2. La pretesa scientifica della psicoanalisi e la sua impraticabilità secondo Nietzsche
“Ci sono solo fatti,” io direi:
no; proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni.
“Tutto è soggettivo,” dite voi; ma già questa è un’interpretazione.
Il “soggetto” non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con
l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. Nella misura in cui
la parola “conoscenza” ha senso, il mondo è conoscibile; ma esso è
interpretabile in modi diversi, non ha
dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi.
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-1887, fr. 7 (60), pp. 299-300.
Freud e Jung non amavano la filosofia. Nella già citata lettera a Lothar Bickel che lo intratteneva su alcune considerazioni di Spinoza, Freud risponde:
Caro Signore, ammetto la mia dipendenza dagli insegnamenti di Spinoza molto volentieri. Non ho avuto ragione di citare direttamente il suo nome dal momento che non ho tratto le mie supposizioni dal suo studio, ma dall’atmosfera da lui creata. E una legittimazione filosofica in quanto tale non era assolutamente per me di grande importanza. Privo per natura di talento filosofico, ho fatto di necessità virtù e mi sono disposto a elaborare, per quanto possibile, non troppo influenzato, senza pregiudizi e impreparato, i fatti che mi si svelavano come nuovi. Nello sforzo di capire un filosofo, ho sempre pensato che sarebbe stato inevitabile impegnarsi nelle sue idee e sottoporsi alla sua guida durante il proprio lavoro. Per questo ho rifiutato lo studio di Nietzsche, anche se mi era chiaro che potevano essere trovate in lui concezioni molto simili a quelle della psicoanalisi. Non ho mai proclamato la priorità. Per quel che riguarda C. Brunner, data la mia ignoranza, non ne so niente. La sola cosa utile intorno alla natura del piacere l’ho trovata in Fechner. Suo sinceramente, Freud.1
Dal canto suo, in un saggio del 1947 Jung scrive:
Poiché io non sono un filosofo, ma un empirico, non sono portato, per il mio particolare temperamento, cioè per il mio modo particolare di pormi di fronte ai problemi teorici, a prendere le mosse da presupposti universali.2
In realtà, sia Freud sia Jung conoscevano molto bene la storia della filosofia e i singoli filosofi che nelle loro opere citano copiosamente, quindi il loro rifiuto non riguarda i singoli contenuti della filosofia, ma la forma della filosofia, o perlomeno quella che essi ritenevano fosse la forma della filosofia, e che più o meno corrisponde a quell’opinione generale che vede nella filosofia un’espressione della ragione astratta, una teoria incurante della prassi, che poco conviene al trattamento psicologico, dove il materiale che sgorga dall’inconscio mal si accorda con gli impianti teorici anticipati di cui la filosofia si alimenta.
Jung a questo proposito è esplicito: “Le idee che i filosofi giudicano a priori sono in realtà un che di secondario e derivato (ein Sekundäres und Abgeleitetes)”,3 per cui il vero fondamento di una teoria filosofica non sarebbe nella sua capacità di autogiustificarsi, ma nella psicologia personale e nella particolare visione del mondo del suo ideatore, che, secondo Jung, intanto può proporre la sua teoria in termini “universali” in quanto ignora la genesi psicologica e quindi “particolare” del suo modo di pensare. Si comprende a questo punto perché Freud collochi l’atteggiamento filosofico tra le forme sublimate di paranoia, perché è proprio del paranoico scambiare il proprio ordine mentale con l’ordine del mondo. Scrive in proposito Freud:
Le formazioni deliranti del paranoico rivelano una sgradita somiglianza esterna e un’affinità interna con i sistemi dei nostri filosofi. Non ci si può sottrarre all’impressione che, in guisa asociale, questi malati tentino di risolvere e di placare le loro impellenti esigenze e che, se questi stessi tentativi fossero compiuti in modo da ottenere il consenso unanime di più persone, allora si chiamerebbero poesia, religione, filosofia.4
Questa interpretazione della filosofia, messa in circolazione da Freud e da Jung, e sostanzialmente condivisa dal mondo degli psicologi, è legittima, ma non corrisponde ad alcunché, perché non è mai esistita una filosofia che abbia avuto la forma tratteggiata da Freud e da Jung, mentre sono proprio le teorie di Freud e di Jung ad alimentarsi, sia pure in modo radicalmente diverso, di quell’immagine di filosofia che loro hanno creato e da cui dicono di volersi tenere lontani.
Quest’immagine di filosofia, che per comodità chiameremo eidetica, se da un lato consente a Freud e a Jung di dire legittimamente che l’universalità a cui pretendono le teorie filosofiche si fonda sul fatto che i motivi psicologici che le determinano rimangono inconsci al filosofo che le produce, dall’altro consente ai filosofi di dire, altrettanto legittimamente, che le interpretazioni psicologiche sono tanto più persuasive quanto più è condivisa la filosofia che le sottende e che rappresenta il vero e proprio inconscio di ogni teoria psicologica.
“Se un occhio,” scrive Platone, “guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell’occhio con la quale anche vede, vedrà se stesso.”5 Il nostro intento è di instaurare questo tipo di sguardo e quindi di cogliere l’identità tra filosofia e psicologia da cui solamente è possibile scorgere la grande differenza che da questa identità prende avvio.
Le differenze che ignorano lo sfondo della loro identità sono come i rami che più non si alimentano della comune radice e che perciò diventano rami secchi. È l’esito che attende tutte le formazioni di pensiero e le relative scuole che più non ripercorrono la loro origine, per nutrirsi semplicemente della loro contrapposizione, la quale è accentuazione delle differenze, è rimozione di quel se stesso che si vede guardando l’occhio dell’altro.
In una conferenza del 1936, Jung parla della “natura disturbante di queste antitesi che creano conflitti tra individui opposti l’uno all’altro”, auspica la nascita di una “psicologia critica che rivestirebbe una grande importanza non soltanto per la sfera più ristretta della psicologia, ma per le scienze dello spirito in generale”, e conclude con un’ipotesi che si augura possa diventare un programma di ricerca. L’ipotesi è così strutturata:
Dalla psiche procede assolutamente ogni esperienza umana, e a lei ritornano infine tutte le conoscenze acquisite. Anzi essa non è soltanto l’oggetto della sua scienza, ma ne è anche il soggetto. Questa situazione eccezionale tra tutte le scienze implica da un lato un dubbio costante sulla sua possibilità in generale, dall’altro assicura alla psicologia un privilegio e una problematica che appartiene ai compiti più ardui di una vera filosofia.6
1. Ermeneutica
In questo passo, così significativo per intuizione filosofica, Jung coglie la difficoltà di fare della psicologia una scienza, perché è proprio dello statuto di ogni scienza che l’oggetto di indagine non metta in questione il soggetto che indaga. La filosofia è nata da questa neutralizzazione del soggetto che indaga: “Non ascoltando me, ma il lógos – [ecco la neutralizzazione del soggetto che indaga] – è giusto convenire che tutto è uno”.7
Questo frammento di Eraclito è stato per secoli il programma della filosofia come oggi lo è della scienza. Un’intuizione, infatti, è filosofica o scientifica non per le modalità con cui è scaturita, non per la sua paternità, ma per il modo con cui si autogiustifica. L’espressione di Aristotele: “Amo Platone, ma più ancora la verità” non è un tentativo più o meno riuscito di emancipazione dal padre, ma è il puro e semplice statuto del sapere, che è tanto più “sapere” quanto più elimina dal suo ambito ogni forma di soggettività.
Che dire a questo punto del sapere psicologico che ha per oggetto il soggetto stesso? Jung, che ha affrontato il problema, esprime “un dubbio costante sulla sua possibilità in generale”. Il dubbio, naturalmente, va risolto, perché là dove non c’è un sapere, qualsiasi discorso sulla psiche non trova legittimazione per l’assenza di un criterio che ne consenta la validazione o la falsificazione. L’obiezione che Popper solleva nei confronti della psicoanalisi può essere tolta solo con il superamento del dubbio junghiano.8
Oggi questo dubbio è in via di risoluzione grazie al contributo di quella nuova configurazione del sapere che è l’ermeneutica. Questa affonda le sue radici nella fenomenologia inaugurata da Husserl per il quale “la soggettività non può essere conosciuta da nessuna scienza oggettiva”.9 Questa osservazione ci conduce al cuore del problema dove si dibatte la possibilità o l’impossibilità per la psicologia di porsi come scienza. Il problema non riguarda solo la psicologia come una scienza fra le tante, ma la psicologia come luogo dove, meglio che altrove, si avverte la crisi della scientificità come tale. Scrive in proposito Husserl:
Ben presto ci renderemo conto che alla problematicità che è propria della psicologia, non soltanto ai giorni nostri ma da secoli, alla “crisi” che le è peculiare, occorre riconoscere un significato centrale; essa rivela le enigmatiche e a prima vista inestricabili oscurità delle scienze moderne, persino di quelle matematiche; essa rivela l’enigma del mondo di un genere che era completamente estraneo alle epoche passate. Tutti questi enigmi riconducono all’enigma della soggettività e sono quindi inseparabilmente connessi all’enigma della tematica e del metodo della psicologia.10
Tematica e metodo sono le due parole su cui vorremmo fissare l’attenzione, perché è proprio nella reazione dell’una sull’altra che scaturisce l’enigma. Sembra infatti che la tematica della psicologia si sottragga al metodo scientifico, e che ogni tentativo volto ad applicare alla psicologia il metodo scientifico dissolva la tematica.
Già abbiamo constatato che il discorso scientifico esige, per la sua costituzione, una coscienza intersoggettiva, un intelletto puro che lascia fuori di sé ogni sorta di condizionamento psicologico. Tale è il cogito cartesiano, da cui prende avvio la scienza nella sua accezione “matematica” e a cui si rifà la psicologia nel suo tentativo di prodursi come scienza. Ma qui la psicologia viene a trovarsi in una contraddizione insuperabile perché, se la scienza può nascere solo in presenza e a opera di un cogito depsicologizzato, se la non-interferenza dello psichico è la prima condizione per la produzione di un discorso scientifico, se la soggettività empirica e individuale è proprio ciò che non deve intervenire dove l’analisi pretende di essere oggettiva, può la psicologia prodursi come scienza senza abolire se stessa?
A questa domanda nel Novecento sono state date due risposte negative. La prima, in ambito filosofico, con Husserl. Si tratta di quella risposta fenomenologica che, ripresa da Heidegger, sviluppata da Sartre e concretamente articolata, anche per le sue competenze specifiche, da Jaspers, esclude la possibilità per la psicologia di porsi come scienza naturale.
Su questo tipo di risposta che, per usare l’espressione di Husserl, non nega alla psicologia di porsi come scienza rigorosa,ma semplicemente di porsi come scienza naturale, in ciò recuperando, ma rifondando radicalmente, la distinzione di Dilthey tra scienze della natura (Naturwissenschaften) e scienze dello spirito (Geisteswissenschaften), non mi soffermo perché le ho dedicato un intero saggio: Psichiatria e fenomenologia,11 dove, oltre all’itinerario teorico, è descritto anche lo sviluppo clinico che l’impostazione husserliana ha avuto con Binswanger, Minkowski, Laing, e da noi Callieri e Borgna, per limitarmi ai più significativi esponenti dell’indirizzo fenomenologico in psichiatria. La rivoluzione ermeneutica da essi operata nell’interpretazione della follia è un esempio significativo della fecondità di cui sono capaci risposte radicalmente negative a problematiche mal formulate.
La seconda risposta è stata data in ambito psicologico da Jung che, oltre a non conoscere la fenomenologia, non si è mai inserito nel dibattito filosofico sullo statuto epistemologico della psicologia, anche se Jaspers, per esempio, lo aveva a più riprese chiamato in causa.12 Ebbene, Jung, nonostante numerose siano le sue oscillazioni linguistiche, e nonostante la sua teoria degli archetipi offra il fianco a un’interpretazione ancor più deterministica di quanto non lo sia il determinismo delle scienze della natura,13 afferma:
La psicologia deve abolirsi come scienza, e proprio abolendosi raggiunge il suo scopo scientifico (Die Psychologie muss sich als Wissenschaft selber aufheben, und gerade darin erreicht sie ihr wissenschaftliches Ziel).14
L’affermazione è radicale non tanto per la sua perentorietà, ma perché va alla radice dell’Occidente e del suo mai dismesso tentativo di pervenire a una rigorosa fissazione delle basi discorsive, di cui la scienza matematica è solo una tappa.15 All’obiezione junghiana ho dedicato un altro saggio: La terra senza il male,16 dove l’interrogazione psicologica investe tutto ciò che la psicologia scientifica è costretta a tralasciare per prodursi “scientificamente”, non essendosi ancora emancipata da quelli che per Husserl sono “gli errori seducenti in cui sono caduti Cartesio e i suoi successori”.17
Dopo Husserl, l’ermeneutica prende quota con Heidegger, Jaspers, Gadamer e trova la sua prima e più radicale applicazione in campo psicologico con Mario Trevi, i cui scritti non sono da leggere come semplici riflessioni e considerazioni su problemi psicologici, ma come l’elaborazione di un nodo teorico in cui non si imbatte solo la psicologia junghiana, ma l’intera psicologia, che non può adottare il metodo oggettivante delle scienze e al tempo stesso non può esimersi dall’esser scienza se non vuole andare incontro alla delegittimazione del suo dire. Scrive in proposito Trevi:
La psicologia come scienza si pone al di fuori di ogni confronto con le altre scienze dell’uomo (e comunque distante da ogni scienza della natura) appunto perché il suo oggetto di indagine coincide con lo stesso soggetto indagante e ogni tentativo di “porsi al di fuori” di quest’ultimo porta inevitabilmente le stimmate della soggettività. Il “testo” che lo psicologo si propone di indagare, la psiche nella sua sconfinata fenomenologia, non può essere colto in un’immobile e atemporale oggettività, ma sempre attraverso quell’orizzonte dischiuso dal soggetto nel momento in cui su quel testo si ripiega. Tale orizzonte è al contempo legittimo (in quanto visuale e osservazione concretamente calate in un’esistenza) e relativo, e pertanto limitato e controvertibile. Anzi, quell’orizzonte in tanto acquista dignità in quanto, nell’esplorazione sistematica delle sue possibilità, incontra quel confine al di là del quale si schiudono altri orizzonti possibili, talché, in ultima istanza, la verità di un orizzonte sta nel suo autolimitarsi e, in certo senso, negarsi come verità unica per dar luogo alle verità ugualmente autolimitantisi di altri orizzonti. In tal modo la “verità” di una psicologia consapevole è il dialogo aperto e infinito tra possibili orizzonti.18
Ciò significa che alla psicologia non può competere che il metodo ermeneutico dove, precisa Trevi:
Per ermeneutica intendiamo quell’atteggiamento di pensiero che, ponendo il problema dell’interpretazione, deve considerare altresì il vivo e ineliminabile problema dell’interprete nei confronti del testo da interpretare e riconosce che non c’è testo “oggettivo”, staccato e indifferente all’interprete, ma testo diviene qualsiasi testimonianza del mondo della vita nel momento in cui un interprete l’assume nel suo orizzonte di interesse.19
2. Eidetica
Il superamento del dubbio circa la possibilità per la psicologia di porsi come scienza viene indicato da Jung come appartenente “ai compiti più ardui di una futura filosofia”. Forse la futura filosofia è proprio l’ermeneutica, che scardina la nozione tradizionale di filosofia come luogo della verità assoluta. Ma che la filosofia sia stata o sia il luogo della verità assoluta ritengo appartenga a quell’immagine eidetica della filosofia, che è poi l’immagine che avevano Freud e Jung, i quali, forse per questo o proprio per questo, non amavano la filosofia.
L’immagine eidetica della filosofia, che è poi l’immagine comunemente diffusa, ha la sua origine in una certa lettura di Platone, iniziata subito dopo la sua morte con Speusippo, il suo primo successore nella direzione dell’Accademia. Aristotele, non condividendo questa lettura, dopo vent’anni di appartenenza al gruppo fondato da Platone se ne andò.
Il cristianesimo avallò la lettura eidetica di Platone che durò per tutto il corso dell’Occidente fino a Nietzsche il quale, trovatosi nell’itinerario del suo pensiero a smascherare il cristianesimo, non poté evitare di imbattersi in Platone e nelle sue idee, che prese a demolire con “la filosofia del martello” decretando – sono le sue parole – “la fine del più lungo errore”.20
Il lungo errore è per Nietzsche lo statuto della separazione che Platone ha inaugurato con la distinzione tra mondo vero (o delle idee) e mondo apparente (o delle cose costruite a somiglianza delle idee). Lo statuto della separazione è proseguito nella distinzione cristiana tra cielo (vera patria) e terra (dimora provvisoria),21 condizionando i valori etici (bene e male) di cui si nutre il sociale, e quelli logici (vero e falso) di cui si nutrono il sapere e l’ordine delle scienze.
Andare “al di là del bene e del male”22 significa per Nietzsche andare al di là dello statuto della separazione e inaugurare una nuova umanità (da cui scende la teoria del Super-uomo: Übermensch) che si ponga al di là (über) dell’uomo come storicamente si è espresso nella storia della separazione tra mondo vero e mondo apparente.
La psicologia del profondo sta tra Platone (il Platone letto da Speusippo e affermatosi in Occidente) e Nietzsche. È platonica perché vive della separazione tra conscio e inconscio, ed è nietzscheana perché tende al superamento della separazione: o nella direzione freudiana, dove l’Io dovrebbe prosciugare l’inconscio, come gli olandesi hanno fatto prosciugando il mare lungo le loro coste,23 o nella direzione junghiana dove il simbolo dovrebbe mettere assieme (sym-bállein) ciò che conscio e inconscio tengono diviso (dia-bállein).
La direzione junghiana ha avuto ragione rispetto a quella freudiana. Il contrasto e la successiva separazione tra i due è stata oltremodo proficua e ben più radicale di quanto non ammetta lo stesso Jung.24 Infatti, che l’inconscio non sia prosciugabile è ormai evidente a tutti. Anzi, forse, per essere fedeli al pensiero di Jung più che alla sua terminologia, bisognerebbe abbandonare il termine “inconscio”, che si giustifica nell’impianto freudiano, e sostituirlo con “simbolo” come ho proposto ne La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo.
Ma soprattutto bisognerebbe liberare Jung (che da grande lettore di Nietzsche tenta in psicologia il superamento dello statuto della separazione che Nietzsche aveva promosso in filosofia) dal pesante platonismo che condiziona il suo pensiero e che è responsabile non solo dello statuto della separazione, ma anche della teoria degli archetipi, che altro non è che l’ipostatizzazione di un’astrazione puramente pensata e di carattere logico-universale, la cui legittimità poggia su presupposti filosofici in cui è implicita, anche se inconsapevolmente, una particolare concezione dell’essere umano in generale.
Eppure Jung, come rivela quasi a ogni passo, vuole essere soltanto un ricercatore empirico puro, un puro scienziato sperimentale e non già un filosofo. In realtà gli scienziati che si vantano di attenersi alla “pura empiria” si distinguono dai filosofi solo per il fatto che essi di solito si rifiutano di rendere conto della propria filosofia e dei presupposti filosofici della loro “pura empiria”.
In generale gli “empirici” non sono neppure coscienti del fatto che per principio non possono esistere delle osservazioni “puramente empiriche”, se con ciò intendiamo dei fatti singoli che siano conoscibili senza alcun presupposto, perché ogni osservazione empirica dipende da una pre-cognizione, antecedente a ogni punto di vista scientifico, sulla natura delle cose e delle loro reciproche connessioni. Come dice infatti Jaspers:
L’esclusione della filosofia è funesta per la psichiatria perché, a chi non è chiaramente consapevole della filosofia che lavora alle sue spalle, questa si introduce, senza che egli se ne accorga, nel suo pensiero e nel suo linguaggio scientifico, rendendo l’uno e l’altro poco chiari sia scientificamente che filosoficamente.25
Ora, la “recondita filosofia” di Jung, che gli consente di capire il comportamento umano a partire da quelle astrazioni dell’inconscio collettivo che sono gli archetipi, è una sorta di metafisica platonica psicologizzata. Come ricorda lo stesso Jung, infatti, fu Platone a porre “in un luogo celeste (an einem himmlischen Ort)”26 le idee di tutte le cose, ovvero quei modelli originari (Urbilder come li chiama correttamente Jung), che Platone considerava come più reali delle cose stesse. In seguito Filone l’Ebreo, platonico di Alessandria, le definì col termine greco di arché-typoi e infine Plotino, il fondatore del neoplatonismo che tenne scuola duecento anni più tardi, le considerò emanazioni dirette del principio primordiale divino o noûs, che è l’archetipo di tutti gli archetipi. Jung ha trasferito queste rappresentazioni archetipiche nello strato più basso della psiche, nell’inconscio collettivo, operando, in questo modo, una sorta di capovolgimento della metafisica di Platone e di Plotino.
Ora, pensare tutto questo è legittimo, ma, così facendo, non si può ritenere di poter operare una composizione simbolica servendosi di strumenti utili solo a ribadire e solidificare la separazione, e per giunta gettando l’uomo in balia di un determinismo culturale, ben più pesante di quello biologico, come risulta inconfutabile dalla psicologia archetipica di Hillman.27 Hillman, infatti, è l’erede diretto di quella lettura eidetica di Platone che ha percorso l’Occidente e che, nonostante Nietzsche, ancora permane come sottofondo teorico di ogni psicologia del profondo.
3. Genealogia
Ma è proprio vero che Platone ha inaugurato una filosofia eidetica o della verità assoluta con conseguente statuto della separazione per tutto ciò che verità non è? Questa immagine della filosofia, che è poi quella che hanno Freud e Jung, risponde all’intenzione speculativa di Platone oppure è il risultato storico di un fraintendimento o, come vuole l’espressione di Nietzsche, di un “lungo errore”? In questo caso bisognerebbe rifarne la storia che qui risparmio, limitandomi a portare l’attenzione su una parola dal cui fraintendimento è nata la “storia del più lungo errore”: la parola è psyché, in italiano “anima”.
In Platone si intrecciano due tradizioni: una legata ai riti misterici, a cui Platone era stato iniziato in Egitto da Sechenuf, e di cui parla con linguaggio mitologico nei dialoghi dedicati alla divina follia, all’Eros, ad Apollo e Dioniso, al caos e al cosmo, all’origine degli dèi e degli uomini.28 È l’anima della tradizione orfica commista alla tradizione sciamanica e alla nascente medicina della scuola di Cos che, nella sua pratica terapeutica, aveva accolto la tradizione di Asclepio, che curava nel sonno tramite il sogno. È l’anima dei lirici e dei primi tragici che a Eleusi la rappresentavano in drama.29
Ma a quest’anima, che oggi potremmo dire di natura psicologica, Platone affianca quell’anima, propriamente filosofica, che è la capacità di astrarre dalla molteplicità del sensibile per potersi esprimere nell’unità dell’idea. Infatti, dove non c’è unità, non c’è sapere. Non c’è sapere quando parlo dell’acqua del fiume, dell’acqua del mare, dell’acqua dello stagno, ma quando colgo ciò che queste acque hanno in comune: l’essenza dell’acqua o, come dice Platone, l’idea.
Queste idee sono in cielo perché in terra non è dato vedere l’essenza dell’acqua, ma l’acqua del fiume, del mare, dello stagno. Il sapere allora nasce solo se l’anima distoglie lo sguardo dalla dispersione in cui giacciono le cose sensibili, per volgerlo a quell’espressione della loro unità che è l’essenza o idea. Di ciò che è irriducibile a unità, come ad esempio i nostri corpi, non c’è sapere, e dove non c’è sapere c’è follia: la follia del corpo, dice Platone: “tês toû sómatos aphrosynes”.30
Con la “dottrina delle idee” Platone non inaugura una filosofia eidetica come luogo della verità assoluta, ma formula i codici grammaticali e gli statuti logici del linguaggio scientifico o, come lo chiama Platone, epistemico. Il linguaggio infatti, nelle mani dei sacerdoti, dei poeti, dei retori, dei sofisti corre il rischio della sovrabbondanza, dell’ambiguità, dell’equivoco e insieme dell’inconcludenza. Platone, con la sua magistrale e gigantesca costruzione che punta all’unità del molteplice, lo sottrae a questo rischio e lo instaura come “scientifico”.
Ma Platone nell’edificare il cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, non chiude l’abisso del caos, ma lo riconosce come minaccia e dono, come sede di parole incontrollabili, come dimora degli dèi, perciò può dire: “I beni più grandi ci vengono dalla follia (manía) naturalmente data per dono divino”,31 e poco dopo: “La follia dal dio proveniente è assai più bella della saggezza (sophrosýne) d’origine umana”.32
Si è soliti porre queste espressioni ai margini del testo platonico, per ricondurle alle esperienze misteriche a cui Platone era stato iniziato. Così marginalizzate, esse diventano inespressive, semplici residui biografici, connessioni inessenziali a credenze e pratiche religiose ancora diffuse ad Atene, espressioni comunque inconciliabili con la dottrina dell’anima e delle idee come è esposta nel Fedone e nella Repubblica.
Ma non è così. Proprio perché inaugura l’anima razionale, Platone sa da quale fondo psichico l’ha liberata, conosce le passioni che hanno alimentato la crisi di cui si è fatta interprete la tragedia, non ignora la temibile apertura verso la fonte opaca e buia di ogni valore sociale che chiama in causa il fondamento stesso della città, sa che la ragione e il sapere che la esprime si ottengono, come la buona armonia nella città, espellendo il kátharma, il residuo del sacrificio, il rifiuto del discorso che non sta alla regola, ma sa anche che bisogna sacrificare agli dèi perché è da quel mondo che vengono le parole, che poi la ragione ordina in sequenza non oracolare e non enigmatica.
Quel mondo che sta prima della ragione e che offre alla ragione i contenuti da ordinare per una produzione compiuta di senso è il mondo che Platone chiama della divina follia (theîa manía), dove le cose trasgrediscono le loro definizioni e si offrono come irradiazioni di immagini rinvianti a quell’ulteriorità di senso, che anche le più comuni esperienze non cessano di diffondere quando sfuggono al controllo dell’anima razionale. Per questo Platone scrive:
La profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, in condizioni di follia (maineîsai), fecero un gran bene alla Grecia, sia ai singoli, sia all’intera comunità, mentre poco o nulla fecero quando erano nelle condizioni di chi può ragionare (sophroneîn).33
Alle due sacerdotesse sopra menzionate, Platone aggiunge “la Sibilla e tutti quelli che da qualche dio ispirati trattarono la profezia”.34 Il dio ispiratore viene indicato alla fine della trattazione insieme agli altri dèi a cui sono da ricondurre le altre forme di follia, a proposito delle quali scrive Platone:
Quanto alla divina follia ne abbiamo distinto quattro forme a ciascuna delle quali è preposta una divinità: Apollo per la follia profetica, Dioniso per la follia iniziatica, le Muse per la follia poetica, mentre la quarta, la più eccelsa, è sotto l’influsso di Afrodite e di Amore.35
Si è molto insistito sulla differenza tra queste quattro forme di follia e sulla corretta attribuzione delle rispettive divinità, ma così facendo si è trascurata quell’identità che tutte le sottende e le contrappone, in quanto espressioni di follia, all’umana ragione. Se si perde di vista l’identità e la conseguente contrapposizione non si coglie l’intenzione platonica, che articola la differenza tra la conoscenza del mondo affidata all’umana ragione e la conoscenza di sé che non è possibile se non come dono del dio.
Le “idee” di Platone sono la prima grande macchina con cui la ragione si organizza, guadagna certezza di sé, e nel suo esercizio si autocertifica. La prima forma di autocertificazione è l’esclusione della follia. Folli sono tutti quei discorsi che non danno ragione alle regole della ragione, la cui capacità di dominio si trasforma dapprima in rappresentazione di un ordine necessario e, con il suo progressivo estendersi, in rappresentazione dell’ordine come tale.
Il metodo genealogico, che abbiamo appreso da Nietzsche, ci consente di dire che la ragione “ha ragione” non perché è un deposito di verità, ma perché ha storicamente vinto, e la sua vittoria è diventata la base della discorsività in generale. Non c’è infatti un mondo del razionale e un mondo dell’irrazionale (questo è il grande equivoco della psicologia del profondo ereditata dall’immagine eidetica della filosofia platonica), ma solo le condizioni e le regole della discorsività. Noi possiamo parlare e intenderci in modo univoco non perché partecipiamo a un’idea eterna di ragione, ma perché abitiamo la sua vittoria storica e la sua estensione geografica.
Condizione del dominio della ragione è l’esclusione della follia, che non deve essere pensata come il contrario della ragione, ma come l’articolazione delle stesse forze che compongono lo spazio storico della ragione e che però non trovano la regola del loro punto di equilibrio. Nietzsche ha colto perfettamente la dinamica attraverso cui si costituisce la ragione:
Che cos’è il “conoscere”? Il riportare qualcosa di estraneo a qualcosa di noto, di familiare. Prima proposizione: ciò a cui siamo abituati non viene più da noi considerato un enigma, un problema. Smussamento del sentimento del nuovo e dello strano: tutto ciò che accade regolarmente non ci sembra più problematico. Perciò quello di “cercar la regola” è il primo istinto di chi conosce, mentre naturalmente per il fatto che sia trovata la regola niente ancora è “conosciuto”! – Di qui la superstizione dei fisici: dove possono perseverare, cioè dove la regolarità dei fenomeni consente di applicare formule abbreviate, credono che sia conosciuto. Sentono “sicurezza”, ma dietro questa sicurezza intellettuale sta l’acquietamento della paura: vogliono la regola, perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso. La paura dell’incalcolabile come istinto segreto della scienza.36
Ridefinita in chiave genealogica, la filosofia (e dopo di lei naturalmente la scienza), lungi dell’essere il luogo della verità, come potrebbe apparire a una sua visualizzazione in chiave eidetica, diventa il luogo delle regole. Dal canto suo la psicologia del profondo, come cura della follia, non si situa al lato opposto della ragione, né le sta accanto, né, tanto meno, costituisce il suo rovescio logico. Pensare così significa pensare ancora in termini di separazione, e quindi nell’assoluta impossibilità di qualsiasi composizione simbolica. Non ci sono sponde (razionale e irrazionale) da allacciare con un ponte, ma ci sono radici che possono approdare o non approdare all’albero.
Se la differenza tra ragione e follia non è nella contrapposizione delle forze, ma in presenza delle stesse forze, nel reperimento o nel non reperimento di regole, la follia che parla in assenza di regole è la trama su cui la ragione costruisce il tessuto delle sue regole. Tra ragione e follia c’è dunque uno scambio che, seppure rimosso, incessantemente continua. Infatti, scrive ancora Nietzsche:
Due impulsi contrari, che tendono in direzioni opposte, sono qui costretti, per così dire, a procedere sotto un solo giogo. L’impulso che vuole la conoscenza è costretto senza posa ad abbandonare il terreno su cui vive l’uomo e ad avventurarsi nell’incertezza, mentre l’impulso che vuole la vita si vede costretto a cercare senza posa, a tentoni, un nuovo luogo abbastanza sicuro in cui stabilirsi [...] Quella lotta tra il vivere e il conoscere diventa tanto più violenta – e quel procedere sotto un solo giogo diventa tanto più strano – quanto più possenti sono i due impulsi, cioè quanto più piena e fiorente è la vita, e quanto più insaziabile, d’altro canto, è il conoscere, che si spinge con più forte desiderio verso tutte le avventure.37
Se la psicologia del profondo è quell’ascolto che accoglie le parole della vita fino alla parola folle, la filosofia, come luogo delle regole, non può che essere in ascolto della psicologia del profondo per ricomporre, in ogni punto di squilibrio, quel riassetto delle cose e dei segni che sono il nuovo equilibrio. Sull’altro versante, se non c’è una filosofia come discorso della ragione assoluta – questo era il fraintendimento di Freud e di Jung che pensavano alla filosofia in chiave eidetica – c’è però una filosofia come luogo in cui si controllano le ragioni discorsive, e qui la psicologia del profondo deve produrre le regole del suo discorso. Tali regole, lo abbiamo detto, sembra offrirle l’ermeneutica che, a questo punto, potrebbe essere quella “filosofia futura” che Jung auspicava per la legittimazione della psicologia.
1 S. Freud, Lettera a Lothar Bickel, 26.6.1931, in S. Hessing, Freud’s Relation with Spinoza, Heley, Boston 1977, p. 224.
2 C.G. Jung, Theoretische Überlegungen zum Wesen des Psychischen (1947-1954); tr. it. Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in Opere, Boringhieri, Torino 1969-1993, vol. VIII, p. 180. Questo concetto ritorna anche a p. 188: “Ogni scienza è funzione della psiche, e ogni conoscenza ha nella psiche le sue radici”; p. 234: “Il tragico è che la psicologia non dispone di una matematica che sia sempre uguale a se stessa, ma soltanto di un calcolo di pregiudizi soggettivi. Le manca quindi l’enorme vantaggio di un punto archimedeo come quello su cui può contare la fisica”; pp. 294-295: “Mi è già stato obiettato che l’interpretazione al livello del soggetto è un problema filosofico e l’attuazione di questo principio urta contro i limiti della concezione del mondo e cessa pertanto di essere scienza. Non mi stupisce affatto che la psicologia sfiori la filosofia, perché il pensiero che sta alla base della filosofia è un’attività psichica che, come tale, è oggetto della psicologia. Quando parlo di psicologia intendo sempre l’intera estensione della psiche, e questa comprende filosofia, teologia e parecchie altre cose ancora. Poiché di contro a tutte le filosofie e a tutte le religioni stanno i fatti della psiche umana, la quale decide forse in ultima istanza su ciò che è verità e ciò che è errore”.
3 Ivi, p. 181.
4 S. Freud, Vorrede zu “Probleme der Religionspsychologie” von Dr. Theodor Reik (1919); tr. it. Prefazione a “Il rito religioso: studi psicoanalitici” di Theodor Reik, in Opere, Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. IX, p. 125. Lo stesso concetto era stato anticipato in Totem und tabu (1912-1913); tr. it. Totem e tabù, in Opere, cit., vol. VII, p. 79, dove si legge: “Il delirio paranoico è la caricatura di un sistema filosofico”; e in Zur Einführung des Narzissmus (1914); tr. it. Introduzione al narcisismo, in Opere, cit., vol. VII, pp. 406 sgg., dove si parla della “tipica propensione dei paranoici a elaborare sistemi di tipo speculativo”.
5 Platone, Alcibiade primo, 133 a.
6 C.G. Jung, Psychologische Determinationen des menschliches Verhaltens (pubblicato inizialmente in lingua inglese con il titolo Psychological Factors determining Human Behaviour) (1936-1937); tr. it. Determinazioni psicologiche del comportamento umano, in Opere, cit., vol. VIII, p. 143.
7 Eraclito, fr. B 50.
8 K.R. Popper, Conjectures and Refutations (1969); tr. it. Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, il Mulino, Bologna 1972, pp. 61-67.
9 E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie (1934-1937, pubblicata nel 1954); tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1972, p. 353.
10 Ivi, p. 35.
11 U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 1979.
12 K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie (1913-1959); tr. it. Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 2000, pp. 750-790.
13 Per un approfondimento di questo argomento si veda U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, cit., capitolo 8: “La ‘fenomenologia empirica’ di Jung e il suo tentativo di ricomporre teoria e prassi. Il ‘simbolo’ e gli ‘archetipi’”.
14 C.G. Jung, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, cit., p. 240.
15 Si veda in proposito U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 15: “Gli strumenti del sapere”.
16 Id., La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo (1984), Feltrinelli, Milano 2001.
17 E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge (1931); tr. it. Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1969, p. 6.
18 M. Trevi, Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano 1987, p. 16.
19 Ivi, pp. 13-14.
20 F. Nietzsche, Götzendämmerung, oder: Wie man mit dem Hammer philosophiert (1889); tr. it. Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, in Opere, Adelphi, Milano 1970, vol. VI, 3, p. 76. A Platone Nietzsche aveva dedicato i corsi tenuti all’Università di Basilea nei semestri invernali 1871-1872, 1873-1874 e nel semestre estivo 1876, oggi raccolti in Plato amicus sed. Einleitung in das Studium der platonische Dialoge; tr. it. Plato amicus sed. Introduzione ai dialoghi platonici, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
21 Agostino di Tagaste, De civitate Dei (413-426); tr. it. La città di Dio, Rusconi, Milano 1984.
22 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft (1886); tr. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in Opere, cit., 1972, vol. VI, 2.
23 S. Freud, Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse (1932); tr. it. Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), in Opere, cit., vol. XI, p. 190.
24 C.G. Jung, Der Gegensatz Freud und Jung (1929); tr. it. Il contrasto tra Freud e Jung, in Opere, cit., vol. IV.
25 K. Jaspers, Psicopatologia generale, cit., p. 818.
26 C.G. Jung, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, cit., p. 209.
27 J. Hillman, Re-visioning Psychology (1975); tr. it. Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano 1983.
28 Si veda a questo proposito U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo, cit., capitolo 13: “La divina follia”.
29 Per un approfondimento di questa tematica si veda Id., Gli equivoci dell’anima, cit., Parte I: “Storia dell’anima”.
30 Platone, Fedone, 67 a.
31 Id., Fedro, 244 a.
32 Ivi, 244 d.
33 Ivi, 244 b.
34 Ibidem.
35 Ivi, 265 b.
36 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1885-1887; tr. it. Frammenti postumi 1885-1887, in Opere, cit., 1975, vol. VIII, 1, fr. 5 (10), p. 177.
37 Id., Nachgelassene Fragmente 1875-1876; tr. it. Frammenti postumi 1875-1876, in Opere, cit., 1967, vol. IV, 1, fr. 6 (48), p. 175.