno e l’altro si costituiscono, infatti, solo se misurati dall’uomo mediante la lucidità intellettuale di quel pensiero chiaro e distinto che non conosce ombre né misteri, e che estingue quella tensione desituante che, nel complesso delle situazioni finite, tutto riporta al mistero della presenza velata dell’essere.

Sulla via dell’avere non sarà mai possibile giungere a contatto con l’essere, non perché la struttura tensionale (Spannung) propria del pensiero umano vada perduta, ma perché, invece di costituirsi come sete dell’essere, si costituisce come sete che accumula, e, accumulando, smarrisce l’essere e se ne allontana.

Per recuperare il senso dell’essere bisogna abbandonare tanto la logica esatta dell’identità e della non contraddizione, quanto la logica felice che concettualmente media i contrari per conciliarli nell’armonia della mediazione dialettica. L’una e l’altra profanano il mistero dell’essere perché, riducendo la sua immensurabilità alla misura umana, lo sottraggono alla gelosa custodia del mito che, velandolo, lascia intravedere, senza distruggerlo, il mistero dell’inafferrabilità dell’essere; del circolo che, con il carattere tautologico del suo argomentare, esprime il non-senso contenuto nella pretesa di conoscere l’essere; dell’imperativo categorico che comanda senza ragione, perché la sua voce è quella dell’incondizionato; del paradosso e della comunicazione indiretta che parlano della verità nelle forme dello pseudonimo, dell’ironia, dell’assurdo per la logica del mondo; della gioia tragica che, profanando ogni distinzione concettuale, invita a danzare, come scrive Nietzsche, “a mo’ di trovadori, tra santi e prostitute, tra Dio e mondo”,48 estremi di un arco in tensione.

Agli estremi, chiarezza e oscurità, distinzione e mistero si tendono in una richiesta reciproca, in una ricerca mai esaurita di adeguazione: vita diurna e vita notturna del pensiero. Questa è la cifra che anima la coscienza simbolica e che la coscienza in generale, irrigidendo e solidificando nella chiarezza del giorno, dissolve. Dal dissolvimento l’uomo potrà recuperarsi solo quando, con il suo pensiero, saprà custodire l’ambiguità della cifra, la sua tensione oltrepassante che la fede filosofica, a differenza della fede religiosa, sa mantenere.

Sia la fede filosofica sia la fede religiosa sono promosse dalla convinzione che la verità totale non è compiutamente svelata nell’immanenza, dove ogni annuncio è un rinvio, ogni presenza è un richiamo all’assenza. Muovendo da questa consapevolezza, la fede filosofica non conferisce alla cifra, per cui si risolve, il valore di una verità universalmente valida, perché sa che questo carattere appartiene al sapere apodittico della coscienza in generale, che presiede l’organizzazione scientifica del mondo, e non all’esistenza che, ubbidendo a un’esigenza incondizionata (unbedingte Forderung), che è poi la richiesta di una compiutezza di senso, oltrepassa il mondo in vista di quella trascendenza per la quale le categorie del mondo naufragano.

Consapevole di non disporre di una verità universalmente valida, la fede filosofica non scomunica, non dichiara eretici i dissenzienti, non accende roghi, non dispone di libri sacri privilegiati rispetto ad altri, perché contenenti la verità assoluta. La fede filosofica sa di essere per via (auf dem Wege der Wahrheit) e non scambia la via incerta con la meta definitiva. Per questo non riconosce alcuna autorità all’infuori dell’autorità della cifra, in cui ha deciso di credere, per l’indicazione che fornisce e non per il suo imporsi in realizzazioni temporali.

La fede filosofica sa che la cifra è autorevole in quanto rinvia alla trascendenza e non in quanto esplica la propria autorità nel mondo. Il suo realizzarsi nel tempo, se è inevitabile per far udire il proprio annuncio a quanti nel tempo vivono, può obnubilare il significato proprio di ogni cifra che rinvia oltre il tempo. Per questo ogni realizzazione temporale della cifra contiene già il germe della non verità (Unwahrheit), da cui la cifra può liberarsi solo sottraendosi a ogni determinata e puntuale incarnazione, solo restando in sospensione (in der Schwebe).

La cifra, infatti, può rivelare la trascendenza, ma, solidificandosi, può anche occultarla. Inoltre l’enigmaticità che accompagna ogni indicazione cifrata non consente di trattare quest’ultima al di fuori di ogni dubbio e di ogni problematicità. Questo significa che chi sceglie la via indicata da una cifra fideistica rischia, e siccome il rischio implica, oltre alla possibilità di salvezza, anche la possibilità del naufragio, non si può attirare nel proprio rischio gli altri, quasi si trattasse di una sicurezza garantita, e tanto meno si può presentare la cifra problematica come verità assoluta che deve essere universalmente accolta.

Ciò significherebbe accostarsi alla trascendenza con la logica della sola immanenza e quindi risolvere la prima nella seconda, al cui controllo non è preposta la coscienza simbolica che dalla presenza rinvia all’assenza, ma la coscienza in generale per la quale tutto è compreso nell’orizzonte logico da essa dischiuso. Per questo la fede filosofica non giudica le altre fedi scambiando se stessa per la verità, ma, pienamente consapevole della sua natura problematica, attende da quest’ultima il giudizio che la trascende. In questo senso è filo-sofica, perché ama (phílei), si protende verso la sapienza (sophía), ma non la possiede.

La fede religiosa, al contrario, isola se stessa dalla verità, la dimentica e vi si sostituisce. In questo modo perde se stessa e le opere compiute nell’isolamento della verità. Alla volontà di verità (Wille zur Wahrheit) sostituisce la volontà di potenza (Wille zur Macht) che conferisce alla cifra della trascendenza un’autorità assoluta nel mondo, sicché la cifra non rinvia più oltre il mondo, ma, nella sua posizione autorevole, esige manifestazioni mondane di fede, quali le strutture (Stato, famiglia, scuola, partito) che, in nome di un credo, si affermano nel mondo.

Sorretta da queste strutture mondane e da esse solidificata, la cifra fideistica diventa sempre meno enigmatica e, da possibilità di salvezza, si traduce in certezza incontrovertibile in una salvezza, a cui possono partecipare solo coloro che prestano fede, mentre gli altri, in qualità di eretici, ne restano esclusi.

Sicura di sé, pur nel suo isolamento dalla verità, la fede religiosa diventa escludente e traduce in certezza assoluta ciò che per la ragione è problema. Scambia l’unità della verità, che è oltre la parzialità della sua manifestazione temporale, con l’unità raggiunta mediante l’uniformità propria della cieca ubbidienza a strutture mondane che, in nome di una cifra, sono state realizzate nel tempo.

Al rischio proprio della problematicità, la fede religiosa sostituisce la sicurezza di chi aderisce a strutture e a comportamenti non scelti, alla singolarità della scelta esistenziale sostituisce l’universalità dell’adesione comunitaria, alla drammaticità della veglia il sonno della sicurezza garantita. Nella fede religiosa, all’inquietudine (Unruhe) dell’intelletto si sostituisce la quiete (Ruhe) del credente che, convinto di essere già accampato nella verità, si preclude la possibilità di giungervi.

A questo punto, alla volontà di verità (Wille zur Wahrheit),che nel riporre la propria fede in qualcosa mantiene il contenuto in sospensione (in der Schwebe) e il credente, come vuole l’espressione di Tommaso d’Aquino, in infirmitate et timore et tremore multo,49 succede la volontà di potenza (Wille zur Macht) che assolutizza il creduto e fa del credente (Glaubende) un militante (Glaubenskämpfer), disposto a qualsiasi forma di lotta per difendere quella fede che impropriamente ha scambiato per verità. Alla volontà di verità si lega allora un sentimento di superiorità e di potenza, a cui subito si aggiunge il desiderio di combattere, di distruggere, di tormentare. L’apparente veracità diventa un mezzo al servizio dell’odio. Per questo, scrive Jaspers:

È una sofferenza della mia vita, che si affatica nella ricerca della verità, il constatare che la discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi, perché essi tacciono, enunciano qualche proposizione incomprensibile, parlano d’altro, affermano qualcosa di incondizionato, discorrono amichevolmente senza avere realmente presente ciò che prima s’era detto, e alla fine non mostrano alcun autentico interesse per la discussione. Da una parte, infatti, si sentono sicuri, terribilmente sicuri nella loro verità, dall’altra pare loro che non valga la pena prendersi cura di noi, uomini duri di cuore. Ma un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione, e soprattutto esige che ogni proposizione fideistica, in quanto enunciata nel linguaggio umano, in quanto rivolta a oggetti e appartenente al mondo, possa essere messa di nuovo in questione, non solo esteriormente e a parole, ma dal profondo di noi stessi. Chi si trova nel possesso definitivo della verità non può più parlare veramente con un altro, perché interrompe la comunicazione autentica a favore del proprio contenuto di fede.50

La fede filosofica di Jaspers si sottrae così al contesto polemico della fede religiosa e al giudizio dei militanti della fede (Glaubenskämpfer) che si oppongono ai militanti delle altre fedi. Essa è una possibilità che si offre solo al credente (Glaubende) che alla lotta (Kampf) preferisce il dialogo, di cui egli solo è capace, perché all’assolutizzazione della propria posizione preferisce, in omaggio alla verità, la comunicazione (Kommunikation) o se vogliamo, la lotta amorosa (liebende Kampf) con le posizioni altrui. E questo perché, scrive Jaspers:

La fede filosofica è inseparabile dalla disponibilità incondizionata alla comunicazione, perché la verità autentica nasce dall’incontro delle fedi nella presenza dell’Umgreifende. Di qui l’affermazione: solo i credenti possono realizzare la comunicazione. Di contro, la non-verità nasce dalla fissazione dei contenuti della fede che si respingono l’un l’altro, donde l’affermazione: non si può parlare coi militanti di una fede determinata. Per la fede filosofica tutto ciò che costringe a interrompere la comunicazione o tenta di farlo è diabolico.51

5. Dal naufragio della filosofia come soluzione alla pratica filosofica come ulteriorità di significazione

Nel 1947 Jaspers pubblicava un libro che, nonostante le sue mille e cento pagine, o proprio per questo, in Italia è rimasto poco conosciuto. Il suo titolo è Von der Wahrheit52 che la letteratura jaspersiana segnala come la seconda grande opera teoretica di Jaspers dopo Philosophie (1932) che, al confronto – sempre secondo la letteratura jaspersiana – rimane insuperata. La sfortuna di quest’opera è forse dovuta al fatto che è sempre stata letta come opera a sé e non come la prima parte di un più vasto disegno che aveva per titolo: Über philosophische Logik. Separata dalla sua incompiutezza, Von der Wahrheit ha dato l’impressione di una semplice riproposizione delle tematiche esistenziali svolte in Philosophie, mentre è quell’ampio dispiegarsi di quell’operare filosofico che oggi cominciamo a chiamare pratica filosofica.

A questo esito Jaspers giunge attraverso quella che, a suo parere, è l’operazione filosofica fondamentale (die philosophische Grundoperation) la cui articolazione ha questo andamento:

La domanda è: che cos’è essere? La domanda che introduce a questa domanda è: come posso e come devo pensare l’essere? (Die Frage ist: was ist Sein? Die Frage an diese Frage ist: wie kann ich und wie muss ich das Sein denken?53

L’esito del circolo ermeneutico, dove la conoscenza dell’oggetto indagato è condizionata dal soggetto indagante, approda a quell’über-hinaus-denken, a quel “pensare oltre ogni orizzonte visibile, e perciò determinato, in direzione dell’Umgreifende in cui noi siamo e che noi stessi siamo”.54

Questo “pensare oltre” percorre gli orizzonti senza approdare e, pur attraversandoli, resta sempre al di qua (Im Darüber-hinaus-denken bleiben wir immer zugleich darin),55 quasi non fosse concessa la visione dell’ulteriorità se non in trasparenza (durchsichtig), da lontano (aus der Weite), attraverso o di traverso (quer): “quasi non fossimo mai appartenuti o non appartenessimo più a quell’origine profonda che sostiene e pervade tutte le cose”. 56

Sono, questi, elementi sufficienti per offrirci l’esperienza di una mancanza e di un bisogno non appagato né facilmente appagabile. In Jaspers, infatti, il negativo non è un fenomeno secondario o accessorio, né semplicemente l’esito della conduzione esegetica, ma la forma della relazione all’essere come ulteriorità.

Questa negatività non è fatta valere, alla maniera di Sartre, come gusto del nulla, perché per se sola non sussiste, ma può esistere solo come immanente esperienza della non esaustività di ogni totalità compiuta. Lo stesso Umgreifende che noi siamo è tutt’altro che nichilista, dal momento che si costituisce come il luogo della domanda, quindi come il luogo in cui l’essere si fa linguaggio e irrompe come linguaggio. Questo linguaggio a sua volta, proprio per essersi lasciato alle spalle le parole dell’ontologia che si articolano per genere e differenza, per positivo e negativo, attinge e lascia intravedere, da un’insondabile profondità (aus der Tiefe), cifre che rinviano a un’ulteriorità di significazione.

Sono per Jaspers esempi di cifralità: il mito di Platone che esprime l’impotenza del linguaggio logico e che, velando, lascia intravedere, senza distruggerlo, il mistero dell’inafferrabilità dell’essere; cifra è l’Uno di Plotino che è inafferrabile e trascendente ogni umano pensiero costretto nella scissione di soggetto e oggetto; cifre sono le dimostrazioni logiche della Scolastica che, come si può constatare in Anselmo, già presuppongono quel Dio che devono dimostrare; il carattere tautologico del loro argomentare esprime il non-senso contenuto nella pretesa di conoscere Dio.

Così è di Cartesio che assesta la filosofia nella scienza e, lungi dal crearne l’inquietudine con il dubbio, la tranquillizza con il metodo matematico. Ma il circolo vizioso attende questa filosofia alle soglie della trascendenza. Il circolo non deve essere eliminato come vorrebbe la logica scientifica, ma deve rimanere come vuole la filosofia che ha cura dei suoi circoli quando deve esprimere la verità dell’inoltrepassabilità e dell’inafferrabilità dell’essere.

La scrittura cifrata trova le sue migliori espressioni in Kant, la cui filosofia, dopo la liquidazione della psicologia, della cosmologia e della teologia razionale, non ha più alcun oggetto all’infuori dell’oggetto-cifra che è poi il noumeno inoggettivabile. Con Kant la filosofia comincia dove la logica scientifica incontra il limite che è tale anche per la filosofia, ma questa, a differenza della scienza, lo mantiene come indicazione di un’ulteriorità di cui salvaguarda la possibilità, custodita nelle antinomie delle idee che non sono oggetto per noi. La stessa logica cifrata anima la Ragion pratica che non si fonda sugli imperativi ipotetici condizionati da buone ragioni, ma sull’imperativo categorico che è senza ragione perché è incondizionato, cioè cifra.

Kierkegaard trae dai limiti kantiani l’amore per il paradosso, per l’espressione indiretta, intesa come forma di verità che si esprime negli pseudonomi, nell’ironia, nell’assurdo per la logica del mondo. Infine Nietzsche che, dall’impossibilità di risolvere i problemi ultimi, ha tratto una gioia tragica, auspicando la rinascita del mito contro lo spirito analitico e razionalistico della filosofia occidentale.

Il senso di queste cifre è chiaro: quando cerco di raggiungere la trascendenza non posso mai considerarla come un oggetto; davanti alla fugacità della sua apparizione nel mondo divenuto cifra naufrago, perché la trascendenza arresta ogni pensiero che si dirige a essa direttamente. Il naufragio attende ogni tentativo prevaricante dell’uomo che volesse, penetrando, abbracciare la totalità dell’essere.

La filosofia, allora, è fedele al suo compito non già quando si pone, alla maniera hegeliana, come detentrice della verità totale, ma quando avverte nella negatività del cercare, incapace di pervenire a soluzioni ultime, l’incommensurabilità del cercato, e nella rottura (Durchbruch) di ogni orizzonte l’inafferrabilità dell’essere. Quest’ultimo, sottraendosi a ogni sapere, definisce il limite di ogni esistenza, per la quale ogni ascesa (Aufstieg) è caduta (Abfall), ogni sfida (Trotz) è abbandono (Hingabe), ogni chiarezza razionale che presiede la norma del giorno (das Gesetz des Tages) è oscura fede che si appassiona alla notte (die Leidenschaft zur Nacht) che trasfigura gli oggetti del mondo in cifre enigmatiche di ciò che sta oltre.57

Si comprende a questo punto come il rapporto da intrattenere con l’essere non sia propriamente contemplativo, ma di attesa (Warten). L’attendere è cosa diversa dal contemplare. Se la contemplazione suppone un’immobilità, un’attenzione a qualcosa che generosamente si offre perché di essa si possa fruire, una rivelazione, l’attesa suppone una tensione (Spannung) che non riposa in sé, ma, vigile, si dà da fare per tenere aperta l’apertura (Offenheit) che ogni rivelazione (Offenbarung) minaccia di chiudere. La differenza tra fede filosofica e fede religiosa è tutta qui. Non averla compresa o, peggio, averla criticata, significa aver abdicato non tanto alla filosofia, quanto all’essenza della condizione umana. Certo l’attesa è rischiosa, ma non in sé, bensì nel suo esito degenerativo. Jaspers non se lo nasconde:

Il pensiero può offrirmi quel terreno che mi sostiene, così come può sottrarmelo. Ma anche se è pericoloso (gefährlich), il pensiero costituisce tuttavia quel rischio (Wagnis) che bisogna correre, perché solo così si può giungere a quella dimensione autentica (zum Eigentlichen) a cui mi sottraggo quando mi affido a quella mancanza di problematicità che caratterizza il non-pensare nella sua opaca e ristagnante insufficienza.58

In questo senso ogni pensiero che sta in posizione d’attesa sta sotto il segno del rischio. L’attesa può diventare abbandono (Hingabe) e alla fine indifferenza (Gleichgültigkeit), così come può risolversi in un espediente di fuga da quella profondità (aus der Tiefe) in cui pure si è. A sua volta il naufragio di tutte le risposte può coincidere con l’avallo a quanto esiste, ma in questo caso, più che con l’attesa si ha a che fare con la rinuncia (Verzicht), che è sempre in agguato quando si ha la percezione dell’impossibilità che possano costituirsi unità totali, sistemi unificanti e assoluti di valore, forze terrestri capaci di sostituirsi alla caduta divina. Sono questi, scrive Jaspers:

Alcuni esempi di come il domandare radicale possa condurre nello smarrimento o nel nulla, fino a far sospettare che solo la mancanza di problematicità possa consentire la vita o sia almeno condizione di vita. Ma l’uomo, una volta che pensa, non vuol ingannarsi. Filosofare è quel pensare che non si pone limite alcuno. E solo attraversando il pericolo del nulla (allein durch die Gefahr des Nichts hindurch) è possibile, filosofando, trovare la via.59

Si comprende a questo punto quanto siano estranee le interpretazioni nichiliste del pensiero di Jaspers, perché non è nichilismo mettere a nudo la pratica infondata della vita che si regge sull’assenza di problematicità (Fraglosigkeit), la fede implicita nella pretesa assolutizzante della scienza (Wissenschaftsaberglaube), la minacciosa sicurezza (bedrohende Sicherheit) della fede senza dubbi, la malafede del totalitarismo e l’ingenuo consenso.

Eppure non è nello smascheramento di queste figure il guadagno più significativo dell’opera di Jaspers, ma in ciò che si è capaci di ricavare dal suo movimento e soprattutto dal naufragio in cui si compie. Sì, perché la filosofia di Jaspers è un compiersi come testimonianza di una crisi, che non si può leggere sul volto tranquillo della scienza, della fede o del potere, dove il naufragio non può esprimersi se non a costo del loro naufragio.

La filosofia jaspersiana esprime il naufragio non come teoria del naufragio, ma naufragando effettivamente, perché proprio mentre cerca l’essere non lo trova, mentre vive nella parola non ve n’è una su cui possa fermarsi. Anche quando parla del naufragio non se ne abbellisce, per questo è rimossa più di altre e diventa oggetto di quell’obiezione tipica secondo cui è una filosofia che, non toccando il compimento, non riesce a concludere. Certo, non riesce a concludere perché rimane fondamentalmente aperta. Di essa si potrebbe dire quello che Jaspers dice della filosofia in generale:

C’è la tendenza a prendere in mano e a possedere la filosofia come si fa coi libri sacri e i sacramenti, ma la filosofia proibisce questa sorta di impetuoso reclutamento. Già il senso del suo nome dice che essa non è sapienza, ma amore per la sapienza. C’è in essa qualcosa di acerbo, qualcosa che tiene a distanza. Il suo compito è di sciogliere tutta la dogmatica che si è voluto fare prendendo le mosse da essa.60

Accettando di essere soluzione (Er-lösung) solo come scioglimento (Auf-lösung) di tutte le dogmatiche costruite in nome della filosofia, il filosofare di Jaspers si offre come critica. Ma la critica è crisi, è lacerazione di sé e dell’oggetto, è un’apertura interrogante intenzionata alla risposta, ma non più che intenzionata. Nell’intenzione i livelli critici si fondono, e la loro fusione espone la critica alla crisi.

Mantenere la crisi è impedire che il mondo delle risposte copra la domanda e la invada fino a oscurare la radice che l’ha generata, è non consentire che false gratificazioni vengano a soddisfare il desiderio di verità. Esercitare la critica è fare questa scelta sospensiva, che è poi lo spazio della libertà che toglie quel limite (Grenze) che ha avuto modo di riconoscere come limite.

Il riconoscimento prende inizio dalla situazione aperta e interrogante di quella filosofia la cui incapacità a risolvere (erlösen) è proprio ciò che la rende idonea a sciogliere (auflösen) quanto si è solidificato per chiusura critica. A questo punto l’incapacità della filosofia di risolvere, lungi dall’essere sterile inconcludenza, è rifiuto di essere soluzione. In questo senso, scrive Jaspers:

La filosofia deve rinunciare alla soluzione (Philosophie muss auf solche Erslösung verzichten). Essa è in grado di offrire solo qualcosa che ha una certa analogia con la soluzione, come la liberazione per... (Befreiung zur...).61

Si può comprendere questa posizione solo se ci si persuade che essere liberi non è un dato, ma piuttosto ci si libera. La libertà è liberazione. Solo così si giunge a capire l’organicità che gli scritti politici di Jaspers hanno con la sua filosofia.62 Il concetto di libertà, carico di valori metafisici, si misura, in quegli scritti, con la realtà degli enti, dove più evidente è la precarietà del fondamento assoluto e la molteplicità dei punti di vista.

Bisogna quindi accettare il tentativo che immediatamente non conclude, ma innesca un itinerario che non approda a soluzioni generali o a contenuti programmatici, solo perché scorge movimenti più profondi e da essi si lascia condurre. In questo senso Jaspers,rendendo risibili i razionalismi assolutizzanti, può dire che “la filosofia conduce lungo quella via che è essa stessa (Die Philosophie führt auf den Weg, der sie ist)”.63 Lungo la via, non sovrasta le cose, ma le legge come cifre.

L’atto interpretativo può esistere perché il mondo è una scrittura cifrata (Chiffreschrift), altrimenti non ci sarebbe bisogno né di filosofia, né di interpretazione. Importante è che la filosofia nelle sue risposte non cancelli le domande, e questo è possibile solo se offre le sue unicamente come delle nuove e più autentiche cifre, capaci di non mettere a tacere la tensione interna alla parola che di volta in volta nomina la cosa.

Fino a che punto, infatti, una parola significa? Se non si chiude con un atto violento l’orizzonte della significazione, il significato di una parola non appartiene solo a ciò che essa enuncia, ma a quel più di significato che la cifra aggiunge nel suo rinviare all’orizzonte della significazione rimasto aperto. Il naufragio della filosofia come soluzione, infatti, porta all’apertura dello spazio come ulteriorità di significazione. In questo senso, scrive Jaspers:

La filosofia può levare la cataratta alla nostra cecità, ma allora noi con i nostri occhi dobbiamo vedere.64

Qui Jaspers cede la mano e il gioco passa a noi. A nostra volta, abbiamo saputo leggere nella misura in cui abbiamo rintracciato un cammino.

1 K. Jaspers, Philosophie (1932-1955): III Metaphysik; tr. it. Filosofia, Libro III: Metafisica, Utet, Torino 1978, p. 1094.

2 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781,1787); tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1959, pp. 201-202.

3 E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (1912-1928); tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965, vol. I, p. 151.

4 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, p. 37.

5 Ivi, p. 38.

6 Id., Philosophie (1932-1955): I Philosophische Weltorientierung; tr. it. Filosofia, Libro I: Orientazione filosofica nel mondo, Utet, Torino 1978, p. 184.

7 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 37.

8 Per un approfondimento di questa tematica si veda il saggio di V. Melchiorre, L’immaginazione simbolica, il Mulino, Bologna 1972, e in particolare il capitolo 1: “La funzione dell’immaginario”.

9 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., pp. 53-112.

10 Ivi, p. 38.

11 Ivi, p. 110.

12 Ivi, p. 106.

13 Ivi, p. 105.

14 Id., Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., p. 1070.

15 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 108.

16 Platone, Simposio, 191 d.

17 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 991.

18 Ivi, p. 37.

19 Id., Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., p. 1069.

20 Ivi, p. 1077.

21 Ibidem.

22 Ivi, p. 1078.

23 Ivi, p. 944.

24 Ivi, pp. 1077-1078.

25 Ivi, p. 1078.

26 A proposito della differenza introdotta da Jaspers tra ontologia e periecontologia si veda K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., pp. 158-161, e per un commento a queste pagine si veda U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers (1975-1984), Feltrinelli, Milano 2005, capitolo 34: “Necessità del naufragio di ogni ontologia. Ontologia e periecontologia”.

27 K. Jaspers, Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., pp. 1081-1082.

28 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 1041.

29 Ibidem.

30 Id., Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., p. 951.

31 Ivi, p. 1092.

32 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 1.

33 Id., Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., p. 1077.

34 Id., Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962); tr. it. La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, p. 148.

35 Id., Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., p. 1077.

36 Ivi, p. 950.

37 Ivi, p. 951.

38 Id., Philosophie (1932-1955): Einleitung in die Philosophie; tr. it. Filosofia. Introduzione, Utet, Torino 1978, p. 111.

39 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 37.

40 Ivi, p. 109.

41 Ivi, pp. 38-39.

42 Ivi, pp. 710-869: “Wahrheit im Durchbruch”.

43 K. Jaspers, Kleine Schule des philosophischen Denkens (1965); tr. it. Picco la scuola del pensiero filosofico, Comunità, Milano 1968, p. 47. Il riferimento è a F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft (1886); tr. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in Opere, Adelphi, Milano 1972, vol. VI, 2, § 62, p. 68.

44 K. Jaspers, Über Gefahren und Chanchen der Freiheit (1950); tr. it. Pericoli e possibilità della libertà, in Verità e verifica. Filosofare per la prassi, Morcelliana, Brescia 1986, pp. 164-165.

45 Id., Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., p. 1081.

46 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 842.

47 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 1, “Prefazione di Zarathustra”, p. 12.

48 Id., Die fröhliche Wissenschaft (1882); tr. it. La gaia scienza, in Opere, cit., 1965, vol. V, 2, “Appendice: Canzoni del principe Vogelfrei”, p. 275.

49 Tommaso d’Aquino, Quæstiones disputatæ (1256-1259), Quæstio XIV:De fide, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, art. I.

50 K. Jaspers, Der philosophische Glaube (1948); tr. it. La fede filosofica, Marietti, Casale Monferrato 1973, p. 109.

51 Ivi, p. 183.

52 Di quest’opera esistono in italiano una traduzione antologica, Sulla verità, La Scuola, Brescia 1970, e due traduzioni parziali: Del tragico, il Saggiatore, Milano 1959; Il linguaggio. Sul tragico, Guida, Napoli 1993.

53 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 37.

54 Ivi, pp. 38-39.

55 Ivi, p. 39.

56 Ibidem.

57 K. Jaspers, Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., capitolo 3: “Riferimenti esistenziali alla trascendenza”, pp. 1005-1068.

58 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 29.

59 Ibidem.

60 Ivi, p. 966.

61 Ivi, p. 965.

62 K. Jaspers, Die Schuldfrage (1946); tr. it. La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Raffaello Cortina, Milano 1996. Die Atombombe und die Zukunft des Menschen (1958); tr. it. La bomba atomica e il destino dell’uomo, il Saggiatore, Milano 1960. Freiheit und Wiedervereinigung. Über Aufgaben deutscher Politik (1960); tr. it. La Germania tra libertà e riunificazione, Comunità, Milano 1961. Wohin treibt die Bundesrepublik? (1967); tr. it. Germania d’oggi. Dove va la Repubblica federale?, Mursia, Milano 1969.

63 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 966.

64 Ibidem.