4. Nietzsche e la nostalgia dell’innocenza
Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un gioco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il gioco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì.
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1883-1885), “Delle tre metamorfosi”, p. 25.
1. La seconda innocenza
Per Nietzsche non c’è gioia nella ragione, non c’è felicità nel suo incedere ordinato, nel suo andamento tranquillo. Non c’è serenità nel simbolo, non c’è quiete nello sguardo che il simbolo dispiega senza nessun orizzonte. Non c’è circolazione tra simbolo e ragione, non c’è adiacenza, aggiustamento naturale, non c’è invisibile armonia. L’umanità non è protetta da un dio, non ha alle sue spalle un ordine, non c’è un’astuzia segreta che porta a naturale composizione pensieri e passioni, uomini e dèi.
L’intuizione platonica, che fa dell’uomo un “lacerato” che non riesce a togliere gli occhi dall’orrenda ferita che gli dèi un giorno gli inflissero,1 non è un’immagine mitica che il lavoro ermeneutico può tradurre, riformulare e risolvere in una prospettiva conciliante. La conciliazione, la ricongiunzione dei due, non appartiene al passato, all’ignoranza di Adamo prima della colpa, all’opacità dell’androgino descritta nel Simposio da Platone; la conciliazione non appartiene neppure al futuro, anche se la storia sembra essere esistita per questo tentativo. C’è troppa teleologia nello sguardo dell’uomo, c’è troppo desiderio che la fine si traduca in un fine (télos).
Per Nietzsche questo desiderio è all’origine della grande illusione che ha consentito agli uomini di sopravvivere al di là della vicenda animale e di pensarsi in un’iperbolica accentuazione della differenza:
Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa che cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato, cioè, al piolo dell’istante, e perciò né triste né tediato. Il veder ciò fa male all’uomo, poiché al confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello – giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale, né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale.2
Da questa piccola differenza sono scaturite la storia e la cultura. Anche il mondo della tecnica è inscritto in questa differenza, cui è sottesa l’utopia di comporre la quiete della ragione e la felicità della pulsione, ossia il tentativo di oltrepassare i limiti di quello scambio che Freud ha immaginato compiersi agli albori dell’umanità, quando l’uomo ha barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza:
Se la civiltà impone sacrifici tanto grandi non solo alla sessualità ma anche all’aggressività dell’uomo, allora intendiamo meglio perché l’uomo stenti a trovare in essa la sua felicità. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.3
Da questo baratto è nata la ragione, la ragione come calcolo, come do ut des, come equivalenza nel commercio delle cose. È Heidegger a ricordarcelo, là dove dice che la parola “ragione” viene dal latino ratio, termine che nomina il controvalore che doveva essere reso a chi offriva un bene, donde l’espressione redde rationem. Nello scambio il bene e la ratio corrispondente dovevano essere equivalenti, e per questo occorreva un calcolo. La ragione è dunque nata come calcolo, anzi come calcolo economico. Scrive a questo proposito Heidegger:
La ratio è calcolo, conto, sia nel senso ampio e alto del termine, sia in quello abituale. Il contare, inteso come regolare qualcosa su qualcosa d’altro, mette dinanzi, presenta di volta in volta qualcosa, e, in tal senso, è in sé un rendere, un reddere. Alla ratio appartiene il reddendum. Tuttavia, a seconda del contesto della storia dell’essere, in base al quale la ratio parla in seguito in quanto ragione e fondamento, il reddendum acquista un senso diverso. In senso moderno, infatti, nel reddendum è insito il momento del reclamo incondizionato e totale che pretende la fornitura dei fondamenti calcolabili in termini tecnico-matematici, ossia la “razionalizzazione” totale.4
Il calcolo economico vuole bandire e tenere lontana la violenza che regolava la relazione che le singole soggettività instauravano tra loro a colpi di dono e contro-dono, dove donare era assoggettare l’altro, salvo poi cadere sotto il suo giogo quando l’altro fosse riuscito a restituire in abbondanza e a dismisura. Questo gioco della munificenza, che Mauss descrive come potlac,5 è apparso a Nietzsche il colpo di genio del cristianesimo:
Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell’uomo, Dio stesso che si ripaga da se stesso, Dio come l’unico che può riscattare l’uomo da ciò che per l’uomo stesso è divenuto irriscattabile – il creditore che si sacrifica per il suo debitore, per amore (dobbiamo poi crederci?), verso il suo debitore!6
Gioco raffinato del debito e del credito, remota origine del senso di colpa. Desiderio di regolare gli scambi, di pareggiarli secondo ragione. Nascita della ratio moderna: economica e atea. A promuoverla, sotterranea e nascosta, è la bramosia di una mai raggiunta innocenza. Anche qui Nietzsche vede chiaro: “Ateismo e una sorta di seconda innocenza sono intimamente connessi”.7
2. La prima innocenza
La prima innocenza era nel ventre della madre, nel vaso pieno, dove mammelle e ventre facevano grappolo unico e dove la testa, priva di viso e inclinata verso il centro del corpo, componeva con il femore e con le cosce gigantesche, che terminavano in gambe sottili, il corpo-vaso, intorno a cui l’arte, non ancora disgiunta dall’artigianato, segnalerà le sue prime intenzioni.
Oltre al vaso, che come il grembo materno contiene l’oscurità primitiva, il cielo notturno generatore, la forza ctonia della terra capace di dare alla luce, la prima innocenza viene rappresentata anche come albero della vita che, saldamente piantato con le sue radici nella terra che lo nutre, s’innalza verso l’alto e, con i suoi rami e le sue foglie, genera quell’ombra protettiva dove la materia vivente trova rifugio. Non a caso la parola madera (legno) ha parentele con “madre”, “materia”, a cui pure si connette il greco madarós (umido, inzuppato) e il latino madidus (madido, bagnato).
Al carattere materno dell’albero appartiene non solo il nutrire, ma anche il generare, e come la madre-vaso diventa, con il suo grembo, trono del figlio, così la madre-albero diventa in Cina “l’albero dell’anno”, sotto i cui rami si raccolgono gli animali delle dodici costellazioni che presiedono la nascita di tutte le cose, in Egitto il pilastro Ded che, conficcato nel monte, è “il legno della vita da cui nascono gli dèi”, fino alla più recente simbologia cristiana dove il figlio della Vergine nasce nella mangiatoia di legno e muore sulla croce, “albero della vita e della morte”. La materia lignea, infatti, oltre che madre della vita è anche madre della morte, è il sarcofago divoratore di carne, la cassa che racchiude, nella forma dell’albero-pilastro, Osiride nel suo legno.
Dallo sfondo della terra-madre, di cui la simbologia del vaso e dell’albero sono solo due esempi dei molti che se ne potrebbero raccogliere, l’umanità si separò per volgere il proprio sguardo verso il cielo. Il gesto fu di Platone:
Noi non siamo come le piante, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine dell’anima e dove Dio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto.8
Il cielo è una regione superiore inaccessibile all’uomo. La dimensione dell’altezza, per cui l’“Altissimo” sarà uno degli attributi divini, genera nell’immaginazione primitiva esseri sovrumani, cioè al di là dell’umano, quindi trascendenti.
Il passaggio dalla religione ctonia alla religione uranica comporta per l’uomo una ridefinizione di sé, una reinterpretazione della propria posizione nell’universo, del proprio compito e del proprio senso. Altro è infatti interpretare l’uomo all’interno delle categorie della terra che la mitologia della Grande Madre indica nella nascita e nella morte, altro è interpretarlo con le categorie del cielo che descrivono il “dio-splendore-giorno” come luce e altezza, e quindi come visione trascendente.
Questo significa collocare altrove le radici dell’uomo, non più nella terra “come le piante”, ma, come ci ricorda Platone, nel cielo dov’è la dimora delle idee che, prima di essere pensieri, sono visioni rese possibili dalla luce diurna del sole. La radice id, su cui è costruita la parola idéa, è infatti la stessa che rintracciamo nel verbo vedere e nel suo antecedente latino: video, e greco: oráo, ópsomai, eîdon.
L’altezza del cielo porta in alto lo sguardo, al di sopra delle cose che popolano la terra, al di là. La parola trascendenza dice appunto questo sguardo che va al di là, che oltrepassa l’impronta della terra, ossia lo spessore di materia che dà corpo alle cose, per coglierne l’essenza pura non costretta nei limiti della materia. Non dunque questo terreno più o meno triangolare, questa casa più o meno quadrata, ma il triangolo e il quadrato in se stessi, forme pure, di cui il terreno triangolare e la casa quadrata sono solo delle copie.
“Tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, Dio tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto.” Così conclude Platone, per ricordare che, a differenza di tutti gli animali, l’uomo è eretto, e per effetto di questa sua posizione corporea, ha innanzi a sé un orizzonte, o se preferiamo un pan-orama, dove nella parola è la traccia di quel “vedere” senza il quale non c’è visione o idéa alcuna.
La posizione eretta fa dell’uomo un destinato a vedere, non solo le cose della terra che sono viste anche dagli animali, ma l’essenza delle cose, depurate della materia terrena, che Platone chiama idee e colloca sopra il cielo (yper-ouranós), dov’è la nostra origine prima, la nostra radice.
Dalla terra al cielo è dunque l’itinerario compiuto dall’uomo nel suo lento passare dalla visione sensibile delle cose, cariche di materia, a quella intelligibile della loro essenza depurata della materia. Il mito racconta le cose come sono veramente andate: il lento passaggio dai culti della Grande Madre ai culti degli dèi uranici. La filosofia coglie il senso di questo passaggio che è nella natura dell’uomo originariamente aperta alla visione.
3. Il grido
La visione espone l’uomo alla ricerca di una felicità che non può escludere l’apertura al senso, essendo tale apertura ciò per cui l’uomo è uomo e non animale. Ma l’apertura, dilatandosi, e avanti e indietro, inscrive l’uomo tra la nascita e la morte. Anche l’animale è inscritto in questi due limiti, ma non ne ha coscienza, quindi non vive la dimensione tragica di essere a un tempo aperto al senso e in vista della morte, che è implosione di ogni senso. Il tragico è dunque l’elemento costitutivo dell’uomo, la cui “visione”, dopo averlo costruito come aperto al mondo, gli ricorda che è aperto per nulla. Allora, scrive Nietzsche:
Lotta, sofferenza e tedio si avvicinano all’uomo, per rammentargli ciò che in fondo è la sua essenza – qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza – che l’esistenza è solo un interrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa.9
La visione, inaugurando il punto di vista dell’individuo, offre una percezione talmente chiara del carattere effimero, insignificante di ogni azione e decisione da rendere impossibile la vita. Nel farsi interprete di questa estenuazione infinita del volere e dell’insignificanza di ogni progettualità individuale, la tragedia greca non cessa di esporre nelle forme più svariate la contraddizione dell’esistenza: aperta al senso per il naufragio di ogni senso. Il grido di Sileno è lì a ricordare che l’uomo veramente è al di sotto del velo illusorio della sua individualità:
Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non esser nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto.10
La sentenza di Sileno sposta in modo radicale l’orizzonte e la prospettiva. Lo sguardo non è più dall’individuo verso l’apertura del suo senso, ma dalla natura che, senza senso e senza scopo, guarda gli individui come sue creazioni. Questo rapido mutamento di prospettiva ci introduce nella sapienza di Dioniso, libera da ogni visione antropomorfica dell’esistenza, e afferma la vita come flusso che divora continuamente le sue forme, come potenza che ne foggia di sempre nuove, senza fedeltà e senza memoria. A questa intuizione era già giunto Goethe:
Natura! Da essa siamo circondati e avvinti – né ci è dato uscirne e penetrarvi più a fondo. Senza farsi pregare e senza avvertire, ci rapisce nel vortice della sua danza e si lascia andare con noi, finché siamo stanchi e le cadiamo dalle braccia. Crea eternamente nuove forme: ciò che è qui non era ancora mai stato, ciò che era non ritorna – tutto è nuovo, e tuttavia sempre antico. Viviamo nel suo seno e le siamo estranei. Parla incessantemente con noi e non ci rivela il suo segreto. Costantemente operiamo su di essa e tuttavia non abbiamo alcun potere sulla natura. Sembra che abbia puntato tutto sull’individualità, eppure niente le importa degli individui. Costruisce sempre e sempre distrugge e la sua officina è inaccessibile. [...] In essa è eterna vita, divenire e moto, e tuttavia non progredisce. Si trasforma eternamente e non vi è momento di quiete. [...] Il suo spettacolo è sempre nuovo, perché essa crea sempre nuovi spettatori. La vita è la sua invenzione più bella e la morte è il suo artificio per avere molta vita. Essa avvolge l’uomo nell’oscurità e lo sprona eternamente verso la luce. Non conosce né passato né futuro. Il presente è la sua eternità.11
L’anima individuale, che la memoria di sé ha generato, quando è percorsa dal palpito incosciente della natura, percepisce se stessa come illusione e mera apparenza perché, scrive Nietzsche: “Al mistico grido di giubilo di Dioniso, la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose”.12
Il tragico coglie il fondo originario perché spezza la catena dell’individuazione, e così facendo sperimenta ogni individuazione come apparenza. Ma innanzi alla labilità delle apparenze, il Greco non rinuncia alla vita, come invitava il grido di Sileno, perché scopre nell’insensata crudeltà della natura la sua assoluta creatività, rispetto alla quale distruzione e morte sono eventi altrettanto apparenti quanto l’individuazione e la forma singolare. Infrangendo la barriera delle forme, il tragico coglie la natura dell’originario nella potenza del suo assoluto produrre, e in questa produzione poetante (poíesis) è salvata la realtà stessa delle forme che diventano manifestazioni di vita.
L’ottimismo dei Greci prende avvio dal punto più basso della parabola pessimistica: dalla dissoluzione di ogni forma individuale all’esaltazione della vita. Se infatti tutto è distruggibile tranne la vita stessa, allora, scrive Nietzsche, anche la distruzione è apparenza:
L’arte dionisiaca vuole convincerci dell’eterna gioia dell’esistenza: sennonché dobbiamo cercare questa gioia non nelle apparenze, ma dietro le apparenze. Dobbiamo riconoscere come tutto ciò che nasce debba essere pronto a una fine dolorosa; siamo costretti a guardare in faccia agli orrori dell’esistenza individuale – e tuttavia non dobbiamo irrigidirci: una consolazione metafisica ci strappa momentaneamente dal congegno delle forme mutevoli. Per brevi attimi siamo veramente l’essere primigenio stesso e ne sentiamo l’indomabile brama di esistere e piacere di esistere. La lotta, il tormento, l’annientamento delle apparenze ci sembrano ora necessari, data la sovrabbondanza delle innumerevoli forme di esistenza che si urtano e si incalzano alla vita, data la strabocchevole fecondità della volontà del mondo. Noi veniamo trapassati dal furioso pungolo di questi tormenti nello stesso attimo in cui siamo per così dire divenuti una cosa sola con l’incommensurabile gioia originaria dell’esistenza, e in cui presentiamo, in estasi dionisiaca, l’indistruttibilità ed eternità di questo piacere. Malgrado il timore e la compassione, noi viviamo in modo felice, non come individui, in quanto siamo quell’unico vivente, con la cui gioia generativa siamo fusi.13
4. La profondissima necessità
Le illusioni affondano in quella visione lucida e terrificante dell’esistenza individuale che il grido di Sileno mostra minacciata da forze immensamente più potenti di lei. Come la conobbero i Greci essa sarebbe insopportabile se non fosse trasfigurata da figure eternizzanti, ove non vige l’angoscia del perire, il terrore della morte e della caduta di ogni senso. Nasce così “la montagna incantata dell’Olimpo” come illusione, come maschera che serve a sopportare l’esistenza còlta nella sua essenza dalla sapienza dionisiaca.
Ora si apre a noi per così dire la montagna incantata dell’Olimpo e ci mostra le sue radici. Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l’avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi – fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi. Questo evento noi dobbiamo senz’altro immaginarlo così, che dall’originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato, attraverso quell’impianto apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli. Altrimenti quel popolo che aveva una sensibilità così eccitabile, che bramava così impetuosamente, che aveva un talento così unico per soffrire, come avrebbe potuto sopportare l’esistenza, se questa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi circonfusa da una gloria superiore? Lo stesso impulso che suscita l’arte, come completamento e perfezionamento dell’esistenza, che induce a continuare a vivere, fece anche nascere il mondo olimpico, in cui la “volontà” ellenica si pose di fronte uno specchio trasfiguratore. Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi – la sola teodicea soddisfacente.14
La funzione degli dèi dell’Olimpo è di proteggere il Greco dalla lucida penetrazione dionisiaca dell’essenza tragica dell’esistenza individuale. Così simili agli uomini, essi li rispecchiano, ma sotto la forma dell’eterno. Che qualcosa possa permanere, e quindi sottrarsi al carattere effimero e caduco dell’esistenza è la prima illusione che i Greci dovettero inventare per poter vivere.
Il passaggio dall’arte alla filosofia, e dalla filosofia alla scienza, segue il bisogno di trovare figure di stabilità sempre più solide, forme eternizzanti sottratte al flusso del divenire, per difendersi dalla lucida visione del tragico. Questo impianto di illusioni, nella loro successione storica, sono gli immutabili che l’anima di volta in volta crea per sfuggire al grido di Sileno.
A questo punto fra l’“attività” della ragione e la “passione” del simbolo, che qui usiamo nel senso specifico del “patire” la vita di Dioniso, non c’è opposizione. Proprio perché sente alitare entro di sé il vento di Dioniso, l’anima ha cercato figure eternizzanti e stabilità “per poter sopravvivere”, per non cedere a quell’estenuazione della vita a cui la invitava la sapienza di Sileno.
Rispetto all’arte poetica, che salvava attraverso la proiezione dell’eterna vita degli dèi, Platone, che “non si lascia persuadere da simili racconti”,15 inventa quella “formula relativa agli uomini”,16 che è poi la conoscenza delle idee eterne che l’anima, separandosi dal corpo, immerso nel flusso del divenire, può conoscere e, purificandosi, raggiungere.
La filosofia supera il tragico con un impianto più forte di quello poetico perché, a differenza delle figure mitologiche degli dèi, le idee che l’anima conosce non paiono più illusioni, ma verità, in grado di sciogliere l’enigma del tragico a cui gli dèi offrivano solo un rimedio. Di qui l’esortazione di Platone:
Bisogna tenere in massimo conto la verità. E se quel che si è detto ha fondamento, allora la finzione non ha mai alcuna effettiva utilità, per cui, quanto agli dèi, se agli uomini pare cosa utile ricorrervi come si ricorre a un farmaco, è evidente che un simile rimedio bisogna riservarlo ai medici.17
Ma per Nietzsche anche la “verità” inventata da Platone è un rimedio, che a un’apparenza sostituisce un’altra apparenza, la quale, solo per rimozione della sua genesi, può spacciarsi come unica e vera realtà. Infatti, scrive Nietzsche:
Se si sente la necessità di fare della ragione un tiranno, come fece Socrate, non deve essere piccolo il pericolo che qualche altra cosa si metta a tiranneggiare. A quel tempo si indovinò nella razionalità la salvatrice; né Socrate né i suoi “malati” erano liberi di essere razionali – era de rigueur, era il loro ultimo rimedio. Il fanatismo con cui tutto il pensiero greco si getta sulla razionalità tradisce una condizione penosa; si era in pericolo, non c’era una scelta; o andare in rovina o essere assurdamente razionali. Il moralismo dei filosofi greci, a cominciare da Platone, è patologicamente condizionato: ugualmente la loro valutazione della dialettica. Ragione = virtù = felicità significa solamente: si deve imitare Socrate e stabilire in permanenza contro gli oscuri appetiti una luce diurna, la luce diurna della ragione. Si deve essere saggi, si deve essere perspicui, chiari a ogni costo; ogni cedimento agli istinti, all’inconscio, porta a fondo.18
5. Lo scioglimento dell’enigma
Sottoponendo la ragione allo sguardo genealogico che non chiede “che cosa sono” le cose (Platone), ma “come sono venute al mondo”, Nietzsche scioglie l’enigma che intreccia chiarezza delle idee e oscurità dei simboli, lucidità della ragione e abisso della follia, perché trova il loro punto di incontro, dove si nasconde la necessità del loro prodursi.
Ma qual era la minaccia? Di fronte a che cosa l’umanità avrebbe potuto estinguersi se non avesse inventato la ragione? Con quali procedure questa ha consentito all’uomo di non soccombere? E che ne sarà di lui qualora le procedure della ragione si rivelassero per quel che sono: un artificio o, come dice Nietzsche, una “terapia”? Quale futuro può dischiudere la consapevolezza dell’inganno? Quale “filosofia del mattino” resta da annunciare dopo che il “crepuscolo” ha smorzato la “luce diurna”? La qualità della domanda inaugurata da Nietzsche, spostandoci dalla terra della ragione a quello spazio simbolico da cui un giorno la ragione ha preso avvio, non ci espone a quell’assenza di riferimento che Nietzsche così descrive:
Che facemmo sciogliendo la terra dal suo sole? Dove va essa, ora? Dove andiamo noi lontano da ogni sole? Non continuiamo a precipitare: e indietro e dai lati, e in avanti? C’è ancora un alto e un basso? Non andiamo forse errando in un infinito nulla? Non ci culla lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non è sempre notte, e sempre più notte? Non occorrono lanterne in pieno giorno?19
Ebbene sì, ma è proprio per difendersi da questo spazio vuoto che gli uomini sono approdati alla terra della ragione, hanno qui edificato le loro dimore e fissato le loro stabilità. Da questo punto di vista, reso possibile dalla domanda sull’origine, la ragione, da spirito di invenzione e di ricerca, si è trasformata in tecnica difensiva, per cui ragionare equivale a “mettersi al riparo”, guadagnare una terra e un orizzonte come confine.
Per Nietzsche, il grande geografo che ha fissato i punti cardinali è stato Platone, e l’anima è il compasso di cui si è servito per disegnare i confini. Per questo, scrive Nietzsche: “Platonismo è in primo luogo saggezza nel prendere sul serio l’anima”.20
Nelle parole di Nietzsche risuona l’eco lontana di Platone là dove dice: “Mi pare sia l’anima, mediante se stessa, che discerne ciò che è identico in tutte le cose”.21 In questa identità c’è la linea sicura del geografo che disegna il paesaggio e le modalità di lettura. Non c’è infatti identità nelle cose che non sia posta dall’anima in forma di idea. Ma l’idea non è solo il principio di identificazione conoscitiva, per Platone è anche il principio di identificazione costitutiva.
Se l’idea è ciò per cui una cosa è quella che è, è possibile indagarla con la domanda che chiede il suo “che cos’è”? Senza il reticolato delle idee, senza il disegno del grande geografo, non si saprebbero identificare le cose, e perciò Platone esce in quell’esortazione:
E dirai alto e forte che tu non sai come altrimenti una data cosa si generi se non in quanto viene a partecipare di quell’essenziale realtà che è propria di quella data idea di cui ella partecipa.22
Fine del mondo simbolico dove una cosa è anche l’altra, in quell’oscillazione continua che il gioco vertiginoso dei sogni ogni notte dispiega.
La distinzione tra “mondo vero” o delle idee, in cui sono i principi costitutivi e i codici di lettura, e “mondo apparente”, in cui è la massa altrimenti incodificabile delle cose da leggere e da identificare, è così posta come ideazione dell’anima che “se ne sta sola in se stessa”, perché, dice Platone, le idee che rendono possibile la lettura l’anima non le ricava dal mondo, ma le applica al mondo, dopo averle ideate “mediante se stessa”.23
L’anima razionale è dunque lo strumento che traccia la linea per cui un paesaggio ha una certa forma e un suo senso; in tale paesaggio è possibile abitare perché ci sono stabilità, costanti, punti di riferimento. Per questo, ci riferisce la tradizione, Platone fece scrivere sul frontespizio dell’Accademia: “Non si entra qui se non si è geometri”.
Sottratto allo sguardo magico dei sacerdoti, il cielo stellato diventa iperuranio, orizzonte concluso su una terra protetta. Nasce la verità che getta nella follia tutto ciò che non si accorda con le linee tracciate. È una follia che nasce per esclusione, quindi una follia recuperabile, come lo sono l’errore e la falsità, qualora si confrontino con le linee del geografo. Non si tratta della follia del “mare aperto”, dello “spazio vuoto”, dell’“infinito nulla” che Nietzsche scopre come sfondo simbolico, come apertura, come caos, prima che la ragione dispiegasse un cosmo con il suo cielo e la sua terra.
6. La nostalgia della terra
Il guadagno dell’origine consente a Nietzsche di smobilitare tutte le impalcature logiche che si offrono sotto il segno della durata eterna. Ogni verità è una “finzione”, nel senso specifico di fingere, “modellare”, “fare”, “costruire”, quindi una costruzione necessaria all’uomo per sopravvivere:
L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione. Questa infatti è il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti si conservano, in quanto a essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con gli aspri morsi degli animali feroci.24
Privi della forza con cui gli animali conducono la lotta per la vita, gli uomini vi suppliscono con la natura ambigua della ragione, la cui articolazione è indicata da Nietzsche nel doppio registro dell’inganno e della necessità. “Inganno” qui non significa il falso rispetto al vero, perché vero e falso, già lo segnalava Aristotele,25 si danno solo all’interno di una ragione codificata che, rispetto al mondo che si apre come orizzonte indeterminato di senso, è già una presa di posizione, una decisione in ordine ai significati. Questa, intervenendo, risolve l’enigma di quell’apertura e, sopprimendo ogni ulteriorità di senso possibile, la de-termina in ordine a un certo impianto di significati.26
La ragione è un inganno perché tende a far passare l’ordine dei suoi significati come l’unico senso del mondo che, invece, è disponibile per una molteplicità indeterminata di altri sensi; ma è un inganno necessario perché, al di fuori di un ordine codificato, al di fuori di una stabilità che egli stesso crea, ma che dimentica d’aver creato, l’uomo non può vivere. Per questo Nietzsche può dire:
Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria.27
A questo punto “essere veritieri significa servirsi di metafore usuali”,28 a cui l’uomo “lega la sua vita per non essere trascinato via dalla corrente e per non perdersi”.29
È infatti di protezione che egli ha bisogno, perché esistono forze terribili che premono continuamente su di lui, contrapponendo alla “verità” altre “verità” di natura del tutto diversa e munite dei più svariati stemmi.30
Così smascherata la ragione, Nietzsche può abbandonare la terra, perché è stata scoperta come terra di protezione e luogo di riparo. Tagliati gli ormeggi, l’orizzonte si dilata, e il suo dilatarsi lo abolisce come orizzonte, come punto di riferimento, come incontro della terra con il suo cielo:
Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!31
Se la salute all’Occidente l’ha assicurata Platone con la creazione di valori eterni, stabilità garantite, forme immutabili gettate come una rete sull’enigma dell’esistenza, inversione del platonismo non significa intrecciare la rete con altri nodi, come cercano faticosamente le psicologie del profondo ogni volta che tentano di far passare come verità la loro descrizione dell’anima, ma mostrare che ogni intreccio è sempre e solo una rete di salvataggio. Infatti, scrive Nietzsche: “Abbiamo costruito una concezione per poter vivere in un mondo, per percepire appunto tanto da farcela ancora a reggere”.32 Se “reggiamo” stabiliamo che quel mondo è “vero”, dove “verità” significa che in esso riusciamo a vivere:
Un mondo accomodato e semplificato in cui hanno operato i nostri istinti pratici: esso è per noi perfettamente vero: cioè noi viviamo, possiamo vivere in esso: prova della sua verità per noi.33
La “verità” è dunque una forma di “salute”, e degrada a pigrizia dell’anima quando, dimenticando la sua genesi, si pensa eterna. Per questo Nietzsche può scrivere:
Sono ancora alla ricerca di un filosofo medico, nel senso eccezionale della parola – inteso al problema della salute collettiva di un popolo, di un’epoca, di una razza, dell’umanità –, che abbia in futuro il coraggio di portare al culmine il mio sospetto e di osare questa affermazione: in ogni filosofare non si è trattato per nulla, fino a oggi, di “verità”, ma di qualcos’altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita.34
1 Platone, Simposio, 190 d.
2 F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen. Zweite Stück: Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben (1874); tr. it. Considerazioni inattuali II: Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Opere, Adelphi, Milano 1964, vol. III, 1, p. 262.
3 S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (1929); tr. it. Il disagio della civiltà, in Opere, Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. X, p. 602.
4 M. Heidegger, Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, Lezione XIII, p. 176. Sul significato della ragione (ratio) come “conto” Heidegger si era già espresso in Was heisst Denken? (1954); tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1971, vol. II, Lezione IX, pp. 81-82.
5 M. Mauss, Essai sur le don (1923-1924); tr. it. Saggio sul dono, in Sociologie et anthropologie (1950); tr. it. Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965. Si veda a questo proposito anche U. Galimberti, Il corpo (1983), Feltrinelli, Milano 2003, capitolo 38: “Il corpo e la parte maledetta”.
6 F. Nietzsche, Zur Genealogie der Morale. Eine Streitschrift (1887); tr. it. Genealogia della morale. Uno scritto polemico, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 2, p. 292.
7 Ivi, p. 291.
8 Platone, Timeo, 90 a-b.
9 F. Nietzsche, Considerazioni inattuali II: Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 263.
10 Id., Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, cit., 1972, vol. III, 1, pp. 31-32.
11 J.W. Goethe, Natur (1783); tr. it. La natura, in Teoria della natura, Boringhieri, Torino 1969, pp. 138-141. Per l’autenticità di questo testo cfr. nota 39 del capitolo 1: “Le origini romantiche della psicoanalisi e l’obiezione di Nietzsche”.
12 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 105.
13 Ivi, pp. 111-112.
14 Ivi, pp. 32-33.
15 Platone, Repubblica, Libro III, 391 c.
16 Ivi, 392 a.
17 Ivi, 389 a.
18 F. Nietzsche, Götzendämmerung oder: Wie man mit dem Hammer philosophiert (1889), tr. it. Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, in Opere, cit., 1970, vol. VI, 3, p. 67.
19 Id., Die fröhliche Wissenschaft (1882); tr. it. La gaia scienza, in Opere, cit., 1965, vol. V, 2, § 125, p. 129.
20 Id., Scienza e saggezza in lotta, in Il libro del filosofo, Savelli, Roma, 1987,p. 91.
21 Platone, Teeteto, 185 e.
22 Id., Fedone, 101 c.
23 Ivi, 66 b-67 a.
24 F. Nietzsche, Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne (1873); tr. it. Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, cit., 1973, vol. III, 2, p. 356.
25 Aristotele, Dell’espressione, § 1, 16 a, 10-19.
26 Si veda a questo proposito l’ottimo saggio di S. Natoli, Nietzsche e la“Dialettica del tragico”, in Ermeneutica e genealogia, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 15-89.
27 F. Nietzsche., Su verità e menzogna in senso extramorale, cit., p. 361.
28 Ibidem.
29 Ivi, p. 368.
30 Ibidem.
31 Id., La gaia scienza, cit., § 124, p. 129.
32 Id., Nachgelassene Fragmente 1888-1889; tr. it. Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, cit., 1974, vol. VIII, 3, fr. 14 (93), p. 61.
33 Ibidem.
34 Id., La gaia scienza, cit., “Prefazione alla seconda edizione”, p. 16.