Introduzione

Le visioni del mondo sottese alla psicoanalisi e alla pratica filosofica

Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze.

F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1883-1885), Prefazione, § 3, p. 6.

1. La domanda sul dolore e sul suo senso

La morte di Dio non è passata invano sulle vicende umane, e tanto meno su quella vicenda di tutte le vicende che è l’umano patire, a conforto o a rimedio del quale sono state senza fine ideate pratiche di cura.

Ultima in ordine di tempo è la pratica filosofica1 che, al contrario di quanto comunemente si pensa, non contende lo spazio alle altre terapie, perché non è una terapia. Non crede infatti che dal dolore si possa guarire, perché pensa che il dolore non è un inconveniente che capita all’esistenza come effetto di una causa conscia o inconscia a cui si può porre rimedio con una cura, ma ritiene che il dolore non sia separabile dall’esistenza e, in quanto suo costitutivo, non sia suscettibile di guarigione, ma governabile con la cura di sé.

Come ho mostrato in Psiche e techne,2 ripercorrendo quella lunga tradizione che da Platone conduce a Gehlen attraverso Tommaso d’Aquino, Kant, Herder, Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, l’uomo è l’unico tra i viventi a non essere corredato di istinti, e perciò è quell’essere la cui esistenza, non essendo precodificata, è posta come compito. Eludere tale compito equivale a rinunciare alla condizione umana, a perdere la propria vita prima che sopraggiunga la morte, che a questo punto suggella la fine non di un’esistenza, ma di un semplice percorso biologico.

Evocando la morte, il vero rimosso della cultura occidentale, evochiamo il limite costitutivo dell’esistenza umana, la sua finitudine, di cui la sofferenza che costella la vita, la vita di tutti, è anticipazione e ineludibile richiamo. Diciamo di tutti, anche di chi al momento non soffre, perché di fronte alla sofferenza fa breccia anche in lui, inquietante, la possibilità di soffrire. Questa possibilità universalizza il dolore facendolo apparire in tutta la sua ineluttabilità come tratto ineludibile dell’esistenza.

Qui nasce la domanda circa il senso della sofferenza, che poi si estende alla domanda che chiede il senso della vita, se è vero che la sofferenza le è costitutiva. Il senso, infatti, è come la fame che si avverte non quando si è sazi, ma quando manca il cibo. È l’esperienza del negativo a promuovere la ricerca, è la malattia, il dolore, l’angoscia, non la felicità, sul cui senso nessuno si è mai posto domande.

Lamentare la mancanza di senso significa allora lamentarsi del dolore, della malattia, della morte, per cui la “domanda di senso” è un’espressione nobile che nasconde il rifiuto da parte dell’uomo dell’esperienza del negativo, la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite. Ma indaghiamo questo limite e soprattutto vediamo di capire cosa diventa il dolore, qualora fossimo in grado di interiorizzare e far pace con il nostro limite.

La domanda di senso si fa più acuta nell’età della tecnica, perché la tecnica tende a mortificare l’individuo nella sua peculiarità, per ridurlo a puro funzionario di un apparato, la cui efficienza è garantita più dalla sostituibilità degli individui che dalla loro specificità. Questa omologazione, che cancella tutte le individuazioni, mortifica le singole soggettività, a cui viene sottratto l’agire in vista di uno scopo, sostituito da un puro e semplice fare azioni descritte e prescritte, senza una visibile finalità che possa giustificare e rinsaldare la loro identità.

Questo processo di de-individuazione, ampiamente trattato in Psiche e techne,3 confligge con l’esperienza del dolore che, come ci ricorda Natoli, “è la modalità classica tramite cui si fa esperienza della propria individualità [...] per la semplice ragione che nessuno è sostituibile nel proprio dolore, così come non lo è nella propria morte”.4 L’età della tecnica, de-individualizzando i singoli soggetti di cui mortifica la specificità, offre sempre meno strumenti per reperire un senso all’esperienza del dolore, nella quale il singolo tocca drammaticamente con mano la propria dimensione individuale e insostituibile.

Nella sofferenza siamo insostituibili perché siamo insostituibili nella morte, di cui la sofferenza è un’anticipazione, in quanto sottrazione di vita, sua estenuazione, riduzione della sua espansività, suo ripiegamento. Come tale la sofferenza, oltre che evento fisico o psichico, di fronte al quale si arrestano la medicina e la psicoanalisi con i loro rimedi, segnala la condizione ineludibile dell’umano: la condizione mortale. Qui la medicina e la psicoanalisi sono impotenti, mentre la pratica filosofica, che discende dalla consapevolezza della condizione umana, comincia a parlare come parlava la sapienza degli antichi Greci che, pur disponendo di due parole per dire “uomo”, anér e ánthropos, impiegano quasi sempre le espressioni brotós e thnetós che significano “mortale”.

Della morte non ci addolora l’evento in sé, ma la consapevolezza della sua ineludibilità e quindi l’attesa di cui la sofferenza è l’avvisaglia. Non soffriamo, infatti, solo del male fisico o psichico che ci tocca, ma soprattutto del suo segnale premonitore. Patire significa infatti subire quel che non si può scegliere. Nel patimento fisico o psichico, oltre al dolore della sofferenza, c’è il dolore dell’attesa di morte, di cui la sofferenza, che restringe le possibilità di vita, è inequivoco segnale. Per questo la pazienza, che è l’arte del saper patire, è virtù riconosciuta nei pazienti, non tanto perché si attende la guarigione prossima o ventura, quanto perché si è consapevoli di non poter evitare la propria sorte mortale.

Nel patire quel che non possiamo evitare, la sofferenza, fisica o psichica che sia, ci mette a contatto con il nostro limite, anzi ci consegna al nostro limite che ci descrive come esseri sospesi sul nulla. Dal nulla venuti, al nulla destinati. Puri eventi consegnati alla precarietà dell’esistere che chiedono il senso della loro precarietà. In questa radicale mancanza di senso fa la sua comparsa l’angoscia, che, come Freud e Heidegger ci hanno insegnato, a differenza della paura, non ha un oggetto che la scatena. Scrive in proposito Freud:

L’angoscia (Angst) ha un’innegabile connessione con l’attesa: è angoscia prima di e innanzi a qualche cosa. Possiede un carattere di indeterminatezza e di mancanza di oggetto. Nel parlare comune, quando essa ha trovato un oggetto, le si cambia nome, sostituendolo con quello di paura (Furcht).5

E Heidegger dal canto suo:

Col termine angoscia (Angst) non intendiamo quell’ansietà (Ängstlichkeit) assai frequente che, in fondo, fa parte di quel senso di paura (Furcht) che insorge fin troppo facilmente. L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia: la paura di... è sempre anche paura per qualcosa di determinato. E poiché è propria della paura la limitatezza del suo oggetto e del suo motivo, chi ha paura ed è pauroso è prigioniero di ciò in cui si trova. Nel tendere a salvarsi da questo qualcosa di determinato, egli diventa insicuro nei confronti di ogni altra cosa, cioè, nell’insieme, “perde la testa”.
L’angoscia non fa più insorgere un simile perturbamento. È attraversata piuttosto da una quiete singolare. Certo, l’angoscia è sempre angoscia di..., è sempre angoscia per..., ma non è per questo o per quello. Tuttavia, l’indeterminatezza di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo non è un mero difetto di determinatezza, bensì l’essenziale impossibilità della determinatezza.6

Non ci si angoscia dunque per “questo” o per “quello”, ma per il nulla che ci precede e che ci attende: “L’angoscia rivela il niente” scrive Heidegger.7

Di “questo” o di “quello” si occupa la pratica psicoanalitica; del nulla, di cui “questo” o “quello” sono semplici premonizioni, si occupa la pratica filosofica, che non prende in considerazione questa o quella sofferenza, questa o quella restrizione della vita, se non per inscriverle in quella più ampia esperienza che mostra l’ineludibile precarietà della nostra esistenza, la cui rimozione è la via regia per la consegna alla disperazione.

Può disperarsi, infatti, solo chi ha sperato di poter superare il limite costitutivo dell’esistenza. Qui gli antichi Greci scorgevano la massima colpa che l’uomo potesse commettere. E la chiamarono hýbris, tracotanza, pretesa di oltrepassare il limite, non riconoscere che tutto ciò che nell’esistenza si genera in essa si dissolve. Così almeno risuona la prima parola della filosofia che con Anassimandro recita:

Da dove tutti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.8

La pratica analitica coglie l’angoscia nevrotica che ha la sua causa-colpa (in greco le due parole sono rese dallo stesso termine aitía) nei trascorsi del sofferente, nel suo passato, nella sua biografia; la pratica filosofica coglie l’angoscia esistenziale che alle sue spalle non ha né una causa né una colpa, perché nasce dall’anticipazione della morte futura, di cui la sofferenza, come riduzione delle possibilità di vita, è segno e anticipazione.

Dall’angoscia nevrotica si può guarire limitatamente ai sintomi con cui questa angoscia si manifesta, ma non in ordine allo sfondo a cui tali sintomi rinviano, che è poi lo sfondo dell’esistenza percepita come assoluta precarietà. Qui la pratica analitica è impotente, mentre la pratica filosofica ha ancora una parola da dire. E la dice inscrivendo la caducità dell’esistenza nell’universale caducità, che non è una malattia da cui si può anche guarire, perché è la condizione di ogni esistenza che vuol vederci chiaro e non illudersi con cieche speranze. A ricordarcelo è Eschilo:

CORO: Nei doni concessi non sei magari andato oltre?
PROMETEO: Sì, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale.
CORO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?
PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze (typhlàs elpídas).
CORO: Un grande giovamento hai così donato ai mortali.9

Questo motivo della caducità universale è stato avvistato anche da Freud là dove racconta:

Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi, ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato o potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato. [...] L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine; e, poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità.10

Per non compromettere il proprio impianto psicoanalitico, dal pensiero della caducità Freud si è subito allontanato con la motivazione che “l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso”. Eppure è stato proprio Freud a insegnarci che non è con la rimozione che si risolvono i problemi. E perciò è proprio nel “doloroso” che la pratica filosofica vuole entrare per interrogare il senso dell’esistenza a partire dalla sua caducità.

Qui Oriente e Occidente si dividono. L’Oriente dice che il dolore in cui si esprime la caducità dell’esistenza non ha una sua realtà, ma è solo apparenza. Essa nasce da un’errata posizione assunta nei confronti dell’esistenza, per cui è sufficiente cambiare atteggiamento nei confronti del mondo, rinunciare ad esempio alla dimensione volontaristica che vuol dominare tutte le cose, e il mondo del dolore appare per quello che è: pura apparenza.

L’Occidente, al contrario, è persuaso che la caducità dell’esistenza, come del resto di tutte le cose, non è apparenza, ma realtà, da cui il dolore scaturisce come sua conseguenza. È qui che le due grandi visioni del mondo, quella greca e quella giudaico-cristiana, dalla cui confluenza è scaturito l’Occidente, divergono.

Per la tradizione giudaico-cristiana il dolore è la conseguenza di una caduta dovuta a una colpa, che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In tale visione il dolore è castigo e a un tempo evento purificatore. Come tale concorre alla redenzione e alla salvezza. In tale prospettiva il dolore non è costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme mezzo del suo riscatto. Una volta secolarizzata, questa visione religiosa del mondo porta all’interpretazione del dolore come un inconveniente dell’esistenza da cui si può anche “guarire”. La pratica psicoanalitica è per intero inclusa in questa visione religiosa del mondo.

Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma è il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Accolta la caducità dell’esistenza, occorre poi imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo contrarsi, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione può modificare. La pratica filosofica è inscritta in tale visione del mondo, e perciò non conosce speranze salvifiche e concomitanti disperazioni, ma solo la temperata saggezza che il dolore lo si può reggere ed, entro certi limiti, dominare.

2. La risposta della tradizione giudaico-cristiana e la pratica psicoanalitica

Se la sofferenza è la conseguenza di una colpa suscettibile di redenzione, questa terra e l’esistenza che su questa terra si compie sono vissute come un transito. Il futuro atteso lenisce la crudeltà del dolore, perché chi oggi soffre domani sarà liberato. In tale prospettiva il dolore non è più pensato come qualcosa che ineluttabilmente appartiene alla vita, ma come qualcosa che è capitato alla vita terrena in seguito a una colpa, e quindi come qualcosa di fondamentalmente separato dalla vita. Ciò significa che la vera vita non conosce il dolore, e se sulla terra la vita non è esente dal dolore è solo perché la vita sulla terra non è quella vera, quella per cui siamo nati.

Ciò comporta una svalutazione della vita terrena: “valle di lacrime” che, come dice Isaia, trova la sua giustificazione nell’attesa di nuovi cieli e nuove terre:

Ecco dunque che io creerò cieli nuovi e nuova terra.
Non si ricorderà più il passato, non tornerà più in mente,
poiché si vivrà e si gioirà per sempre per le cose che io creerò.11

A differenza della visione greca, per la quale la vita è insieme crudeltà e bellezza, la visione giudaico-cristiana, con la promessa della liberazione futura, ha potuto farsi carico e immedesimarsi con tutta la sofferenza degli uomini, vanificando la bellezza della vita terrena in quanto vita transeunte e denigrando questo mondo in quanto mondo di dolore.

Ma il dolore, se da un lato è l’elemento che porta alla svalutazione di questo mondo, dall’altro è il fattore più potente che induce alla speranza e alla fede. Una volta che questa terra e questa esistenza terrena sono visualizzate come terra ed esistenza dolente, la scommessa su Dio non è, come vorrebbe Pascal,12 una vera scommessa, perché è l’ultima speranza.

Se il dolore è il pegno della salvezza, non andrà solo sopportato, ma anche amato. E così all’etica della forza e della moderazione, all’etica della dignità dell’uomo che deve saper reggere il dolore fino a quando è compatibile al conseguimento di una bella morte, a quest’etica, che la scuola stoica aveva cadenzato nella massima substine et abstine, la concezione cristiana, dopo aver riposto nel dolore la garanzia della salvezza, chiede di amare il dolore perché il tormento del presente è la caparra del futuro.

Francesco di Sales, che coerentemente con la visione cristiana dell’esistenza fonda questa pedagogia del dolore, è consapevole della distanza che separa il cristianesimo dalla grecità e, in polemica con il substine et abstine stoico, dichiara:

La dottrina cristiana, la sola vera filosofia, è tutta stabilita su questi principi: l’abnegazione di sé che è molto superiore all’astenersi dai piaceri; portare la croce, che è cosa assai più sublime del sopportarla; seguire il Signore, non soltanto nella rinuncia di sé o nel portar la propria croce, ma anche nella pratica di ogni opera buona. Tuttavia il vero amore, più che col rinnegamento di sé e con l’azione, si dimostra nel patire.13

L’idea giudaico-cristiana, che giustifica la sofferenza in questa vita terrena e transeunte, in vista di quella eterna senza dolore, mette in circolazione una concezione della vita come malattia, da cui un giorno sarà possibile liberarsi. Questa visione del mondo sopravvive alla morte di Dio e informa di sé la concezione antropologica sottesa alla psicoanalisi, che visualizza l’uomo come pato-logico, come colui che subisce e patisce (pathéein) le forze oscure dell’inconscio, cause della sua sofferenza e del suo disagio, da cui occorre liberarsi. In questo senso scrive Freud: “Dov’era l’Es deve subentrare l’Io. È un’opera della civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee”.14 E ancora:

Le età future riservano nuovi e forse inimmaginabili passi avanti in questo campo che appartiene alla civiltà, e accresceranno ancora la somiglianza dell’uomo con Dio. Pure, nell’interesse della nostra indagine, non dimentichiamo che l’uomo d’oggi, nella sua somiglianza con Dio, non si sente felice.15

All’infelicità attuale segue la speranza futura. Nell’al di là secondo la visione giudaico-cristiana, nel progresso del sapere secondo la versione secolarizzata di questa visione. E come il dolore dell’esistenza, nella visione giudaico-cristiana, non è definitivo, perché ad attenderci c’è una vita senza dolore, allo stesso modo la sofferenza dell’individuo, così come il disagio della civiltà, non sono definitivi, perché la pratica terapeutica, come la pratica religiosa quando si credeva in Dio, assicura la salvezza che, nel registro più modesto della psicoanalisi, si chiama salute. Infatti, scrive Natoli:

La morte di Dio non lascia solo orfani, ma anche eredi. Questo Dio era ancora in agonia quando si facevano avanti i suoi sostituti: le filosofie del progresso e le ideologie della rivoluzione. La necrosi di Dio dà luogo a un innumerevole pullulare di umane salvezze che tanto più proliferano quanto più falliscono. Questo fenomeno è ormai chiaramente riconosciuto come processo di secolarizzazione. La secolarizzazione dà svolgimento mondano al bisogno salvifico degli uomini e in tale svolgimento gli uomini divengono promotori della loro stessa salvezza. Tuttavia la secolarizzazione non riconsegna l’uomo alla terra, come a prima vista potrebbe sembrare, ma consegna la terra nelle mani dell’uomo perché egli stesso ne sia il liberatore.16

La liberazione avviene con il sapere, con la conoscenza scientifica che, al suo primo sorgere, percepisce se stessa come potenza. Conferme in tal senso si hanno in Bacone, non solo là dove dice esplicitamente che “la scienza è potenza”,17 ma nell’incondizionata fiducia che egli ripone nelle possibilità della scienza e della tecnica in ordine al miglioramento della condizione dell’uomo.

Pur offrendo un paradigma sostanzialmente privo di concreti e convincenti risultati scientifici, Bacone è fortemente animato dalla convinzione che la trasformazione scientifica del mondo al servizio dell’uomo non è qualcosa che sta per accadere, ma qualcosa che si deve far accadere, qualcosa che assume la tonalità morale del compito da eseguire religiosamente, come si conviene in presenza del comando divino. Questo almeno è il senso che in tutta evidenza traspare dalle espressioni con cui Bacone chiude il suo Novum Organum:

In seguito al peccato originale, l’uomo decadde dal suo stato di innocenza, e dal suo dominio sulle cose create. Ma entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte, in questa vita. La prima mediante la religione e la fede, la seconda mediante le tecniche e le scienze. In seguito alla maledizione divina, il creato non è diventato interamente e per sempre ribelle: in virtù di quella massima “guadagnerai il tuo pane con il sudore della tua fronte” (Genesi, 3, 19), attraverso molte fatiche (non certamente con le dispute o le oziose cerimonie della magia), finalmente è costretto a dare il pane all’uomo e cioè è costretto agli usi della vita umana.18

Così inscritto in un programma religioso, il progetto tecnicoscientifico che inaugura l’età moderna pensa se stesso da un lato come esecutore di un programma divino e dall’altro come efficace attuazione di un compito morale. In questo contesto, la potenza conoscitiva implicita nella “nuova scienza” appare come atto di umiltà, come forma di espiazione di quella colpa espressa nella superbia intellettuale del peccato originale da cui, secondo Bacone, non è immune l’antica speculazione greca. E se quest’ultima subordinava il “fare” al “vedere contemplativo”, che aveva per oggetto una natura pensata come immutabile, la scienza moderna subordina il “vedere” al “fare manipolativo” che nelle leggi della natura scorge l’impronta di Dio, e nella loro scoperta le condizioni del riscatto umano.19

Se il sapere riscatta e redime, come un tempo la fede nella parola di Dio, al sapere verrà consegnata anche la conduzione dell’anima, un tempo affidata alla pratica religiosa, e oggi alla pratica psicoanalitica. Alla psicoanalisi dobbiamo essere grati per quanto ci ha fatto conoscere in ordine alle dinamiche pulsionali e ai processi di simbolizzazione, ma ciò non toglie che questo sapere, come è nelle intenzioni di ogni sapere, ha in vista un potere, il potere di curare il dolore dell’uomo.

In questo modo la psicoanalisi è pienamente inscritta nella visione religiosa della tradizione giudaico-cristiana secondo la quale il dolore non è un costitutivo dell’esistenza, ma qualcosa da essa separato, che va estirpato, curato, guarito, seguendo procedure che, solo per il contenuto, differenziano la pratica psicoanalitica dalla pratica religiosa, perché, per la forma, entrambe sono inscritte in quella visione del mondo che concepisce il dolore non come un tratto inscindibile dell’esistenza, ma come una malattia da cui si può e si deve guarire.

In questo modo la psicoanalisi si presenta come una forma di medicalizzazione dell’umano, che è poi la versione secolarizzata della redenzione religiosa. Per entrambe, infatti, l’uomo deve essere salvato dal dolore, perché il dolore non è una condizione imprescindibile dell’esistenza come pensavano i Greci, ma ha una sua ben identificata causa-colpa (aitía) da cui è possibile redimersi, e, nel linguaggio secolarizzato, guarire.

La potenza del sapere che guarisce è dunque la versione secolarizzata della potenza della fede che salva, per cui, in presenza del dolore, occorre affidarsi al sapere come un tempo ci si affidava alla fede. L’esito di questo affidamento è in entrambi i casi la rimozione del dolore come costitutivo dell’esistenza, per cui il dolore non ha più circolazione nella vita quotidiana degli uomini, ma viene relegato in quei luoghi dove, come ci insegna Foucault nella Nascita della clinica,20 la competenza del sapere esercita il suo potere. Lo studio psicoanalitico è uno di questi luoghi, dove un “supposto sapere”, come direbbe Lacan,21 indica la via della salute, come la dottrina della Chiesa indica la via della salvezza. Perfetta identità di intenti nell’apparente contrapposizione delle vie da seguire.

Ma la rimozione del dolore, a cui ricorre anche il sofferente per il terrore dell’abbandono, fa perdere all’uomo ciò che gli antichi Greci chiamavano la “giusta misura (katà métron)”,22 che è poi la cifra della sua finitezza che l’uomo non deve oltrepassare (hyper tò anthrópinon méytron).23 E se la tecnica, nata come progetto di salvezza, stesse per compiere questo oltrepassamento? Se fosse, come è, in grado di estinguere l’evento umano? Se, come scrive Günther Anders: “La tecnica può segnare quel punto assolutamente nuovo della storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più: che cosa possiamo fare noi con la tecnica, ma che cosa la tecnica può fare di noi”?24 Se tutto ciò è vero, chi ci difende da questa angoscia? La psicoanalisi che conosce l’angoscia nevrotica o la pratica filosofica che conosce la giusta misura?

3. La risposta della cultura greca e la pratica filosofica

La grandezza dei Greci, scrive Nietzsche, consiste nel fatto che hanno avuto il coraggio di “guardare in faccia il dolore e di conoscere e sentire i terrori e le atrocità dell’esistenza”25 senza lenirli con speranze ultraterrene. Ciò fu loro possibile a partire dalla concezione che avevano della natura. Non creatura di Dio regolata dalla sua provvidenza, ma sfondo immutabile “che nessun Dio e nessun uomo fece”,26 dove il ciclo governa il generarsi e il dissolversi di tutte le vite, secondo necessità. Una natura a un tempo generativa e distruttiva, copiosa di vita e di morte.

Qui i Greci hanno colto l’essenza del tragico, che non sta nel semplice soffrire e morire delle singole esistenze, ma nella necessità della loro morte affinché si generi la vita. La gioia della vita è resa possibile dalla crudeltà della morte, per cui il dolore e la morte non sono qualcosa che è capitato alla vita in seguito a una caduta o a una colpa, ma sono intrinseche alla vita stessa come condizioni del suo accadere. Qui è l’essenza del tragico. Un evento solo greco, scrive Jaspers, perché solo i Greci hanno colto la circolarità della vita con la morte, la felicità e la gioia della vita inseparabile dal dolore e dalla morte che l’annienta. Scrive in proposito Jaspers:

La coscienza tragica contempla il dolore dell’uomo, la sua sventura e la sua morte. Le sono familiari l’afflizione più profonda come il più profondo giubilo. L’afflizione è data dalla consapevolezza dell’eterno avvicendarsi della vita, della morte e della rinascita, in una metamorfosi senza fine. Il dio che muore e poi ritorna, la festa delle stagioni, come simbolo di questo morire e risorgere, è la realtà di fondo di questo mondo. La concezione mitica della dea madre, dispensatrice di vita e dea della morte, che genera, nutre, cura, ama e fa maturare ogni cosa, è la stessa che ogni cosa riprende anche nel proprio seno, lasciandola spietatamente morire. [...]
Nella religione rivelata giudaico-cristiana, ogni disarmonia dell’esistenza e tutto ciò che si presenta con i caratteri della tragedia derivano dall’origine stessa dell’umanità: il peccato originale che ha la sua radice nella caduta di Adamo. La redenzione nasce dalla morte in croce di Gesù Cristo. Le cose del mondo, in quanto tali, sono guaste. L’uomo è implicato in una colpa irreparabile, prima ancora di poter peccare come singolo. Egli è coinvolto nel medesimo processo di colpa e redenzione che tutto fonda, partecipando dell’una e dell’altra per se stesso e non per sé solo. Già colpevole per il peccato originale, è redento dalla grazia. Poi prende su di sé la sua croce, non limitandosi a subire pazientemente, ma scegliendo addirittura i dolori dell’esistenza, i contrasti e gli strazi della vita. Non c’è più tragicità, perché, attraverso le prove più terribili, splende il fulgore beatifico della grazia.
Da questo punto di vista, la redenzione cristiana si oppone alla coscienza tragica. La possibilità che ha il singolo di salvarsi distrugge il senso tragico di una rovina senza scampo. Ecco perché non esiste una vera e propria tragedia cristiana, perché nel dramma cristiano il mistero della redenzione costituisce la base e l’atmosfera dell’azione, e la coscienza tragica è risolta a priori nella certezza di poter raggiungere la perfezione e la salvezza attraverso la grazia. [...]
Tutte le esperienze fondamentali dell’uomo, una volta cristiane, non sono più tragiche. Il peccato si trasforma in felix culpa che rende possibile la redenzione. Il tradimento di Giuda favorisce la morte salvifica di Cristo, causa di eterna felicità per tutti i credenti. Se Cristo è il più profondo simbolo del fallimento nel mondo, lo è in senso tutt’altro che tragico, perché il suo fallimento è una luce, una vittoria, un’attuazione.27

La circolarità di vita e morte, che la coscienza tragica coglie senza infingimenti, da un lato lascia innocente la natura nel suo eccesso di vita e nella sua crudeltà, dall’altro confligge con la vita del singolo individuo che vuol durare. In lui la naturalità della morte non coincide con l’accettazione passiva della morte perché, se è vero che ogni singola vita deve morire affinché la vita viva, è altrettanto vero che ciascuna vita non vuole consegnarsi alla morte, non perché teme quel che può accadere dopo, ma perché è vita e, in quanto vita, rifiuta la morte.

Qui il tragico appare in tutta la sua drammaticità, che non consiste nella contrapposizione tra la vita e la morte come nella concezione cristiana, per cui, dopo la resurrezione di Cristo, Paolo di Tarso può dire: “O morte dov’è la tua vittoria? O morte dov’è il tuo pungiglione?”,28 ma consiste nella contrapposizione fra la vita e la vita: la vita della natura che, per vivere, esige la morte delle singole esistenze, e la singola esistenza che, per vivere, deve allontanare la morte.

Il tragico coglie il conflitto non contrapponendo la natura a un’altra entità, quale potrebbe essere l’uomo o Dio, ma, all’interno della stessa natura, tra la sua economia generale, dove la morte è condizione di vita, e l’economia delle sue singole esistenze, dove la morte è la limitazione e la fine della vita. Interpretando questo conflitto, Eraclito può dire:

Uno deve sapere che guerra è comune, e lotta è giustizia, e che tutte le cose passano per lotta e necessità.29

Nel conflitto, l’uomo sa di dover morire perché appartiene al ciclo della natura che è vicenda alterna di vita e di morte, ma al tempo stesso resiste alla morte, perché così vuole la vita che è in lui. Resistere non è rassegnarsi e consegnarsi passivamente al ciclo della natura, ma non è neppure atto temerario che pretende di valicare il limite della natura. Resistere è contemperare la consapevolezza della morte con l’acquisizione delle conoscenze che consentono di procrastinarla o di evitarla quando è evitabile.

Dalla dimensione tragica il Greco fuoriesce non ipotizzando un mondo ultraterreno, ma percorrendo pazientemente le vie del sapere. Ce ne dà conferma Ippocrate là dove, a proposito del “male sacro”, dice:

Circa il male cosiddetto sacro questa è la realtà. Per nulla – mi sembra – è più divino delle altre malattie o più sacro, ma ha struttura naturale (phýsin) e cause razionali (próphasin): gli uomini tuttavia lo ritennero in qualche modo opera divina per inesperienza (apeiríes) e stupore (thaumasiótetos), giacché per nessun verso assomiglia alle altre. E tale carattere divino viene confermato per la difficoltà che essi hanno a comprenderlo.30

La medicina ippocratica, al di là delle sue effettive competenze, insegna all’uomo, quale soggetto di dolore, che il sollievo non viene dall’affidarsi a “cieche speranze (typhlàs elpídas)”,31 ma dal percorrere le vie della conoscenza (loghismòs),32 perché la conoscenza, se non elimina la sofferenza, può comunque alleviarla e procrastinare la fine.

Nel ciclo naturale di vita e di morte, il Greco elabora risposte attive all’ineluttabilità della morte. Il che significa farsi forte attraverso il dolore, tradurre la precarietà in impresa conoscitiva. Non rassegnarsi, non illudersi, ma conoscere. Conoscere innanzitutto la propria condizione e le tecniche per conservare la vita, onde evitare la morte che dovesse sopraggiungere per casualità e ignoranza.

Essere previdenti è il modo di non essere semplicemente in balia della natura, le cui inesorabili cadenze possono essere in qualche modo controllate e procrastinate dalla conoscenza. Questo tratto tipicamente greco che nasce dallo sfondo tragico segnerà il carattere dell’Occidente, che per questo si distingue dalla passività dell’Oriente e non cede alla tentazione cristiana di amare il dolore come pegno di salvezza. Il Greco non ama il dolore; ama la vita e tutto quanto può concorrere ad accrescerla e a potenziarla, ma, a differenza di noi moderni, con misura (katà métron), perché, senza misura, ogni virtù degenera.

La virtù (areté) non ha per il Greco il significato della mortificazione e del sacrificio, ma, come la virtus latina, è la capacità di eccellere, di essere migliore, per cui non si dà virtù senza lotta. La lotta non la si ingaggia solo con il nemico, ma anche con lo stato di bisogno, con la necessità a cui occorre far fronte, con la sorte che, se infausta, è minacciosa. Per cui la virtù è la capacità di dominare il caso, di imprimere alla cattiva sorte una svolta positiva e quindi, come scrive Natoli:

L’areté è eccellenza, perché è, in primo grado, realizzazione. Realizzare vuol dire vincere il nemico, dominare la natura, trarsi fuori dalle difficoltà. In questa prospettiva, è segno di virtù essere indomiti dinnanzi al dolore, attivi contro di esso. L’areté si sviluppa quindi in uno con l’indigenza e col bisogno, fa costantemente i conti col dolore. Questo è profondamente greco, non potendo, per il Greco, la vita essere altro che tessitura del dolore. La pienezza che l’uomo attinge è guadagnata attraverso il periplo della sofferenza, non gli appartiene come stato primordiale.33

Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa ma nella modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il sapere (máthesis) che consente di evitare il male evitabile, e la virtù (areté) che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.

Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura (métron), senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, e questa attenzione i Greci l’hanno chiamata phrónesis, prudenza, saggezza.

Non bisogna provocare gli dèi. I Greci non credevano agli dèi, ma li hanno inventati come esseri non soggetti alla morte (athánatoi), solo per dire quello che l’uomo non è e non può essere, quindi per indicare una misura in un duplice senso: l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma con il modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.34

Qui Dante coglie l’essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità perché sarebbe tracotanza (hýbris), ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte. E questo in omaggio alla vita che, nel suo limite, per il Greco non è “valle di lacrime” ma bellezza.

La pratica filosofica vuole recuperare questa saggezza greca. Essa guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron).

1 Si veda a questo proposito in Italia F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in Filosofia pratica e scienza politica, Francisci Editore, Abano Terme 1980; C. Natali, Aristotele e l’origine della filosofia pratica, in Filosofia pratica e scienza politica, cit.; G.B. Achenbach, Philosophische Praxis (1987); tr. it. La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004; Das kleine Buch der inneren Ruhe (2000); tr. it. Il libro della quiete. Trovare l’equilibrio in un mondo frenetico, Apogeo, Milano 2005; E. Ruschmann, Philosophische Beratung (1999); tr. it. Consulenza filosofica, Armando Siciliano editore, Messina 2004; R. Madera, L.V. Tarca, La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Bruno Mondadori, Milano 2003; A. Cavadi, Quando ha problemi chi è sano di mente. Un’introduzione al philosophical counseling, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003; L. Berra, A. Peretti, Filosofia in pratica. Discorsi sul counseling filosofico, Libreria Stampatori, Torino 2003; R. Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogeo, Milano 2004; A.G. Balistreri, La terapeutica filosofica, Lampi di Stampa, Milano 2004; S. Natoli, Parole della filosofia o dellarte di meditare, Feltrinelli, Milano 2004; N. Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, a cui rinvio per una più ampia informazione e una più completa bibliografia internazionale e nazionale sulle pratiche filosofiche.

2 U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, capitolo 8: “La tecnica come condizione dell’esistenza umana”.

3 Ivi, capitolo 53: “La casa di psiche e il crollo delle sue mura”.

4 S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1986, p. 15.

5 S. Freud, Hemmung, Symptom und Angst (1926); tr. it. Inibizione, sintomo e angoscia, in Opere, Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. X, p. 310. Lo stesso motivo ritorna in Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse (1915-1917); tr. it. Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, cit., vol. VIII, Lezione 25, pp. 547-548: “Angoscia si riferisce allo stato e prescinde dall’oggetto, mentre paura richiama l’attenzione propria sull’oggetto”.

6 M. Heidegger, Was ist Metaphysik? (1929); tr. it. Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 67.

7 Ibidem.

8 Anassimandro, fr. B 1.

9 Eschilo, Prometeo incatenato, in Tragedie e frammenti, Utet, Torino 1987, vv. 247-251.

10 S. Freud, Vergänglichkeit (1916); tr. it. Caducità, in Opere, cit., vol. VIII, pp. 173-174.

11 Isaia, 65, 17-18.

12 B. Pascal, Pensées (1657-1662, prima edizione 1670); tr. it. Pensieri, Rusconi, Milano 1993, § 451, p. 251: “Pesiamo il guadagno e la perdita: se viene croce, che Dio esiste. Valutiamo questi due casi: se vincete, vincete tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, che Dio esiste, senza esitare”.

13 Francesco di Sales, Teotimo. Traité de l’amour de Dieu (1616); tr. it. Teotimo, Edizioni Paoline, Roma 1939, vol. II, p. 128.

14 S. Freud, Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse (1932); tr. it. Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), in Opere, cit., vol. XI, Lezione 31, p. 190. Questo motivo era già stato anticipato in Das Ich und Es (1923); tr. it. L’Io e l’Es, in Opere, cit., vol. IX, p. 517, dove si legge: “La psicoanalisi è uno strumento inteso a rendere possibile la progressiva conquista del-l’Es da parte dell’Io”.

15 Id., Das Unbehagen in der Kultur (1929); tr. it. Il disagio della civiltà, in Opere, cit., vol. X, p. 582.

16 S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, cit., p. 265.

17 F. Bacone, Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum (1620); tr. it. La grande instaurazione, Parte seconda: Nuovo organo, in Scritti filosofici, Utet, Torino 1986, Libro I, § 3, p. 552: “Scientia et potentia humana coincidunt, quia ignoratio causæ destituit effectum. Natura non nisi parendo vincitur, et quod in contemplatione instar causæ est, id in operatione instar regulæ est (La scienza e la potenza umana coincidono, perché l’ignoranza della causa fa mancare l’effetto. La natura infatti non si vince se non obbedendo a essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa, nell’operazione pratica ha valore di regola)”.

18 Ivi, Libro II, § 52, p. 795.

19 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 33: “L’epoca moderna e il primato della scienza e della tecnica come deriva teologica”.

20 M. Foucault, Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical (1963); tr. it. Nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, Einaudi, Torino 1969.

21 J. Lacan, La science et la vérité (1966); tr. it. La scienza e la verità, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. II.

22 Esiodo, Opere e giorni, in Opere, Utet, Torino 1977, p. 291, v. 694.

23 Luciano Sofista, fr. 43, 21, in M. Untersteiner, Sofisti. Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1949-1962, vol. II, p. 124.

24 G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, vol. II: Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution (1980); tr. it. L’uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale (1980), Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 254.

25 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1972); tr. it. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, Adelphi, Milano 1972, vol. III, 1, p. 32.

26 Eraclito, fr. B 30: “Questo cosmo, che è di fronte a noi e che è lo stesso per tutti, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure”.

27 K. Jaspers, Über das Tragische, in Von der Wahrheit (1947), Piper, München 1958. Di quest’opera esistono in italiano due traduzioni: Del tragico, il Saggiatore, Milano 1959, pp. 13-19; Il linguaggio. Sul tragico, Guida, Napoli 1993, pp. 177-185.

28 Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinti, 15, 55.

29 Eraclito, fr. B 80.

30 Ippocrate, Male sacro, in Opere, Utet, Torino 1976, p. 297.

31 Eschilo, Prometeo incatenato, cit., v. 250.

32 Ippocrate, Male sacro, cit., p. 297.

33 S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occiden-tale, cit., p. 90.

34 Dante Alighieri, Inferno, XXVI, 118-120: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza”.