19. Jaspers: dalla filosofia come sapere al filosofare come ricerca e pratica di vita

Ciò che passa sotto il nome di “filosofia dell’esistenza” è in verità solo una forma dell’unica e antichissima filosofia. Ma il fatto che “esistenza” sia divenuta oggi l’espressione caratteristica, non è un fatto accidentale. Essa ha accentuato quello che è il compito della filosofia che per qualche tempo è stato dimenticato: cogliere la realtà alla sua origine e afferrarla allo stesso modo in cui, mediante un processo di autoriflessione, io, nel mio agire interiore, riesco a cogliere me stesso. Il filosofare che così si inaugura vuole ritrovare la via verso la realtà, svincolandosi da qualsiasi sapere parziale, da modi di dire convenzionali, da atteggiamenti prefissati, da ogni tipo di presupposto.

K. JASPERS, La filosofia dell’esistenza (1938),
p. 3.

1. Dalla scienza alla filosofia

Incluso in uno dei tanti “ismi” con cui l’informazione schematizza il pensiero, Jaspers ha più volte rifiutato l’etichetta di esistenzialista. La sua filosofia non voleva essere di scuola o di corrente, ma, più ampiamente, una riflessione sul senso della filosofia in generale, sul perché della sua origine e della sua fine in Occidente. Sembra, infatti, che questa terra della sera (Abendsland), dopo aver fornito nella sua storia bimillenaria numerose soluzioni filosofiche al dolore e alla meraviglia dell’homo sapiens,1 oggi vada altrove a cercare le proprie risposte, perdendo così l’impostazione e il senso filosofico delle domande.

Se, come pare, nel nostro tempo il mondo è regolato dalla scienza e dalla tecnica, e l’interiorità dell’uomo dalla fede o dalla sua negazione, che cos’è oggi la filosofia? Qual è il suo spazio e quale il suo ambito di ricerca, se la vita quotidiana e il senso e la destinazione dell’umano sembrano non più appartenerle?

Da quando nacque con la speculazione degli Ionici, la filosofia si è annunciata come ricerca dell’essere. Poi, nel suo sviluppo occidentale, il momento della conquista ha avuto il sopravvento sul momento della ricerca; l’ansia della risposta ha frantumato la domanda; la brama del possesso, tipica dell’uomo occidentale, ha ridotto l’essere a misura d’uomo, a oggetto per un soggetto; l’uomo s’è fatto misura di tutte le cose, e la sua volontà di potenza (Wille zur Macht) ha preso il sopravvento sulla volontà di verità (Wille zur Wahrheit).2

Anche la filosofia, quindi, dopo i primi passi compiuti nell’epifania dell’essere (a-létheia), ha seguito il senso indicato dai miti di Prometeo e di Adamo, ha prevaricato, ha commesso quella colpa che Anassimandro identifica nella tracotanza (hýbris) nei confronti dell’essere. La filosofia di Jaspers è la denuncia di questa colpa, il cui riconoscimento è a un tempo espiazione e tramonto definitivo di quella storia occidentale che ha sostanziato la colpa. In questo senso, scrive Jaspers:

Oggi noi ci troviamo sulla via del tramonto, nel crepuscolo del nostro tempo, della filosofia europea, e all’aurora della filosofia mondiale.3

C’è chi attribuisce il senso di questa interpretazione della filosofia alla particolare sensibilità pessimistica dell’anima jaspersiana, aperta, come già quella di Lutero, Jung e Thomas Mann, alla concezione del male radicale, del peccato costitutivo, della colpa inevitabile dell’esistenza. A radicalizzare questa visione avrebbero contribuito, nel caso di Jaspers, la sua esperienza della malattia e della sofferenza fatta come medico, quella delle forze dell’obnubilamento, del male mentale e dell’annichilimento fatta come psicologo e come psichiatra; in una parola, vi avrebbe contribuito l’esperienza scientifica condotta nella clinica, dove la scienza appare nel suo riferimento immediato ai problemi metafisici ed etici e agli interrogativi esistenziali, di fronte ai quali la scienza tace e la filosofia comincia drammaticamente a domandare.

Su questa base si spiegherebbe il passaggio di Jaspers dalla scienza alla filosofia. In sede scientifica il suo interesse non era appagato dal sapere raggiunto, ma era volto al riconoscimento dei limiti del sapere scientifico, sicché la scienza, lungi dall’essere vissuta nell’autonomia dei suoi metodi e dei suoi risultati, è stata messa da Jaspers immediatamente in tensione con la vicenda esistenziale e problematizzata dall’insistente domandare (fragen) filosofico.

A ciò si deve aggiungere la particolare esperienza politica di Jaspers che, nel 1937, dovette abbandonare l’Università di Heidelberg per il solo fatto d’avere la moglie ebrea. La sua ultima lezione in quell’università terminava con queste parole: “La mia lezione è finita, ma con essa non è finito il filosofare che sempre avanza nel suo cammino”.4 In quell’università Jaspers ritornò nel 1945 e inaugurò il semestre accademico con un corso di lezioni sulla situazione spirituale della Germania:

Trattando questo tema vorrei, nella mia qualità di tedesco fra i tedeschi, provocare un consenso chiaro e consapevole fra i miei connazionali; quale uomo fra gli uomini vorrei partecipare allo sforzo comune per la ricerca e la conquista della verità.5

Passarono tre anni, e a Jaspers parve impossibile realizzare il primo intento. Abbandonò la Germania e, da esule, a Basilea si dedicò all’attuazione di quel compito che lo attendeva “come uomo fra gli uomini”.

La vita di un uomo non è mai separabile dal senso della sua opera. I limiti dell’esperienza scientifica e di quella politica hanno senz’altro contribuito a guidare i pensieri del filosofo, ma non sono sufficienti a spiegarne il significato ultimo. Ponendosi non come filosofo allineato ad altri, ma come pensante la storia e la forma del pensiero occidentale, Jaspers mise a profitto le sue conoscenze di psicologia e di psicopatologia per comprendere le motivazioni che condussero l’uomo occidentale a essere “logico” e “cristiano”, con uno spiccato senso del “tempo”, non più ciclico e ripetitivo come in Oriente e nella Grecia antica, ma storico, quindi con un passato e con un futuro, vissuto nelle attese escatologiche della religione, anticipato nelle utopie rivoluzionarie che si sono annunciate nella storia, programmato nello sviluppo della scienza e della tecnica che scandiscono i tempi del progresso.6

La vastità degli interessi e il ritmo delle pubblicazioni, dopo il coatto silenzio dal 1937 al 1945, sottrassero la figura di Jaspers a quel progressivo disinteresse che in questi ultimi anni s’è fatto evidente nei confronti dell’esistenzialismo e delle sue figure che sembrano concluse.

Ma, nell’accostarsi al pensiero di Jaspers, pubblico, editoria e critica hanno preferito indugiare sui singoli temi (scienza, religione, politica e storia della filosofia) e non sul taglio teoretico con cui Jaspers aveva inteso affrontarli. Ciò spiega come il pensiero di Jaspers sia stato oggetto delle più disparate interpretazioni7 che hanno in comune la lettura dell’autore e delle sue opere sulla base di quella logica ontica (onto-logia) che, operando da duemila anni in Occidente, è messa sotto accusa da Jaspers ed esplicitamente rifiutata, perché “scientifica” e non “filosofica”.

Questa logica, imperniata sul principio di non contraddizione e sul principio di causalità, limita le possibilità del pensiero alla semplice comprensione dell’ente e, quivi esaurendosi, si lascia sfuggire l’essere, che si sottrae a ogni determinazione concettuale (Be-griff) perché è onnicomprensivo (Um-greifende), e a ogni spiegazione causale perché non è ente che rinvia ad altro ente come alla propria causa (ontologia), ma è ciò che, abbracciando e circoscrivendo (periéchon) ogni ente, lo trattiene presso di sé come sua cifra (periecontologia).8

2. La filosofia dell’Occidente come volontà di sapere e potere

Nel tentativo di individuare lo specifico della filosofia e la sua differenza dalla scienza, Jaspers si trova a constatare che:

Sin da quando ebbe inizio la filosofia s’è presentata come scienza, come la scienza senz’altro. La meta che si prefissero coloro che vi si dedicarono fu la conoscenza più alta e più certa.9

Sapere significa potere, significa dominio.10 Non a caso la filosofia s’è sviluppata in Occidente che, più di qualsiasi altra terra, si è espresso nel senso del potere e del dominio. Oggi il potere e il dominio sono nelle mani della scienza e della tecnica che, nel realizzare quello che era il fine della filosofia, ne decretano anche la fine.

L’epoca della tecnica, infatti, porta a compimento quello che da sempre è stato l’intento più o meno mascherato della filosofia: conseguire il dominio delle cose disponendo incondizionatamente del loro essere. Quale altro senso avevano i principi instaurati dalla filosofia, nella sua espressione ontologica e metafisica, quali il principio di non contraddizione, di causalità, di ragion sufficiente, se non quello di assicurarsi il dominio delle cose, mediante la disponibilità delle cause e delle ragioni sufficienti a garantirne l’essere piuttosto che il non essere?

La tecnica, con il suo dispiegarsi nel mondo contemporaneo in forma di pianificazione, porta a compimento l’intento della filosofia, costituendo dei fondi e delle stabilità che assicurino il possesso definitivo e incondizionato delle cose. Essa è connessa all’essenza della modernità (Neuzeit), che però non annuncia più un nuovo (neu) tempo (Zeit), ma solo nuovi punti di assicurazione e di stabilità sempre più solidi, per cui le cose che accadono non sono più una “novità”, ma qualcosa di irrimediabilmente “passato”, perché pre-visto, pre-calcolato, perché dalla scienza e dalla tecnica già da tempo anticipatamente voluto.

Nella misura in cui il futuro si distingue dal passato solo per la novità dei modi con cui l’uomo si assicura il possesso delle cose, si conclude la storia come annuncio incondizionato dell’essere e quindi come novità originaria, a favore della a-storicità della civiltà della tecnica che non ha più nulla da attendere dal futuro, perché ogni accadimento è da essa condizionato. Alla storia (Geschichte) come accadere (geschehen)e quindi avvenire succede la storia (Historie), come capacità di situare la propria posizione nel contesto delle condizioni storiche, e lo storicismo (Historismus) come costante ricostruzione e chiarimento delle situazioni a partire dalle condizioni storiche.

La volontà che tutto vuole assicurare e tutto garantire, affinché nulla più possa accadere incondizionatamente sì da sorprendere e intimorire, ma tutto si lasci ricondurre alle condizioni che l’hanno posto in essere, ha generato la filosofia, che non a caso ha preso avvio da quella domanda che chiede “il principio di tutte le cose”, e che ha trovato la sua risposta nella scienza e nella tecnica, in cui la filosofia, per soddisfare la sua volontà di sapere (Wissenwollen),ha dovuto irrimediabilmente risolversi. In questo senso fare scienza e fare tecnica è oggi il modo di fare filosofia, di soddisfare l’esigenza che l’ha generata.

Per soddisfare quest’esigenza la filosofia ha dovuto rinunciare alla verità come manifestazione dell’essere (a-létheia)11 per risolversi nella certezza (Gewissheit) di un soggetto che si certifica da sé (cogito ergo sum), per cui l’ente non ha alcun essere al di fuori dell’attività rappresentativa (vor-stellen) e produttiva (hervor-bringen) del soggetto, che in questo modo costituisce l’unico autentico essere delle cose.

Il primato della soggettività, che caratterizza l’età moderna, ma che è stata preparata dall’ideîn platonico, si accompagna al massimo di oggettività degli enti che in tanto possono essere posseduti, in quanto stanno di fronte (Gegen-stand, ob-jectum) a un soggetto. Anche le più raffinate e rigorose tecniche moderne di accertamento dell’oggettività, nel senso scientifico della parola, rientrano in quell’attività assicurante e stabilizzante del soggetto che consente all’oggetto di acquistare una consistenza mai prima posseduta.

Con la nascita del concetto, con Socrate quindi, e con Platone che al concetto fornisce il suo oggetto (l’idea), si chiude, per Jaspers, il periodo assiale dell’umanità12 e si dischiude l’Occidente, quell’epoca in cui il pensiero muta forma: abbandona la philousía (amore per l’essere) per la philosophía (amore per il sapere), finché, nell’età moderna, abbandona anche la filosofia per la sophía, ovvero per quel sapere che è possesso e, mediante l’applicazione, potenza e disponibilità su tutte le cose.

Affinché la disponibilità sia universale e il più possibile garantita contro ogni eventuale smarrimento, la soggettività, che dispone delle cose, dovrà essere universale e il più possibile purificata dagli inconvenienti della soggettività, dovrà essere coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt), inter-soggettività (das Gleiche für jeden Verstand), intelletto puro che lascia fuori di sé ogni sorta di condizionamento psicologico (Bewusstsein als Dasein) e ogni dimensione che trascenda l’orizzonte oggettivo, dischiuso dall’anticipazione ipotetica e percorso dal metodo che ha provocato la presenza dell’oggetto.

Risolto l’essere nell’ambito circoscritto della scissione soggetto-oggetto (Subjekt-Objekt-Spaltung),13 l’ente è assicurato nella misura in cui rende ragione di sé al soggetto, per cui al soggetto e non all’essere spetta l’ultima parola sull’ente.

L’essere-oggetto dell’oggetto, cioè l’essere dell’ente, nella prospettiva del pensiero occidentale, consiste nell’essere rappresentato, cioè enunciato, detto, in conformità al principio di ragion sufficiente, per il quale il pensiero è tanto più valido quanto più riesce a non lasciare nulla di infondato, cioè di inespresso, quanto più riesce a portare alla luce dell’enunciazione tutti i suoi fondamenti.

L’esigenza di fondare è l’esigenza di assicurare l’ente, di sottrarlo alla precarietà in cui l’essere lo lascia essere, e non a caso, da Platone a Hegel, l’idea regolativa della filosofia è sempre stata quella di un sapere che non abbia presupposti, perché capace di risolverli tutti in sé. Infatti, constata Jaspers:

La filosofia s’è presentata, sin dai tempi più remoti, come scienza che conosce la totalità delle cose, come sapere filosofico totale (philosophischen Totalwissen), non come un conoscere in continua evoluzione, ma come una dottrina compiuta.14

In questa esigenza di fondazione e di enunciazione di tutti i fondamenti si raccoglie l’essenza della filosofia occidentale e l’inevitabile suo tramonto, perché là dove tutto è fondato e dove ogni fondamento è esplicitato e detto, non resta più niente da dire.

L’equivoco di cui è stata vittima la filosofia occidentale, quando ha assegnato a se stessa il compito di portare tutto all’esplicitazione, è, secondo Jaspers, l’aver pensato l’essere sul modello dell’oggetto presente al soggetto. Questo equivoco, che rimane a lungo celato, si rivela in tutta la sua luce nel pensiero di Hegel, dove soggettività e oggettività, razionalità e realtà si identificano senza residui. L’essere, cioè, non può restare alla lunga presupposto all’enunciazione e pertanto, per non contraddire il principium reddendæ rationis, deve risolversi nell’enunciazione. Rispetto a Hegel, Nietzsche non farà che rivelare il fondo volontaristico del principio per cui “la volontà di verità si sviluppa al servizio della volontà di potenza”.15

In questo modo la filosofia occidentale, mossa alla ricerca del fondamento per spiegare e assicurare tutte le cose, ha ridotto l’essere stesso a fondamento (Grund), che vale solo in quanto è enunciato dal soggetto in una proposizione, in quanto è rap-presentato. In questo senso ha smarrito il senso dell’essere che non è Grund, ma Boden, ossia fondo, suolo, terreno su cui soltanto è possibile edificare l’ente e abitare la terra.

Per questo Jaspers dice che oggi l’uomo è bodenlos, senza terra. La storia, come aprirsi di ambiti in cui le cose vengono all’essere, è storia della verità, cioè dello svelamento, che è possibile solo sulla base di un originario nascondimento. Ma là dove ogni nascondimento è dissolto perché tutto è dispiegato, la filosofia è alla fine e con essa la sua storia, che di ogni Boden ha fatto un Grund, di ogni fondo di nascondimento un fondamento esplicativo.

3. Dalla filosofia come sapere al filosofare come ricerca

Per intraprendere questo itinerario occorre ripensare il senso della filosofia, non astrattamente o in generale, ma nella situazione spirituale del nostro tempo,16 dove il dominio incontrastato della scienza e della tecnica sembra togliere ogni spazio e ogni possibile senso alla filosofia.

A questa nostra attuale situazione, divenuta inospitale per la filosofia, si è giunti a opera della filosofia stessa e della sua storia, intesa da Jaspers come storia dell’oblio dei limiti, e quindi come storia di provocazioni nei confronti dell’essere che, inafferrabile nella sua totalità, è stato afferrato, compreso e “sistemato” prima dalla logica astratta dell’intelletto, poi dalle ipotesi anticipanti del pensiero scientifico, che hanno ridotto l’essere a contenuto dell’umano sapere e a campo circoscritto delle umane possibilità.

Così compreso dall’intelletto umano, l’essere, che è ciò che tutto comprende (Umgreifende), è stato circoscritto prima dall’ontologia e poi dalla scienza. L’ontologia, invece di custodirne lo spazio libero, ha risolto l’essere in un sistema di enti, e la scienza, dopo averlo risolto nelle sue ipotesi anticipatrici, l’ha affidato alla tecnica affinché questa ne disponesse l’uso.

Con la risoluzione positivistica dell’essere nell’essere scientificamente conosciuto, la filosofia dell’Occidente è giunta al proprio tramonto, che coincide con la massima espressione di tracotanza dell’uomo nei confronti dell’essere. Già Anassimandro s’era espresso in questi termini quando parlava dell’hýbris nei confronti dell’ápeiron o essere indeterminato, rispetto a cui ogni determinazione è colpa, e a ogni colpa segue necessariamente “l’espiazione secondo l’ordine del tempo”.17

Le immagini nichiliste di Nietzsche sembrano annunciare il tempo dell’espiazione, il tempo che Heidegger, con le parole di Hölderlin, non esita a definire “della povertà estrema” (dürftige Zeit), in cui è dato di constatare una duplice carenza: “Che più non son gli dèi fuggiti, né ancora sono i venienti”.18 Se, infatti, la realtà può essere conosciuta in tutte le sue parti dalla ricerca scientifica nel complesso delle sue specificazioni, la filosofia ha ancora una parola da dire nel clima tecnico e utilitaristico del mondo contemporaneo, oppure il suo destino è proprio quello di seguire quegli “dèi fuggiti” che essa stessa un tempo aveva elevato a supreme altezze?

La domanda può nascere in tutta la sua drammaticità solo in chi, come Jaspers, ha sperimentato la forza dell’indagine scientifica, in cui il raggiungimento dell’esattezza verificabile ha coinciso con la sottrazione dei contenuti a cui si applicava la ricerca filosofica. Protesa verso l’acquisto (póros) del sapere, la filosofia, a lungo andare, s’è vista privata del suo oggetto e, quindi, in stato di povertà (penía), come giustamente aveva intuito Platone, prima della costruzione dei grandi sistemi che hanno caratterizzato lo sviluppo filosofico dell’antichità e del Medioevo.

L’epistéme, la gnosi, la ratio, la scientia, un tempo espressioni del filosofico, oggi appartengono allo scientifico, che con i suoi metodi d’indagine risolve problemi che un tempo erano filosofici e che ora, risolti dall’evidenza scientifica, non lo sono più. Si pensi alle cosmologie dei primi filosofi, alle analisi fisiche di Aristotele poste a fondamento di quelle metafisiche, e queste di quelle teologiche, nei cui lineamenti la speculazione medievale ha impostato il discorso su Dio. Si pensi alle analisi psicologiche e gnoseologiche formulate nell’antichità e poi riprese in epoca medievale e moderna, fino a Kant, che per primo ebbe il coraggio di rinunciare al sapere (Wissen) per ricondurre la filosofia all’analisi delle sue “possibilità”.

Questa è per Jaspers l’importanza storica di Kant. La rivoluzione da lui introdotta in filosofia non è tanto nel capovolgimento dei rapporti essere-pensiero (riconducibile all’impostazione gnoseologistica della filosofia moderna, di cui Kant è l’espressione più grande e decisiva), ma nel fatto che con Kant la filosofia non studia più alcun oggetto, ma la possibilità per un soggetto di avere un oggetto in generale.

Liberato dall’oggettivazione, l’essere, da oggetto conosciuto, diventa noumeno pensato, ossia cifra dell’ulteriorità. La filosofia cessa di essere conoscenza di qualcosa e, in armonia con il suo nome (philo-sophía), diventa amore e tensione per ciò che sta oltre il pensiero e l’oggettività conosciuta. Proprio Kant, allora, il negatore della metafisica, riconduce la filosofia a quell’autentica “meta-fisica” che è tensione per ciò che sta oltre (metá) gli enti fisici (tà physiká), che la scienza ha oggettivato e in questa oggettivazione ha conosciuto. In questo senso, osserva Jaspers, è possibile dire che: “Nessun essere conosciuto è l’essere (Kein bewusstes Sein ist das Sein)”.19

Con il congedo dell’essere dalla terra della sera, si dischiude quel tempo in cui noi siamo ospitati come “posteri di un’età spiritualmente frantumata”.20 Muoversi in quest’epoca, che, come ha mostrato Nietzsche, è caratterizzata dal crollo delle idee, degli ideali, dei valori metafisici di cui l’Occidente fino a oggi s’è nutrito, risulta difficoltoso e incerto. L’uomo oggi si trova nel rischio più grande che, come ci ricorda Jaspers, non viene solo dalla bomba atomica,21 drammatica metafora del nichilismo,ma dal pericolo di trovarsi nell’impossibilità di pensare, perché il pensiero come spiegazione ed esplicitazione presume d’aver risolto ogni enigma “cifrato”, da cui il pensiero come verità può fiorire e svilupparsi “decifrando”.

Con il risolvimento della verità dell’essere nella certezza soggettiva dell’ente non sono compromesse solo le possibilità del pensiero, ma anche quelle del linguaggio che lo esprime. Se infatti il linguaggio dell’Occidente serve per esprimere la dominazione dell’ente, non bisognerà far violenza a questo linguaggio affinché la voce dell’essere si “tra-duca”, cioè giunga a quel tipo d’uomo, l’occidentale, la cui condizione è quella di essere avvolto non solo dall’oblio dell’essere, ma anche dall’oblio di questo oblio?

Che cosa deve esprimere il linguaggio? Deve fornire nuove spiegazioni o deve corrispondere all’appello del nascosto? Se la filosofia, che in Occidente s’è sviluppata come spiegazione totale e totale esplicitazione, è giunta al suo trionfo, ma anche alla sua conclusione, se non si vuole che il tramonto della filosofia coincida con il tramonto del pensiero in quanto tale, non c’è che da mutare prospettiva e passare dalla filosofia come spiegazione alla filosofia come ermeneutica.

L’ermeneutica jaspersiana, che trova il suo linguaggio nella cifra, si fonda sul presupposto che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dalla cifra, se costituisce il limite e lo scacco del pensiero scientifico, costituisce anche il terreno fecondo su cui il pensiero trascendente può fiorire e svilupparsi. L’ermeneutica che così prende avvio non è mossa dall’ideale dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto e accoglie dal nascosto ciò che esso libera, ciò che offre all’interpretazione e, nell’interpretazione, lascia in libertà (freilassen).

Se l’essere è ciò che sempre è da pensare, fedele all’essere non sarà quel pensiero che si pone come esplicitazione totale, ma quel pensiero che, rispetto all’ideale esplicativo della filosofia occidentale, sarà detto “inadeguato”, mentre in realtà è semplicemente consapevole dell’“inesauribilità” dell’essere. In questo senso, sia lo scopo sia i modi del lavoro ermeneutico di Jaspers assumono una fisionomia tutta nuova, perché il rapporto esserepensiero non è più pensato come un processo causalmente strutturato che agisce sotto la spinta di un fondamento (Grund) che di ogni cosa chiede il perché, ma è pensato come appello-risposta, come dono-ringraziamento che caratterizzano il rapporto uomo-essere in quella terra, in quel Boden che non si risolve mai nel Grund dell’ontologia, perché anche l’ambito storico in cui l’esserci si muove e costruisce le sue concatenazioni di cause ed effetti, di premesse e conclusioni, è sorretto, dato, reso possibile dal dono dell’essere che come cifra si offre alla lettura dell’uomo.

Il filosofare come ricerca (e non la filosofia come sistema) che così si inaugura vuol essere una testimonianza dell’essenza “meta-fisica” della filosofia, che può avvertire l’essere solo se naufraga come sapere, come Wissenschaft dell’essere. Le opere successive a Philosophie o approfondiscono questa logica del naufragio (Von der Wahrheit) o percorrono la storia della filosofia (Die grossen Philosophen) per rintracciare quegli episodi di naufragio che la “filosofia delle università” rifiuta come errori logici, mentre la filosofia di Jaspers recupera e interpreta come cifre, a cui occorre ispirarsi per risolvere il problema dell’essenza della filosofia e delle possibilità del suo avvenire.

4. La filosofia come orientazione nel mondo

La filosofia è nata dal bisogno di orientarsi nel mondo, dall’esigenza di trovare un principio che consentisse di ridurre la molteplicità irrelata a unità composita. Talete, con la sua domanda intorno al principio di tutte le cose, ha indicato una volta per tutte il senso e la direzione del pensiero occidentale, il quale, nel suo immane sviluppo, è sempre stato finalizzato alla ricerca di unità sempre più comprensive ed esplicative, che meglio consentissero di ordinare il mondo e nell’ordine di controllarlo, fino all’“ordinamento totalitario” che Jaspers non esita a indicare come il massimo pericolo che attualmente incombe sull’umanità:

L’esistenza umana è oggi minacciata da due pericoli: la bomba atomica e il totalitarismo. Finora c’erano solo delle immaginazioni fantastiche a proposito della fine del mondo, oggi con la bomba atomica siamo in presenza della possibilità reale di un simile esito nichilista. [...] Equivalente alla bomba atomica, come problema che mette in gioco l’esistenza dell’umanità come tale, è l’ordinamento totalitario, e qui non intendo il problema della dittatura, del marxismo, della teoria razziale, ma la struttura terroristica del sistema che distrugge ogni libertà e ogni dignità umana. Lì è perduta l’esistenza, qui l’esistenza è degna di essere vissuta.22

Se nell’orientazione nel mondo è la genesi della filosofia, che senso ha oggi fare filosofia se nel mondo siamo perfettamente orientati dalla scienza e dalla tecnica? Se molti problemi filosofici sono stati scientificamente e tecnicamente risolti, e se la filosofia ha assistito, per tutto il corso della sua storia, a quella situazione paradossale per cui man mano che qualche aspetto del mondo era raggiunto dall’evidenza scientifica cessava di essere oggetto o problema filosofico, che senso ha oggi occuparsi di filosofia e prendere avvio, come fa Jaspers, con un primo libro sull’orientazione filosofica nel mondo?23 Non è più corretto, più serio, più attuale concorrere a promuovere il cammino della scienza e abbandonare il sentiero della filosofia, se è vero che questa, come ci fa notare Jaspers, dopo duemila anni di storia, sembra essersi trovata senza regione in cui dimorare, senza luogo in cui consistere, senza terra (bodenlos), senza patria (heimatlos)?

Certo un salvataggio della filosofia è sempre possibile, come è possibile salvare un’opera d’arte, una tradizione poetica, un ricordo del passato, una funzione dell’uomo, e nobile per giunta. Ma così la filosofia cesserebbe di essere “attuale”, di svolgere, cioè, una funzione nel nostro tempo, per ridursi a materiale d’archivio, a testimonianza dei passati tentativi umani volti all’ordinamento del mondo, che però, rispetto all’attuale ordinamento scientifico, sono irrimediabilmente passati.

Per mettersi in pari con il tempo, la filosofia potrebbe definire gli ambiti in cui le varie scienze possiedono i loro oggetti e, collaborando con esse, porsi come epistemologia. Non potendo più sussistere come attività distinta dal mondo scientificamente conosciuto e tecnicamente dominato, potrebbe risolversi in esso ponendosi come suo ordinamento e sua stabilità, come modo di funzionare di una certa struttura storica e di una certa civiltà. Potrebbe costituirsi come visione del mondo, come fenomenologia degli eventi, come ideologia per la costruzione di un nuovo mondo, come sociologia per consentire all’uomo di comprendersi nel suo mondo, o come psicologia per ridurre la tensione fra l’uomo e il mondo.

Queste ipotesi, che esprimono altrettante direzioni già percorse dalla filosofia contemporanea alla ricerca di sé, sono, secondo Jaspers, ciò che la filosofia ha già da sempre fatto e che, meglio di essa, per rigore metodologico, possono fare la scienza e la tecnica che, con il loro dispiegarsi nel mondo contemporaneo come pianificazione e ordinamento totale, portano a compimento quello che era il fine della filosofia e, così facendo, sembrano decretarne irrimediabilmente la fine.

Jaspers è profondamente consapevole di questa situazione. La sua esperienza scientifica, condotta nei campi della medicina e della psicopatologia, e la profonda insoddisfazione avvertita nell’esercizio puro e semplice dell’attività scientifica, gli vietano sia di filosofare oggi senza il contributo della scienza, sia di risolvere irrimediabilmente la filosofia nella scienza. Il sentiero che tra questi due estremi intende dischiudere, per assicurare alla filosofia un futuro, che non sia semplicemente un nuovo modo più sicuro di vivere il proprio passato, è quello che prevede:

Una filosofia che edifichi se stessa e la propria grandezza “a onta di se stessa”, in un costante misconoscimento di se medesima (Die neue Philosophie aber hat das Grosse, was ihr gelang, nur gleichsam “trotzdem”, in einem ständigen Selbstmissverständnis, schaffen können).24

E se finora la filosofia, nata come orientazione nel mondo, ha finito per riconoscersi in quell’ordinamento totale fissato al mondo dalla scienza e dalla tecnica, “misconoscersi” vorrà dire tentare di spezzare questo ordinamento indicandone i limiti che, avvertiti, vietino di identificare l’ordine della scienza con l’ordine della verità, la sua visione del mondo con il mondo, il suo sistema con il volto della terra.

Così facendo, la filosofia ritorna alla sua funzione originaria che è quella di orientare nel mondo spezzando ogni immagine coatta del mondo che, vissuta acriticamente, toglie spazio alla libertà e all’esistenza. E come ai suoi inizi, ordinando il mondo secondo cause, la filosofia ha liberato l’uomo dal terrore dell’imprevedibile, così oggi, dove tutto è ordinato, calcolato, previsto e conosciuto, la filosofia, segnalando i limiti di ogni ordinamento, torna a offrire all’uomo la libertà che, in una situazione di ordinamento totale, coincide con l’indicazione dello spazio del possibile.

Per l’esecuzione di questo compito la filosofia deve muoversi con le scienze, non per comporle in un ordine superiore agli ordini già determinati da ciascuna di esse, ma per trovare nei vari ordinamenti scientifici del mondo il punto di rottura (Spaltung), la situazione-limite (Grenz-situation) da spezzare (durch-brechen), perché solo con la rottura (Bruch) dell’ordinamento, anzi attraverso la rottura (Durchbruch) e nella rottura (Einbruch) si crea per l’esistenza umana lo spazio del possibile, che la sottrae alla vita coatta dell’ordinamento totale per restituirla alla sua possibilità (als mögliche Existenz).

Orientare filosoficamente nel mondo significa allora spezzare la rigidità dell’ordinamento tecnico-scientifico del mondo per creare spazi possibili ed esistenzialmente abitabili. Dopo che il territorio secolare della filosofia è stato frazionato ed egregiamente occupato dalle varie scienze e dalle rispettive metodologie, la filosofia potrà assolvere il proprio compito solo se si affiderà non all’illusione di conoscere ciò che, quando è conosciuto, le viene sottratto, ma all’u-topia, ossia a quel non-luogo che le rimane da abitare dopo che tutte le discipline hanno abitato i loro luoghi.

Senza un proprio luogo, la filosofia è un “essere tra i luoghi (Philosophie als Zwischensein)”25 ; senza una propria specifica conoscenza, la filosofia è “tra le conoscenze che orientano nel mondo (Zwischensein aller weltorientierenden Erkenntnis)”,26 ma non alla maniera positivistica per dettare gli statuti e le leggi fondamentali dei vari luoghi, perché a questo provvedono egregiamentele scienze con le loro anticipazioni (tà mathémata), ma alla maniera della povertà che abita quel luogo di nessuno che risulta dai limiti che definiscono la proprietà di ciascuno.

In questo non-luogo, la filosofia incontra l’essenza dell’uomo sconosciuta a tutte le scienze, anche alle scienze propriamente umane, perché anche queste, oggettivando l’uomo dal loro particolare punto di vista, lo perdono come totalità, come soggetto in cammino tra i vari luoghi (der Mensch als Zwischensein).27

Infine, nel suo non-luogo la filosofia incontra l’essere che non appartiene ad alcun luogo, perché tutti li abita senza risolversi in alcuno di essi. Itinerando tra i luoghi, in quello spazio che i limiti (Grenze) di ciascun luogo a essa concedono, la filosofia vede in ogni limite la cifra di un’ulteriorità, dis-locata rispetto ai luoghi delimitati e conosciuti, e quindi trascendente, meta-fisica.

Ma la filosofia può abitare il suo non-luogo, che è il frammezzo (Zwischensein) fra tutti i luoghi, che è quell’intreccio di sentieri che delimitano i campi e insieme consentono a chi li lavora di accedervi e, dopo il lavoro, di tornarsene a casa, la filosofia, dicevamo, può abitare il suo non-luogo solo disabitandolo, perché, se lo abita stabilmente, lo traduce da non-luogo a luogo d’abitazione, e quindi lo nega come accesso agli altri luoghi dove si svolge la vita e dove, in generale, gli uomini si ritrovano e hanno a che fare fra loro.

Fuor di metafora, se la filosofia abita stabilmente il suo luogo, corre due pericoli: quello di risolversi intimisticamente in se stessa e di esprimersi nelle forme più banali dell’“esistenzialismo”, che Jaspers rifiuta, perché nulla hanno a che fare con l’uomo reale che trascorre i suoi giorni nei luoghi in cui svolge la sua attività e a cui la filosofia, che abita se stessa, non è più in grado di accedere; oppure nella tracotanza che le deriva dalla dimenticanza di tutti i luoghi, per cui si erige a ontologia, a sistema generale dell’essere, da cui ogni successiva e particolare forma di sapere dovrebbe dipendere. In questo caso il suo non-luogo diverrebbe il luogo di tutti i luoghi, ma non come via per accedere realmente ai diversi luoghi, ma come statuto che vale per tutti i luoghi, per la formazione dei linguaggi che in essi si articolano e delle conoscenze che in essi si raggiungono.

Come sapere, come statuto, come norma del giorno (das Gesetz des Tages) la filosofia è finita. Se per essa c’è un futuro, questo futuro è solo nella direzione della passione per la notte (die Leidenschaft zur Nacht),28 una passione che non prova chi abita la notte, ma chi, vivendo nel giorno, insoddisfatto del giorno, attende, ai limiti del giorno, un senso dalla notte.

Non si possono scorgere i limiti se non abitando il territorio, e non si può tentare di oltrepassarli se non da un punto di partenza, da un ambito conosciuto e noto. In altri termini, non si può fare filosofia se non facendo scienza, perché i limiti del conosciuto, da cui prende le mosse la filosofia, possono essere noti solo a chi conosce davvero e non per sentito dire; allo stesso modo di come i limiti del campo sono veramente noti solo al contadino che nel campo, ogni giorno, spende la sua fatica e consuma la sua vita, non al viandante che, pur muovendosi tra i limiti dei campi, non sa nulla della vita dei campi e dei problemi che quella vita pone. Per lui i limiti sono solo i limiti di una strada che corre ai margini dei luoghi in cui si svolge la vita, una vita che a lui rimane sconosciuta, perché egli conosce solo la “sua” strada.

Passare dal campo al sentiero che si aggira tra i campi, dalla scienza alla filosofia, non è solo il modo jaspersiano di fare filosofia, perché se la filosofia è conoscenza dei limiti del sapere, e quindi rinvio a un’ulteriorità, non c’è modo di conoscere i limiti del sapere se non sapendo, perché solo nella concretezza del sapere è possibile conoscere la relatività del sapere e quindi sentire l’esigenza di un oltrepassamento (Überschreitung), di una trascendenza (Transzendenz) in cui cercare il senso di ogni conoscenza e di ogni sapere. La scienza sa, ma non sa il senso del suo sapere, dice ripetutamente Jaspers, e che senso ha sapere, e che cosa si deve sapere, sono domande a cui nessuna scienza, con tutta la rigorosità dei suoi metodi, è in grado di rispondere.

Il senso della scienza, per quanto sia assodato e presente quando l’indagine è condotta con passione, non è a sua volta scientificamente dimostrabile. Chi pretende una risposta alla domanda relativa al senso della scienza, e poi, trovandosi nell’impossibilità di darne una che sia dimostrabile, vi rinuncia e cessa di preoccuparsene, assume un atteggiamento difficilmente confutabile. Chiarire il senso della scienza che di fatto s’è realizzata è una possibilità che compete solo alla filosofia. Come il mondo nella sua oggettività non si chiude in se stesso e non offre da sé una struttura intuibile, così il sapere che lo riguarda non si conclude in se stesso, ma rinvia oltre. La scienza giunge fin dove giunge il sapere logicamente vincolante, ma c’è a un tempo qualcosa di più. Avvertire questo qualcosa “di più (mehr)” non conduce a una dimostrazione, ma a un appello che chiede di poter cogliere il senso della scienza.29

5. La filosofia come chiarificazione dell’esistenza

La chiarificazione dell’esistenza è il secondo momento dell’itinerario jaspersiano che dall’orientazione filosofica nel mondo conduce alla metafisica delle cifre. Itinerante è l’uomo inteso non come rappresentante di quell’anonimo pensiero oggettivo che, nel suo assestamento logico, presiede l’ordinamento scientifico del mondo, ma come e-sistenza che sporge da ogni oggettività, emerge da ogni relativizzazione, esce fuori dalla successione lineare delle determinazioni oggettive della scienza, alla ricerca del punto di rottura (Spaltung) in grado di restituire l’esistenza alla sua possibilità (Möglichkeit), che va oltre la visione che la scienza ha dell’uomo.

È una possibilità, quella dell’esistenza, costantemente ignorata dalla cultura occidentale che, per definire l’essenza dell’uomo non ha trovato di meglio che ricorrere alla natura animale per rintracciare al suo interno quella differenza specifica che fa dell’uomo un animale differente dagli altri, un uomo appunto. Rinvenuta la differenza nel linguaggio e nel pensiero, questi aspetti furono subito intesi come strumenti al servizio di quella vita animale (zoé) da cui si era partiti per definire l’uomo che, a questo punto, non poteva essere se non zôon lógon échon, animale razionale.

Partita dall’animalitas la cultura occidentale s’è così preclusa la direzione dell’humanitas. Con ciò Jaspers non vuol negare che all’uomo competa l’animalità, ma che necessariamente si debba partire dall’animalità per comprendere l’uomo. In questa direzione, infatti, si comprenderà un genere d’animale, superiore fin che si vuole, ma sempre animale, la cui unica esigenza è quella di vivere e conservarsi più a lungo possibile, procurandosi quelle cose utili alla propria sussistenza e associandosi e dissociandosi dai suoi simili per lo stesso scopo.

In questo contesto, linguaggio e ragione saranno meri strumenti impiegati per gli stessi scopi per i quali gli animali impiegano l’istinto. La differenza tra l’uomo e il bruto si ridurrebbe a una differenza di mezzi. Che l’umanità occidentale si riconosca in questa semplice differenza non c’è da meravigliarsi, se nel corso della sua storia non ha trovato definizioni migliori di quelle che colgono la sua natura di essere vivente che si associa e costruisce città (zôon politikón), di essere che produce strumenti (homo faber), che con strumenti lavora (homo laborans) e provvede al suo sostentamento con un’economia comune (homo œconomicus).

Ognuna di queste definizioni coglie un aspetto caratteristico di quell’unica determinazione che è il semplice vivere (zoé), cioè riconduce a quell’animalità da cui si era partiti. Tra le varie definizioni compare anche quella di homo sapiens, ma una volta che questa sapienza si rivolge alla politica, alla fabrilità, al lavoro, all’economia, che cosa sa l’uomo? Sa quali strumenti sono necessari per condurre una vita degna della sua specie animale. Ancora una volta il genere riconduce pesantemente a sé le varie espressioni di quella differenza specifica che, ridotta a strumento del genere, ne differisce davvero poco?30

Da tempo si parla dell’alienazione dell’uomo. Alienazione significa trovarsi lontano dalla propria essenza, trovarsi altrove. Questa lontananza è stata segnalata dal marxismo e dalla psicoanalisi in due direzioni differenti, che oggi tendono a intrecciarsi come due aspetti di quella stessa condizione che è il non-esser-presso-di-sé. La distanza da sé è però cercata all’interno di quelle definizioni che poc’anzi abbiamo elencato. La loro combinazione contraddittoria determina l’alienazione dell’uomo.

Per il marxismo l’assetto politico ed economico a cui è pervenuto l’uomo occidentale nella formula capitalistica mercifica la sua attività sottraendogli lo spessore antropologico. Per la psicoanalisi il principio di realtà che regola il processo adattativo e associativo di ogni singolo, che non può disattendere le aspettative dei suoi simili, contraddice il principio di piacere teso alla soddisfazione della dimensione pulsionale. Dall’alienazione si esce eliminando le contraddizioni determinate dallo scorretto relazionarsi di quelle determinazioni.

Ma né il marxismo, né la psicoanalisi sono sfiorati dal sospetto che l’alienazione dell’uomo consiste proprio nel trovarsi tra quelle determinazioni, il cui genere di relazione, per quanto lo si capovolga e lo si muti, non è tuttavia in grado di far riconquistare all’uomo la sua identità ormai compromessa dal presupposto genetico dell’animalità.31

Una volta partiti dal biologismo animale la situazione non può più essere corretta neppure con l’aggiunta dell’anima, dello spirito o della coscienza, perché, comprese dal biologismo, queste dimensioni, con cui si cerca di meglio qualificare l’uomo, non possono significare altro che funzioni di quell’esperienza vitale a cui il biologismo riconduce.

In questo contesto la coscienza sarà la comprensione degli enti in vista della loro utilizzazione, senza riflettere che la coscienza comprende non perché spinta dall’istinto biologico della conservazione che impone l’utilizzazione degli enti, ma perché fondata su quell’originaria apertura all’essere in cui l’uomo, in quanto esistenza, consiste, e grazie a cui gli enti, presentandosi, gli si offrono disponibili. Non è cioè la coscienza a privilegiare l’uomo rendendolo aperto all’essere, ma è l’originaria apertura all’essere che consente all’uomo di avere coscienza degli enti. Questo è quanto lascia intendere il sein (essere) che si ritrova in Bewusst-sein (coscienza).

Lo stesso dicasi del linguaggio che distingue l’uomo dai vegetali e dagli animali. A costoro il linguaggio è negato perché dipendono dal loro mondo-ambiente e, incapaci di e-sistere, cioè di emergere da detto mondo-circostante (Um-welt), restano privi di mondo (Welt), cioè di quell’apertura all’essere di cui il linguaggio è il tralucere e l’annuncio. Gli animali non parlano perché non sanno cosa dire; non sanno cioè nulla di quell’essere che trascende il mondo-ambiente che li circoscrive e da cui appunto dipendono.

L’indipendenza dell’uomo è invece garantita dalla sua existentia che rinvia a un exodus, a un exitus. Si tratta di uscire dalla concezione che, riconducendo l’uomo all’animalitas, lo comprende come mero manipolatore di enti in vista della sua sussistenza, alla quale sono ricondotti anche il pensiero e il linguaggio, intesi come meri strumenti tecnici per denominare l’ente da impiegare e per comunicare le modalità del suo più efficace e rapido impiego.

La direzione dell’humanitas, espressa dall’exitus e compresa nell’ec di ec-sistentia, può essere seguita solo se l’essenza dell’uomo non sarà più pensata in termini biologici come espressione dell’animalitas, ma in termini ontologici come quell’apertura incondizionata (unbedingte Offenheit), quel luogo dell’apparire dell’essere (das Ort des Offenbarwerden des Seins) in cui è ogni possibile senso e significato.

Per intendere queste espressioni è necessario sottrarre i termini essenza ed esistenza al senso che è stato loro conferito dalla filosofia occidentale. In particolare il termine “esistenza” non sta a significare la realtà effettiva che compete a ogni cosa, direbbe Heidegger “dal granello di sabbia a Dio”,32 ma, al di là di questa accezione antica, il termine sta a indicare il modo di essere di quell’ente che si tiene aperto per la manifestazione dell’essere. Il tenersi aperto dell’uomo è reso possibile dalla natura “ec-statica” dell’ec-sistentia che lo definisce e lo differenzia da tutti gli altri enti che ci sono (Da-sein), ma non ec-sistono.

L’ec-staticità dell’ec-sistentia non va intesa in senso soggettivistico, come riduzione dell’ec-sistentia a sostanza soggettiva (Subjekt), né in senso oggettivistico come riduzione dell’ec-sistentia a sostanza oggettiva o esistenza in senso tradizionale, ma va pensata come uno star-fuori, un emergere dalla mera fatticità dell’orizzonte ontico, in cui gli enti opacamente sono, per porsi, all’interno di questo orizzonte, come coscienza dell’orizzonte stesso.

Proprio perché l’uomo è questa apertura incondizionata e, in quanto incondizionata, non limitata nella sua comprensione dalle condizioni logico-oggettive, che già abbiamo visto capitolare nell’orientazione filosofica nel mondo, l’esistenza umana è onnicomprensiva, è quell’Umgreifende che noi siamo (Das Umgreifende, das wir selbst sind) che instaura con l’Umgreifende che è l’essere stesso (Das Umgreifende, das das Sein selbst ist)33 quel patto amicale custodito dalla funzione simbolica della cifra, in cui si raccoglie l’annuncio che l’essere fa di sé all’uomo che si de-situa dalla mera oggettività, per sporgere, come e-sistenza oltre la presenza che rinvia. In questo senso, scrive Jaspers:

Chiamo cifra l’oggettività metafisica, che in sé non è la trascendenza, ma il suo linguaggio. In questo linguaggio la coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt) non coglie né avverte alcuna trascendenza, perché il suo genere e il suo modo di esprimersi sono significanti solo per l’esistenza possibile (mögliche Existenz).34

1 Aristotele, Metafisica, Libro I, 982 b, 12-15: “Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (thaumázein). E mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori”.

2 K. Jaspers, Von der Wahrheit (1947), Piper, München 1958, pp. 596 sgg.

3 Id., Philosophische Autobiographie (1956); tr. it. Autobiografia filosofica, Morano, Napoli 1969, p. 150.

4 H. Saner, Jaspers, Rowohlt Taschenbuch, Hamburg 1970, p. 50.

5 K. Jaspers, Die Schuldfrage (1946); tr. it. La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 1.

6 Sulla differenza tra il tempo ciclico e il tempo escatologico si veda U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 14: “L’anima e le figure del tempo”.

7 Si veda a questo proposito Id., Jaspers, in Questioni di storiografia filosofica, La Scuola, Brescia 1977, vol. IV, pp. 181-215.

8 Sulla differenza tra ontologia e periecontologia nella concezione di Jaspers si veda Id., Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers (1975-1984), Feltrinelli, Milano 2005, capitolo 34: “Necessità del naufragio di ogni ontologia. Ontologia e periecontologia”.

9 K. Jaspers, Philosophie und Wissenschaft (1948); tr. it. Filosofia e scienza, in “Rivista di filosofia”, 1950, n. 41, p. 245.

10 La correlazione tra “sapere” e “potere” è stata ben evidenziata, all’origine della scienza moderna, da F. Bacone, Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum (1620); tr. it. La grande instaurazione, Parte seconda: Nuovo organo, in Scritti filosofici, Utet, Torino 1986, I, 3, p. 552: “Scientia et potentia humana coincidunt, quia ignoratio causæ destituit effectum. Natura non nisi parendo vincitur,et quod in contemplatione instar causæ est, id in operatione instar regulæ est. (La scienza e la potenza umana coincidono, perché l’ignoranza della causa fa mancare l’effetto. La natura infatti non si vince se non obbedendo a essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa, nell’operazione pratica ha valore di regola)”.

11 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 458: “La verità è la manifestazione dell’altro che ci viene incontro; essa consiste in questo progressivo diventar manifesto (offenbarwerden). Il corrispondente greco della parola verità (Wahrheit) è alétheia che letteralmente significa non nascondimento (Unverborgenheit)”.

12 Id., Vom Ursprung und Ziel der Geschichte (1949); tr. it. Origine e senso della storia, Comunità, Milano 1965, pp. 19-42.

13 Id., Philosophie (1932-1955): II Existenzerhellung; tr. it. Filosofia, Libro II: Chiarificazione dell’esistenza, Utet, Torino 1978, capitolo 11: “Le forme dell’oggettività”, pp. 835-902.

14 Id., Filosofia e scienza, cit., p. 249.

15Id., Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens (1936); tr. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano 1996, p. 283.

16 Id., Die geistige Situation der Zeit (1931); tr. it. La situazione spirituale del tempo, Jouvence, Roma 1982.

17 Anassimandro, fr. B 1, in Diels-Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker (1966); tr. it. I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1983: “Da dove gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”.

18 M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung (1944); tr. it. La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, pp. 57-58. Il riferimento è a F. Hölderlin, Brot und Wein (1801); tr. it. Pane e vino, in Le liriche, Adelphi, Milano 1977, vol. II, pp. 114-115.

19 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 37.

20 Id., Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 168.

21 Id., Die Atombombe und die Zukunft des Menschen (1958); tr. it. La bomba atomica e il destino dell’uomo, il Saggiatore, Milano 1960.

22 Ivi, pp. 14-15.

23 Id., Philosophie (1932-1955): I Philosophische Weltorientierung; tr. it. Filosofia, Libro I: Orientazione filosofica nel mondo, Utet, Torino 1978.

24 Id., Filosofia e scienza, cit., p. 249.

25 Id., Filosofia, Libro I: Orientazione filosofica nel mondo, cit., p. 391.

26 Ivi, p. 286.

27 Id., Filosofia, Libro II: Chiarificazione dell’esistenza, cit., p. 777.

28 Id., Philosophie (1932-1955): III Metaphysik; tr. it. Filosofia, Libro III: Metafisica, Utet, Torino 1978, pp. 1040-1056: “La legge del giorno e la passione per la notte”.

29 Id., Filosofia, Libro I: Orientazione filosofica nel mondo, cit., p. 249.

30 Id., Kleine Schule des philosophischen Denkens (1965); tr. it. Piccola scuola del pensiero filosofico, Comunità, Milano 1968, pp. 45-54.

31 Ivi, 85-94.

32 M. Heidegger, Brief über den “Humanismus” (1946); tr. it. Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 276.

33 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., pp. 53-82.

34 Id., Filosofia, Libro III: Metafisica, cit., p. 1069.