5. Jung e la filosofia dell’Occidente
L’immagine “esterna” del mondo
ci fa intendere ogni cosa come effetto di forze fisiche e
fisiologiche, l’immagine “interna”, invece, ci fa intendere ogni
cosa come effetto di entità spirituali. Ora, l’immagine del mondo
comunicataci dall’inconscio è di natura mitologica. Al posto delle
leggi naturali troviamo qui la volontà personale di dèi e demoni,
al posto delle forze naturali troviamo anime e spiriti. Le due
immagini del mondo sono tra loro incompatibili, e non esiste alcuna
logica che le possa conciliare: l’una offende il nostro sentimento,
l’altra la nostra ragione. E tuttavia l’umanità ha sempre provato
il bisogno di conciliare in qualche modo le due immagini del mondo,
e a questo scopo hanno lavorato filosofi, fondatori di religioni e
artisti.
L’uomo, insomma, non ha mai rinunciato a cercare la “via di mezzo”,
la strada che consenta di unificare ciò che è diviso. Il segreto
della “via di mezzo”, la conciliazione, ritengo si realizzi nel
simbolo, perché il simbolo contiene, per sua natura, ambedue gli
aspetti, quello razionale e quello irrazionale. Ciascuno di essi
esprime anche l’altro, cosicché il simbolo li abbraccia entrambi
senza identificarsi con nessuno dei due.
C.G. JUNG, Sull’inconscio (1918), p. 17.
Jung gode fama di essere “oscuro”, non nel senso nobile con cui questo aggettivo veniva nell’antichità attribuito a Eraclito, ma nel senso spregiativo di “confuso”, “caotico”, “misticheggiante”, “irrazionale”. Tale attribuzione è in parte giustificata. Jung è anche questo, ma la ragione sta nel fatto che lo psicologo di Zurigo tenta una strada che disloca la psicologia dal luogo razionale che si è data, aprendo prospettive e linee di sviluppo che creano aporie, non solo alla sua visione psicologica, ma all’intera psicologia del profondo, che non può ribadire i suoi strumenti di indagine liquidando Jung con quella serie di appellativi che servono solo a non mettere in gioco, di fronte ad alcune obiezioni di metodo, la tranquillità delle proprie procedure.
La componente filosofica presente nella visione junghiana dello psichico solleva infatti all’intera psicologia del profondo delle difficoltà che mettono in questione la sua collocazione, i suoi metodi di lettura e di interpretazione. Del resto è tempo che la psicologia del profondo parli con la filosofia, non solo perché il discorso sulla psiche è nato in ambito filosofico, ma perché, dopo la sua autonomizzazione e il suo profilarsi nella direzione della scienza, la psicologia ha messo in gioco concetti e figure alla cui costruzione la filosofia aveva dedicato diverse epoche della sua storia.
1. Psiche
Il concetto di “psiche” è nato in Grecia ed è stato tematizzato da Platone. Per questo le citazioni di Platone ricorrono così frequenti nei testi psicoanalitici ma, dobbiamo dirlo, quasi sempre in modo inopportuno. La psicologia del profondo sembra infatti ignorare che Platone si difende strenuamente da quella psiche che gli psicologi conoscono, perché la psyché che il filosofo di Atene inaugura è l’anima razionale che fissa l’univocità dei significati, sottraendoli a quell’oscillazione di senso in cui si trovano quando sono affidati all’anima psichica.
In questo senso possiamo dire che la prima operazione che compie la filosofia per nascere è l’espulsione della psicologia, il superamento di quel linguaggio simbolico dove le parole non stanno ferme nel loro significato, ma si concedono a tutte quelle oscillazioni di senso che la psicoanalisi freudiana conosce sotto il nome di “associazioni” e quella junghiana sotto il nome, più opportuno e più aderente alla natura del simbolo, di “amplificazioni”.
Ho diffusamente documentato questa tesi nel mio libro Gli equivoci dell’anima.1 Qui sarà sufficiente ricordare che con Platone, e quindi con la filosofia da lui inaugurata, si ha il primo blocco delle basi discorsive, e quindi il superamento delle oscillazioni semantiche che sono proprie del linguaggio simbolico di cui la psicologia si nutre.2
A regolare il linguaggio è il principio di non contraddizione, per cui una cosa è se stessa e non altro. In questo modo si perviene a de-terminare il significato delle cose, che risultano così concluse nella loro terminazione concettuale, e ad annullare ogni oscillazione di senso che ecceda la mera identità di una cosa con se stessa.
L’iperuranio platonico è il primo grande laboratorio di costruzione del sapere e della sua organizzazione. La distribuzione delle idee in generi e specie crea quel reticolato di inclusione ed esclusione che, oltre a consentire l’identificazione dei significati attraverso le procedure di identità e differenza, pone le basi per l’elaborazione delle leggi di inferenza. Se c’è errore esso risiede o nell’indeterminatezza del genere, quindi in un deficit di identità, o nella combinazione di generi tra loro incompatibili, quindi in una deroga al principio di non contraddizione.3
Questa grande costruzione platonica che, come avverte Nietzsche, ha inaugurato per l’Occidente una grammatica e una lingua logica, non è riconosciuta da Platone come una semplice posizione di regole linguistiche, ma è identificata con l’oggettività dell’essere stesso (ontologia), che trova la sua più alta espressione nell’idea di Sommo Bene (teologia) da cui tutte le altre idee dipendono.
Costruita l’anima razionale, Platone non dimentica l’anima psichica, che è stato necessario escludere per la costruzione di un linguaggio univoco, e a essa dedica due dialoghi: il Fedro e il Simposio, dove l’anima psichica è coniugata con Amore (Eros) e con Follia (Mania).
Di Amore si dice che è una potenza demonica e di Follia si dice che è divina. Demoni e dèi abitano una regione che non è quella abitata dall’uomo. Un “immenso vuoto”, dice Platone, separa i due mondi. Il mondo umano è il mondo della ragione e dell’univocità dei significati, che consente al linguaggio di trasmettersi da individuo a individuo con lo stesso senso e con lo stesso significato. Il mondo demonico e divino è invece il mondo della follia perché folle è ogni parola il cui senso è indecidibile e il cui significato è insondabile.
Di fronte a queste parole, dice Platone, sono necessarie operazioni di ermeneutica (ermeneúein) e di traduzione (diaporthmeúein) di cui sono capaci non gli uomini “comuni”, ma quelli “demonici”.4 Socrate è uomo demonico, il suo volto non è il volto “edificante” che ci è stato trasmesso dalla tradizione, ma quello “erotico”, che Nietzsche scopre al di là di quello “morente” e così descrive:
Socrate andò incontro alla morte con quella stessa calma con cui, secondo la descrizione di Platone, egli lasciò il simposio, ultimo dei bevitori, al primo albeggiare, per cominciare un nuovo giorno, mentre dietro a lui rimanevano, sui sedili e in terra, i convitati addormentati, per sognare di Socrate, il vero erotico. Il Socrate morente divenne l’ideale nuovo, mai prima contemplato dalla gioventù nobile greca; prima di tutti Platone, il tipico giovane ellenico, si gettò ai piedi di questa immagine con tutta l’ardente dedizione della sua anima entusiastica.5
Tra ragione e follia, e quindi tra anima razionale e anima psichica, non c’è separazione ma scambio perché, se è vero che la ragione per nascere ha dovuto esiliare la follia, è altrettanto vero che la sua funzione di ordinamento può continuare solo alimentandosi degli enigmi della follia. Se “analisi” è “scioglimento (analýein)”, ogni scioglimento rinvia a un intreccio, a un nodo.
Un’ultima considerazione: l’anima psichica, oltre che con Follia, è imparentata con Eros, di cui si dice che è una potenza nell’accezione di forza (dýnamis). Teniamone conto. Sotto la chiarezza delle idee ordinate nel cielo dall’identità e dalla differenza c’è una forza produttrice che la filosofia non rimuove, ma riconosce e nomina: conatus con Spinoza, vis con Leibniz, produzione inconscia con Schelling, volontà di vita con Schopenhauer, volontà di potenza con Nietzsche. E come la filosofia non ha mai rimosso l’altra parte di sé, così la psicologia del profondo, nel prendersi cura di quest’altra parte, è bene che non rimuova la filosofia, perché altrimenti perderebbe anche le parole che le sono necessarie per nominare le cose di cui si occupa.
2. Io penso
Ma la filosofia dell’Occidente non si accontenta del blocco delle basi discorsive operato da Platone, e in epoca moderna, con Cartesio, ne opera un secondo, più decisivo, più radicale, sganciato da Dio e dall’ordine della natura, perché ancorato all’Io dell’uomo, di cui è possibile controllare le procedure con cui ordina il mondo.
La psicologia, nell’uso abbondante che fa della parola “Io”, tende a dimenticare che questa nozione ha tre secoli di vita, ed è stata generata con l’unico scopo di creare le condizioni che consentano di oltrepassare le soggettività individuali, da cui non può nascere alcun sapere universale, alcuna scienza nel senso moderno del termine.
“Io penso” significa adottare delle convenzioni che anticipano ogni possibile significato, abbandonando nell’insignificanza tutto quel volume di senso che trascende i mathémata, le anticipazioni convenute. Nasce il sapere matematico, cioè anticipato, a cui si accede solo accettando le convenzioni discorsive che l’ego cogito ha predisposto per l’interrogazione del mondo.
L’unità non è più teologica, né ontologica, ma egologica; si appella non alle leggi di Dio o a quelle della natura, ma alle anticipazioni dell’Io. La ragione diventa legislatrice, detta cioè le leggi della rappresentazione del mondo.6 In proposito Kant è chiarissimo. Nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura scrive che:
Galilei e Torricelli compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con i princìpi dei suoi giudizi secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande, senza lasciarsi guidare da essa, per così dire, con le redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno.7
La funzione legislativa della ragione moderna inaugura un sapere che, anticipando metodi e ipotesi, conosce già nella rappresentazione (Vor-stellung) il nome della cosa, prima (vor) che questa si presenti. La presenza della cosa non è più un es-porsi dalla sua ascosità, ma un dis-porsi nel campo della rappresentazione anticipata. Il suo stare è uno star-di-contro (ob-jectum) all’ego soggettivo che ha disposto l’ordine di presentazione. L’oggettività diventa la modalità del suo apparire, che non è più espressione dell’essere, ma richiamo di una soggettività che vuole la cosa davanti a sé nelle modalità anticipate e predisposte.
In ciò è la pro-vocazione del sapere scientifico che, nella rappresentazione, possiede in anticipo l’oggetto che, con il metodo, chiama alla presenza. Il possesso è potenza sull’oggetto che si è “chiamato davanti” a sé, cioè pro-vocato e disposto nell’orizzonte dell’oggettività, in modo che sia possibile, seguendo lo stesso metodo, ritrovarlo allo stesso posto, onde consentire alla ragione provocante di poterne sempre disporre.
Affinché la disponibilità sia universale e il più possibile garantita contro ogni eventuale smarrimento, la soggettività che dispone la posizione delle cose dovrà essere a sua volta universale e il più possibile purificata dagli inconvenienti della soggettività, dovrà essere coscienza intersoggettiva, intelletto puro, che lascia fuori di sé ogni sorta di condizionamento psicologico e ogni dimensione che trascenda l’orizzonte oggettivo dischiuso dall’anticipazione ipotetica e percorso dal metodo che ha provocato la presenza dell’oggetto.8
Di fronte a questa storia della ragione moderna la psicologia del profondo ha assunto due atteggiamenti antitetici: da un lato, con Freud, ha tentato una rigorosa decostruzione dell’ego cogito, dell’Io; dall’altro, sempre con Freud, ha tentato di dare a se stessa l’assetto rigoroso delle scienze oggettive, le quali sono possibili solo a partire da quell’ego cogito, che proprio la psicoanalisi si è incaricata di decostruire.
Qui fa la sua prima comparsa Jung, il cui contrasto con Freud è ben più radicale di quello che egli stesso descrive.9 Jung non rifiuta di Freud solo la reductio ad unum di tutte le manifestazioni psichiche in base al principio esplicativo della libido pulsionale, non rifiuta solo la risolvibilità dell’inconscio nell’economia dell’Io secondo il progetto freudiano: “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io”,10 non rifiuta solo la rigorosa traduzione dei simboli nel codice anticipatamente prescritto, non rifiuta solo la risoluzione di tutte le espressioni culturali dell’uomo in quell’unica chiave interpretativa che è la sublimazione delle pulsioni; ma questi rifiuti, che nel loro isolamento possono apparire semplici scelte di campo, composti fra loro, dicono un solo grande rifiuto: quello di leggere l’uomo a partire dalle leggi oggettivanti che la scienza, inaugurata dall’ego cogito, produce. Ne discende che Jung è d’accordo con Freud sulla decostruzione dell’Io penso, ma poi ne trae anche le conseguenze che si traducono in quell’espressione ormai famosa:
La psicologia deve abolirsi come scienza, e proprio abolendosi, raggiunge il suo scopo scientifico. Ogni altra scienza ha un “al di fuori” di se stessa, ma non la psicologia, il cui oggetto è il soggetto di ogni scienza in generale.11
Non si può infatti annuvolare il cielo e poi pretendere di vedere le stelle. La psicologia non è una scienza, per la semplice ragione che ha dissolto il principio su cui la scienza moderna ha edificato se stessa.12 Trarne le conseguenze, come ha fatto Jung, significa aprire una problematica che riguarda non solo la psicologia junghiana che l’ha inaugurata, ma l’intera psicologia del profondo. A questo punto, al di là delle simpatie o delle antipatie molto spesso giustificate dalla scolastica junghiana, la psicologia del profondo deve fare i conti con Jung che, a sua volta, non è esente dalle aporie emergenti dal problema che ha aperto.
3. Ermeneutica
Inscritta nel senso, come la fenomenologia giustamente vuole che sia inscritto ogni discorso sull’uomo,13 la psicoanalisi deve perciò stesso rinunciare a porsi come scienza oggettiva, perché le produzioni di senso sono inverificabili con i metodi delle scienze oggettive. Alternative a queste sono le scienze storiche o, come oggi più correttamente si dice, ermeneutiche. L’ermeneutica ha il pregio di aver cancellato ogni presunzione di innocenza, nel senso che quando noi comprendiamo qualcosa siamo compromessi da una pre-comprensione, che è il frutto della nostra cultura epocale, della nostra educazione, della nostra particolare visione del mondo, per cui ogni volta che raccontiamo qualcosa, raccontiamo noi stessi sotto il pretesto di qualcosa.
Non c’è testo che non sia la nostra lettura del testo, per cui interpretare non è contemplare uno spettacolo che si mostra da sé, ma è agire su questo spettacolo perché ceda il suo senso. Con questa presa di coscienza, di cui l’ermeneutica ci ha fatto dono, la filosofia si scopre come prassi, e come prassi legge tutte le teorie che un tempo si offrivano sotto il segno dell’immutabilità, come frutto di contemplazione.
Ogni sguardo dispiegato sulle cose, ogni ascolto proteso sul mondo è già un’interazione tra ciò che si offre al nostro sguardo e ciò che il nostro sguardo recepisce in base alle significazioni che già possiede. L’innocenza della parola non è faccenda umana e neppure divina, dal momento che anche la parola di Dio è ascoltata, è per ciò stesso interpretata, e quindi agita dall’uomo.
Consideriamo allora le verità oggettive sulla psiche come forme di prepotenza, e quelle relative come forme di consapevolezza, dove si sa che il racconto è sempre il nostro racconto. Qui Jung ha visto meglio di Freud, che allontanava da sé tutti coloro che si discostavano dal (suo) racconto. Jung ha capito che quello della psicoanalisi era il racconto di Freud, così come quello della psicologia individuale era il racconto di Adler, perciò ha evitato di produrre il suo racconto, anche se a ciò hanno provveduto, con improvvida sollecitudine, i suoi discepoli. Scrive infatti Jung:
La consapevolezza del carattere soggettivo di ogni psicologia, che è il prodotto di un singolo individuo, dovrebbe essere la caratteristica che mi distingue più rigorosamente da Freud.14
E altrove:
La conoscenza umana deve contentarsi di creare modelli verosimili corrispondenti al probabile. Far di più sarebbe sventatezza e temerarietà.15
Questa consapevolezza ermeneutica, che tra gli junghiani vedo documentata solo da Mario Trevi in Per uno junghismo critico e dai collaboratori della rivista da lui fondata che ha per titolo “Metaxù”,16 è il più grande guadagno che Jung trae dalla decostruzione dell’Io penso. Esso consiste nella presa di coscienza esplicita dell’impossibilità di una psicologia come scienza oggettiva.
Ogni tentativo che, attraverso la solidificazione delle figure psichiche di cui Jung parla come ognuno può parlare del proprio itinerario psicologico, pretenda di costruire una psicologia junghiana, compirebbe una mossa che nella lettera e nello spirito contraddice l’essenza più autentica e più dialogica della riflessione psicologica di Jung. La psicologia junghiana esclude appartenenze, il suo messaggio non è una dottrina, è un’apertura, e nell’“aperto”, ce lo ricorda Heidegger, c’è il massimo della manifestazione e il massimo del rischio.17
4. Simbolo
Questa apertura si ripercuote potentemente sulla nozione junghiana di simbolo ed è la condizione prima per la sua comprensione. Sul modo di leggere il simbolo si consuma la separazione tra Freud e Jung e, in omaggio alla chiarezza, bene ha fatto Freud a non concedere alla riflessione psicologica di Jung il titolo di “psicoanalisi”.
Decostruito il nostro modo abituale di pensare per ricondurlo alle sue origini arcaiche, dove desideri impediti, deviati e convertiti custodiscono quel nucleo di senso che l’Io, ingannandosi, rappresenta come sua creazione, Freud si propone di evidenziare l’inganno dell’Io, mostrando che le sue creazioni culturali e religiose altro non sono che travestimenti simbolici di desideri rimossi, dove tutta la nostra infanzia e la nostra arcaicità esprimono, nel sogno e nella nevrosi, la loro ineliminabilità, per cui l’uomo pensa di avere una storia mentre è semplicemente esecutore di un destino.
L’Io non è autore delle sue parole, ma le sue parole sono abbellimento che traveste un discorso già pronunciato dalle sue rappresentazioni inconsce in termini che, nella loro immediatezza, sarebbero improponibili. La decodificazione svela sempre la stessa trama, il simbolo rinvia sempre allo stesso testo. Il testo recita l’angoscia del bambino che viene al mondo senza protezioni e senza difese. La psicoanalisi ci ha persuaso, e nessuno, neppure Jung, contesta questa archeologia del simbolo, questo rinvio al passato prossimo della nostra infanzia e al passato remoto dell’umanità.
Ora, però, siccome la nostra psiche, oltre a essere immersa in un destino è anche aperta a una storia, Jung colloca il simbolo tra il passato e il futuro, e in questa collocazione dischiude due prospettive che non sono né omogenee né analoghe. Il riferimento al passato prossimo o remoto è l’aspetto sintomatico del simbolo. Così, ad esempio, scrive Jung:
La fantasia è da intendersi tanto in senso causale quanto in senso finalistico. A una spiegazione causale essa appare come sintomo di uno stato fisiologico o personale che è il risultato di avvenimenti precedenti. Alla spiegazione finalistica, invece, la fantasia appare come un simbolo che tenta, con l’ausilio dei materiali già esistenti, di caratterizzare o di individuare un determinato obiettivo o piuttosto una determinata futura linea di sviluppo psicologico.18
Quello che qui è detto per la fantasia vale per l’universo psichico, nel senso, scrive Jung, che: “Quando si ha a che fare con cose psichiche, il chiedersi: ‘Perché si verifica la tal cosa?’ non è necessariamente più produttivo che il domandarsi ‘A che scopo succede?’”.19 In gioco è qui il passaggio dall’ordine della spiegazione (Erklärung), presieduto dalle categorie della ragione, all’ordine del senso (Sinn), che dette categorie trascende.
Ma qui la distinzione introdotta da Jung tra il punto di vista causale (kausaler Gesichtspunkt) che approda alla spiegazione delle cose, e il punto di vista finalistico (finaler Gesichtspunkt) che si apre a successive linee di sviluppo e quindi a possibili futuri (zukünftige psychologische Entwicklungslinie), non va intesa in senso debole, quasi si trattasse di una semplice precisazione circa la differenza tra due possibili procedimenti della ragione, dal momento che, dei due, solo il procedimento causale, che approda alla spiegazione, appartiene all’ordine della ragione, mentre l’altro trascende i limiti della pura ragione perché, come diffusamente e ripetutamente ha mostrato Kant: “Non potendo esser tratto dall’esperienza, né essendo necessario alla possibilità dell’esperienza stessa, non v’è modo di assicurare la sua realtà oggettiva”.20
Tra causa e fine corre allora tutta quella distanza che separa l’ordine razionale dall’ordine simbolico. Nell’ordine razionale si approda alla spiegazione, cioè alla riduzione di un fenomeno all’ordine legale che la ragione ha anticipato; il risultato di questa riduzione è la produzione di un significato (Bedeutung). Nell’ordine simbolico, invece, si trascende la spiegazione e la conseguente produzione di significati validi per la ragione, per arrischiare un senso (Sinn) che, come dice Kant, “può essere pensato senza contraddizione, ma non determinato categoricamente”.21 In questo procedimento, conclude Kant:
La ragione non ci può seguire, perché quando con questa specie di spiegazione ci smarriamo nel trascendente, la ragione è indotta a fantasticare poeticamente, vale a dire è indotta a ciò che è suo massimo dovere evitare.22
Esclusa come possibilità della ragione, la procedura finalistica è riaccolta da Kant quando l’esigenza incondizionata (unbedingte Forderung) di un senso si impone al di là della produzione razionale dei significati. Allora, dice Kant:
Voler escludere interamente il principio teleologico, e pretendere di seguire sempre il semplice meccanicismo [...] significherebbe abbandonare la ragione a divagazioni sopra le impenetrabili potenze della natura, divagazioni fantastiche e chimeriche, non meno di quelle a cui potrebbe essere trascinata da un’esplicazione puramente teleologica, che non facesse alcun conto del meccanicismo naturale.23
Nella lettura dei processi psichici, assumendo l’ipotesi finalistica, e considerandola in molti casi più idonea di quella causale adottata da Freud, Jung, non solo non ignora la lezione kantiana, ma la cita testualmente:
Se vogliamo lavorare veramente da psicologi, allora dobbiamo conoscere il “senso” dei fenomeni psichici. [...] È assolutamente impossibile infatti considerare la psiche in senso “solo causale”, dobbiamo considerarla anche in senso “finale”. Prima di Kant la cosa sembrava impossibile, ma, com’è noto, Kant ha dimostrato molto chiaramente che il punto di vista meccanicistico e quello teleologico sono non principi costitutivi (oggettivi), e per così dire qualità dell’oggetto, ma solo principi regolativi (soggettivi) del nostro pensiero, e come tali non si contraddicono, giacché io posso senza difficoltà pensare insieme la seguente tesi e antitesi. Tesi: tutte le cose nascono secondo leggi meccaniche. Antitesi: alcune cose non nascono esclusivamente secondo leggi meccaniche. Kant dice: la ragione però non può dimostrare né l’uno né l’altro di questi principi, perché noi non possiamo disporre di alcun principio determinante a priori a proposito della possibilità delle cose secondo leggi puramente empiriche della natura. [...] Naturalmente io considero necessari ambedue i modi di vedere, quello causale e quello finalistico, ma vorrei far notare che, dopo Kant, sappiamo che i due punti di vista non si contraddicono, se vengono considerati come principi regolativi del pensiero, e non come principi costitutivi del processo di natura stesso.24
Accolta la lezione kantiana, Jung non ne dimentica le cautele, anzi è perfettamente consapevole che la ricerca di un senso, al di là dei significati stabiliti dalla ragione, implica un oltrepassamento dei limiti della pura ragione. A suo avviso questo oltrepassamento, che dischiude l’orizzonte simbolico, prende avvio “se si è del parere che un processo naturale in genere sia privo di un significato soddisfacente (eines befriedigenden Sinnes entbehre)”.25
Ciò è dovuto al fatto che la spiegazione, come riduzione di un fenomeno all’ordine legale che la ragione ha anticipato, offre un significato che rimane circoscritto all’anticipazione convenuta, e quindi non trascende l’ipotesi umana che l’ha formulato. Non siamo cioè in presenza di un’apparizione di senso, di una verità nell’accezione greca della parola alétheia, ma di un risultato ottenuto (ex actu) dalla legislazione della ragione, quindi di una semplice esattezza. In questo senso scrive Jung:
Se si ammette che le leggi naturali sono ipotesi formulate dagli uomini per spiegare il processo naturale [...] non dobbiamo dimenticare che vi è una conformità a leggi nel processo naturale e una conformità a leggi del processo naturale.26
Con questa affermazione Jung ripercorre in sede psicologica l’itinerario filosofico di Kant che pone, al di là del fenomeno, la cosa in sé, al di là della corrispondenza delle cose alle anticipazioni della ragione, la verità delle cose.
Ma come è possibile accedere alla verità delle cose, al noumeno, alla cosa in sé? Non si ripercorre qui la grande tautologia di Kant che, partendo dal presupposto che il conoscere produce significati che hanno valore solo per noi (für uns), si vede poi costretto a escludere la possibilità di conoscere la cosa in sé (an sich)? E d’altra parte, come si può prescindere da quel presupposto se la ragione perviene solo a quei significati che corrispondono alle sue premesse? Se il limite della ragione, come ha indicato Kant, è invalicabile nella direzione del mondo esterno, forse un itinerario è percorribile in direzione del mondo interno, perché qui la cosa in sé siamo noi.
Questa è la peculiarità della psicologia che, unica tra le scienze, si sottrae a qualsiasi forma di oggettivazione, perché il soggetto che indaga e l’oggetto indagato fanno tutt’uno. Qui Jung è chiarissimo: “Ogni altra scienza ha un ‘al di fuori’ di se stessa, ma non la psicologia, il cui oggetto è il soggetto di ogni scienza in generale”.27
Per questa peculiarità, in psicologia, la distinzione tra fenomeno e noumeno, tra l’essere che appare a noi e l’essere come è in sé, può risolversi, ma per questo è necessario che si conceda all’in sé che c’è in noi di parlare a noi. Ciò è possibile se la ragione che presiede alla costruzione della nostra coscienza si dispone all’ascolto di una parola che la abita a sua insaputa, quindi di una parola inconscia che, nel linguaggio di Jung, è la parola del Sé che “offre all’Io motivo per rendersi conto di sé”.28
Riconosciute queste differenze nella lettura dell’ordine simbolico, è possibile concludere che se per Freud l’ermeneutica si risolve nella demistificazione del simbolo, nella riduzione delle illusioni che racchiude, per Jung, oltre a questo, il simbolo è anche la manifestazione di un senso che mi è indirizzato, qualcosa che non arresta l’intelligenza ma la provoca, come l’“accenno” del Signore di Delfi che, al dire di Eraclito, “non dice e non nasconde, ma significa (semainei)”.29
Che i simboli siano significanti non è una verità, ma una possibilità che non si può verificare con gli strumenti della psicoanalisi che riportano alla prima infanzia, e neppure con la teoria degli archetipi, che, non accontentandosi della prima infanzia, risale all’infanzia dell’umanità, ribadendo, in questo risalire, non il profilo prospettico di Jung, ma il metodo riduzionistico della psicoanalisi di Freud.
La possibilità a venire, racchiusa nella concezione junghiana del simbolo, è ciò che consente di controbilanciare, con la storia che l’uomo costruisce, il destino in cui l’uomo è radicato. Che poi anche la storia sia un’illusione, e il contrappeso che essa rappresenta nei confronti del destino nient’altro che un desiderio infantile da smascherare, ciò è da lasciare alle psicologie dei singoli, alla pre-comprensione con cui ogni coscienza, mai innocente, si apre all’interpretazione di sé e del mondo. Se la psicologia analitica, come oggi i seguaci di Jung chiamano la loro appartenenza, non fa questa concessione, non può fondare il processo di individuazione, che è il centro della speculazione teorica di Jung e lo scopo della sua prassi terapeutica.
5. Inconscio
Non c’è sapere dell’inconscio perché ogni sapere appartiene all’ordine della ragione, che può mettere in scena il suo discorso tranquillo solo quando la violenza è stata cacciata dalla scena, quando la parola è data alla soluzione del conflitto, non alla sua esplosione, alla sua minaccia.
La diversa lettura che Freud e Jung danno dell’inconscio dice questa differenza: Freud guarda il conflitto a partire dalla sua soluzione, Jung dal fragore della sua esplosione. In gioco non sono solo due punti di vista diversamente dislocati, ma, da un lato c’è il sapere prodotto dall’ordine della ragione che, emancipatasi dalla follia, può raccontarla come l’altro da sé (Freud), e dall’altro c’è la pratica della follia come cedimento dell’ordine della ragione e sua esposizione a ciò che ragione non è (Jung).
Freud può parlare di inconscio perché, dal suo punto di vista, l’enigma è solo ciò che la coscienza ha rimosso, dunque è il risultato delle sue procedure d’esclusione. Jung non può accontentarsi di questa lettura, perché il suo punto di vista si colloca là dove prende avvio la coscienza umana nel suo emanciparsi da quella condizione animale o divina che l’umanità ha sempre avvertito come suo sfondo, e da cui, pur sapendosi in qualche modo uscita, ancora si difende, temendone la sempre possibile irruzione. Si tratta della follia intesa non come il contrario della ragione (Freud), ma come ciò che precede l’abituale distinzione tra ragione e follia (Jung).
Per Freud la Sfinge ha il volto che la ragione le ritrae come suo altro, per Jung invece ha una “duplice natura” che non può essere svelata se non violandola. Edipo allora scioglie l’enigma della Sfinge perché ha ucciso il padre e sposato la madre, perché, come scrive Nietzsche:
Si è sottratto all’incantesimo della natura con una mostruosa violazione della natura. E in effetti, come si potrebbe costringere la natura ad abbandonare i suoi segreti se non contrastandola vittoriosamente, ossia mediante ciò che è innaturale? Questa conoscenza la vedo impressa nella terribile triade dei destini di Edipo: lo stesso che scioglie l’enigma della natura – della Sfinge dalla duplice natura – deve anche violare come assassino del padre e marito della madre, i più sacri ordinamenti naturali.30
Quando la natura cede il suo segreto mostra il suo volto che è indifferenziato perché antecede le differenze che la ragione ha faticosamente guadagnato distinguendo il vero dal falso, il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, per garantire agli uomini una comunicazione univoca e forme prevedibili di convivenza. La natura, misconoscendo le differenze (dia-bállein), mantiene tutto in quella contrazione simbolica (sym-bállein) che gli uomini hanno sempre avvertito minacciosa, e perciò hanno espulso dalla loro comunità e relegata in quella sfera pre-umana che è il mondo degli elementi naturali, degli animali, degli dèi, del sacro.31 Accedere alla dimensione simbolica significa allora per Jung passare dalla visualizzazione che la ragione fa della follia all’esposizione della ragione all’abisso della follia.32
In questo modo, da buon lettore di Nietzsche, Jung non adotta il punto di vista della coscienza che ha raggiunto la sua conquista, ma, congedandosi dallo sguardo promosso dalla quiete che più non si sente minacciata, coglie quel mondo nell’istante della sua lacerazione, quando l’uomo con un “crimine” lo viola, e dalla violazione nasce, conquistando la propria differenza dal divino e dal sacro.
Nello scenario che si apre non è più Dio a creare gli uomini, ma sono gli uomini a essersi emancipati da Dio, separandosi da quello sfondo simbolico che non ospita né identità né differenza. Il fuoco, in cui Dio si confonde e si mescola, nelle mani dell’uomo diventa principio d’ordine; il suo uso differenziato dà l’avvio al processo di civilizzazione, che coincide con il progressivo distacco ed emancipazione dell’uomo da Dio.
6. Ragione e follia
Siamo così giunti al cuore del problema e all’essenza della psicologia, il cui sguardo è rivolto là dove ragione e follia si dipartono, dove la ragione con un gesto violento si emancipa dalla violenza della follia. Ma che cos’è ragione e che cos’è follia?
S’è detto che la ragione è l’atto che differenzia, che pone le differenze, per cui è impossibile dire dello stesso che è dio e animale, benefico e malefico, che è abbandonato, esposto, minacciato e a un tempo ineffabile e divino, che è maschio e a un tempo femmina, come il linguaggio simbolico non cessa di ripetere, e come lo stesso Freud ebbe modo di considerare in quel suo saggio sul significato opposto delle parole primordiali, dove riferisce che:
Secondo il glottologo Karl Abel, autore nel 1884 del
saggio Sul significato opposto delle parole
primordiali, è nelle “radici più antiche” che si osserva il
fenomeno del duplice significato antitetico. Nel corso
dell’evoluzione linguistica questa ambiguità è scomparsa e,
perlomeno nell’antico egizio, è possibile seguire tutti i passaggi
attraverso i quali si è raggiunta l’univocità del patrimonio
lessicale moderno. “Le parole originariamente ambigue si compongono
nella lingua successiva in due parole univoche, mentre ciascuno dei
due significati opposti assume una particolare ‘riduzione’
(modificazione) fonetica della stessa radice.” Così per esempio già
nei geroglifici lo stesso ken
“forte-debole” si scinde in ken
“forte” e kan “debole”. “In altri
termini, i concetti che si erano potuti scoprire solo per via
d’antitesi vengono nel corso del tempo sufficientemente assimilati
dall’intelletto umano, al punto da assicurare a ciascuna delle due
parti un’esistenza autonoma, e procurare loro con ciò un
rappresentante fonetico separato.” [...]
In un altro saggio che ha per titolo Origine
del linguaggio, Abel richiama l’attenzione anche su altre
tracce di antiche difficoltà di pensiero. Per esprimere “senza”
l’inglese dice ancor oggi without,
dunque “consenza”, e altrettanto fa il prussiano orientale. Lo
stesso with, che oggi corrisponde al
nostro “con”, significava originariamente non solo “con” ma anche
“senza”, com’è tuttora riconoscibile in withdraw (ritirare), withhold (trattenere). La stessa
trasformazione ritroviamo nel tedesco wider (contro) e wieder (insieme con).33
La coscienza umana si apre quando si instaura la differenza, quando decide che una cosa non è il suo contrario. La parola tedesca che sta per differenza Unter-scheidung mantiene il ricordo di questa decisione (Ent-scheidung) con cui si opera il taglio (Scheidung) dei significati. Prima di questo taglio non c’è l’uomo, né l’apertura della sua coscienza, perché nessun senso si costituisce se non nella differenza dei significati. Infatti, scrive Jung:
L’identità non rende possibile la coscienza: solo dalla separazione, dal distacco, dal doloroso “esser posto in contrasto” possono nascere coscienza e conoscenza.34
L’identità è lo sforzo pre-umano da cui l’uomo si è emancipato con un gesto violento. Parliamo della violenza sottesa a ogni decisione, perché “decidere” significa stabilire una volta per tutte il senso delle cose, eliminando d’un colpo tutti i significati adiacenti e tutte le oscillazioni possibili di cui si alimentano i sogni, le fantasie, le allucinazioni, che attingono a quello sfondo preumano che è lo sfondo dell’indifferenziato.
Il gesto della ragione è violento, perché dire che “questo è questo e non altro”, dire che il cavallo è il cavallo e non l’istinto, il desiderio, l’impeto, la fedeltà, il sacrificio, la morte, è una decisione, non una verità. Ma la violenza della ragione è ciò che ha consentito all’Io di sottrarsi a quella violenza maggiore che è il mancato riconoscimento delle differenze, per cui il padre non è riconosciuto come padre, la madre come madre, il figlio come figlio, con conseguente oscillazione dei significati, di tutti i significati che l’Io ha faticosamente costruito per orientarsi nel mondo. Il desiderio incestuoso, su cui Freud ha costruito la sua ipotesi analitica, è un esempio di questo mancato riconoscimento delle differenze. Il disordine che ne consegue è la violenza di una differenza mancata.
Decidendo, scrive Jung, l’Io si sottrae alla “violenza del Sé (Vergewaltigung durch das Selbst)”,35 dove il Sé è quello sfondo pre-umano che le religioni chiamano “Sacro” e successivamente “Dio”, e da cui l’Io nasce con un gesto violento, reso a sua volta possibile da una concessione di Dio: “Deo concedente”, dice Jung.36
Le metafore conscio/inconscio, razionale/irrazionale, umano/pre-umano non irradiano significazioni in uno spazio puro, abbandonato a se stesso, dis-orientato, ma solo a partire da un’origine compresa, da un oriente inscritto, che è poi il luogo dove l’Io ha stabilito le differenze per orientarsi nel mondo. Ma da questo luogo non si può parlare dell’indifferenziato, e perciò l’Io patisce la violenza dell’indicibilità del Sé che lo abita, una violenza simile a quella patita da Mosè quando:
L’Eterno gli parlò faccia faccia per dirgli “Tu non potrai vedere la mia faccia, perché l’uomo non può vedermi e sopravvivere. Ti sdraierai sulla roccia. Quando passerà la mia gloria, io ti metterò in una cavità della roccia e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. E quando io ritirerò la mano, tu mi vedrai da dietro, ma la mia faccia non potrà essere vista”.37
Se il linguaggio è la possibilità del faccia a faccia, con Dio non c’è linguaggio, se non dopo che Lui ha voltato le spalle e ha ritirato la mano. Allora Mosè lo potrà vedere, ma da dietro, quando se ne è andato, quando il distacco, la differenza, il dia-bállein è avvenuto.
Dia-bállein qui non significa che l’uno è giorno e l’altro è notte, l’uno luce e l’altro tenebre. Queste distinzioni sono dell’Io, nel duplice senso del genitivo: costituite dall’Io e costituenti l’Io. La notte del Sé è una notte inimmaginabile che non è neppure il contrario del giorno, perché è notte e giorno, luce e tenebre. È una notte senza volto, a cui si potrebbe applicare l’espressione di Jabès: “Tutti i volti sono il Suo, e questa è la ragione per cui Egli non ha volto”.38
L’archetipo junghiano, nell’infinità delle sue contraddizioni, nella coincidenza degli opposti che in essi si esprime, non è una cosa, non è un’immagine, non è una verità, non è un a priori, non è una fantasia, ma è un simbolo che “mette assieme (sym-bállein)” il linguaggio umano con la fonte pre-umana da cui il linguaggio si è separato, facendo la guerra alla guerra che lo istituisce.
All’interno di questo conflitto, che Jung definisce “violentissimo (heftigste Entzweiung)”,39 l’umanismo è sospeso al filo sottilissimo dell’Io che narra di sé, perché, invece di lasciarsi incantare dal Racconto, Jung domanda che cos’è il Racconto. Una domanda terribile perché assedia l’invulnerabilità del sapere. Che io sia “costruito” è la stessa storia del mio racconto che lo dice. Quindi io non sono costruito se non per un oblio della mia genesi. Ma chi mi racconta il Genesi se non Dio?
Anche Nietzsche, come abbiamo visto,40 quando si imbatte nel problema della nascita della filosofia, non sta ad ascoltare Socrate, ma, aggirando il filosofo, si fa narrare l’evento dagli dèi, da Apollo e da Dioniso. E come, dopo Nietzsche, non si può far filosofia senza scontrarsi con la nascita della filosofia che ha una genealogia che rimane ignota ai libri di testo, così dopo Jung non si può fare psicologia se non accedendo alla nascita della psicologia, che non si trova nei libri scientifici, ma in quel pre-testo che è la religione, dove il dramma divino narra la vicenda umana che l’uomo non può raccontare, perché il suo racconto, il suo testo, è venuto dopo.
Per questo in Jung non parla il sapere, ma Dio e gli dèi. Con Jung torna l’enigma, torna l’oscurità. La sua psicologia assume il modo del discorso per trasferirlo al limite del discorso. È questo limite che si deve indagare.
Si scoprirà allora che, prima del Bewusst-sein, della coscienza tutta dispiegata di cui parla Freud, in ciò fedele esecutore del progetto occidentale, c’è stato e continua a esserci quel faticoso Bewusst-werden, che Jung indica come lo sforzo ininterrotto di sottrarre la coscienza alla minaccia sempre incombente della violenza divina. La violenza dell’indifferenziato, la sua minacciosa polimorfia come negazione della differenza, di tutte le differenze.
Freud ha scoperto questa minaccia nella sessualità infantile “polimorfa e pervertita”.41 Jung ha intuito che la polimorfia sessuale è solo l’ultimo residuato, visibile in Occidente, di quella più grande polimorfia che l’umanità ha da sempre conosciuto e collocato nel divino e nel sacro. Se questo è vero, l’intrattenersi di Jung fra cose sacre e divine non è dunque un’espressione della sua mancanza di razionalità, ma se mai è il rifiuto di riconoscere in un resto del sacro (la sessualità) l’essenza del sacro, la sua incontenibile violenza.
Se l’ipotesi junghiana è corretta, è ovvia l’impossibilità scientifica della psicologia che voglia esplorare le regioni del profondo. Se questo profondo, infatti, è lo sfondo pre-umano, la psicologia si trova a insistere su quel limite che separa la ragione degli uomini dalla follia degli dèi.
È questo un limite che non si lascia trattare con i metodi della scienza, perché la scienza, sia essa “naturale” o “umana”, è comunque al di là del limite, al di là del conflitto violentissimo in cui la ragione si emancipa dalla follia. A questo punto l’oscurità attribuita al pensiero di Jung non riguarda la scarsità del suo rigore scientifico, ma riguarda l’oscurità della cosa che nessuna luce accesa dalla ragione scientifica è in grado di illuminare.
1 U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2001, e in particolare Parte I: “Storia dell’anima”.
2 Per un approfondimento di questa tematica si veda Id., La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo (1984), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 4: “L’ambivalenza simbolica”, e in questo libro il capitolo 9: “Il linguaggio simbolico nella pratica analitica” e in particolare il § 2: “Il linguaggio filosofico”.
3 Si veda a questo proposito il saggio di S. Natoli, Identità e differenza (1983), in Teatro filosofico, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 164-179.
4 Platone, Simposio, 202 e-203 a.
5 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, Adelphi, Milano 1972, vol. III, 1, pp. 92-93. Per un approfondimento di questo tema si veda U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, cit., capitolo 18: “Sessualità e follia”.
6 Si veda in proposito U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers (1975-1984), Feltrinelli, Milano 2005, Parte IX: “L’anticipazione della ragione e l’assicurazione dell’ente”.
7 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781, 1787); tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1959, Prefazione alla seconda edizione (1787), pp. 18-19.
8 Per una più ampia esposizione di questo tema rinvio a U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, cit., Parte X: “La provocazione della scienza e della tecnica”.
9 C.G. Jung, Der Gegensatz Freud und Jung (1929); tr. it. Il contrasto tra Freud e Jung, in Opere, Boringhieri, Torino 1969-1993, vol. IV, pp. 355-364.
10 S. Freud, Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse (1932); tr. it. Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), in Opere, Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. XI, Lezione 31, p. 190. Lo stesso motivo ritorna in Das Ich und das Es (1922); tr. it. L’Io e l’Es, in Opere, cit., vol. IX, p. 517: “La psicoanalisi è uno strumento inteso a render possibile la progressiva conquista dell’Es da parte dell’Io”.
11 C.G. Jung, Theoretische Überlegungen zum Wesen des Psychischen (1947-1954); tr. it. Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in Opere, cit., vol. VIII, p. 240.
12 Per un approfondimento di questo tema si veda U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, cit., capitolo 16: “Inconscio e metodo scientifico”.
13 Si veda a questo proposito L. Binswanger, Freud und die Verfassung der klinischen Psychiatrie (1936); tr. it. Freud e la costituzione della psichiatria clinica, in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1970; Freuds Auffassung des Menschen im Lichte der Anthropologie (1936); tr. it. La concezione dell’uomo in Freud alla luce dell’antropologia, in Per un’antropologia fenomenologica, cit.; Erinnerungen an Sigmund Freud (1956); tr. it. Ricordi di Sigmund Freud, Astrolabio, Roma 1971. Per una analisi più approfondita dei rapporti tra Freud e Binswanger si veda U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 1979, Parte II: “Fenomenologia e psicologia”.
14 G.G. Jung, Il contrasto tra Freud e Jung, cit., p. 360.
15 Id., Das Gewissen in psychologischer Sicht (1958); tr. it. La coscienza morale dal punto di vista psicologico, in Opere, cit., vol. X, 2, p. 308.
16 M. Trevi, Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano 1986. La rivista “Metaxù” uscì per 16 numeri dal 1986 al 1993, pubblicata in successione dagli editori romani Borla, Kappa e Theoria.
17 M. Heidegger, Wozu Dichter? (1946); tr. it. Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 247-287.
18 C.G. Jung, Psychologische Typen (1921); tr. it. Tipi psicologici, in Opere, cit., vol. VI, p. 443.
19 Id., Vom Wesen der Träume (1945-1948); tr. it. L’essenza dei sogni, in Opere, cit., vol. VIII, p. 303.
20 I. Kant, Kritik der Urteilskraft (1790); tr. it. Critica del giudizio, Laterza, Bari 1960, p. 271.
21 Ibidem.
22 Ivi, p. 287.
23 Ivi, p. 288.
24 C.G. Jung, Vorreden zu “Collected Papers on Analytical Psychology” (1916-1917); tr. it. Prefazione ai “Collected Papers on Analytical Psychology”, in Opere, cit., vol. IV, pp. 318-319.
25 Id., Tipi psicologici, cit., p. 444.
26 Ibidem.
27 Id., Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, cit., p. 240.
28 Id., Das Wandlungssymbol in der Messe (1942-1954); tr. it. Il simbolo della trasformazione nella messa, in Opere, cit., vol. XI, p. 253.
29 Eraclito, fr. B 93.
30 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 66. Questo tema è stato particolarmente approfondito da G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 1974, capitolo 2: “Alle radici della scissione tra essere e apparire. La nozione di decadenza”, pp. 17-41.
31 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000.
32 Per una più ampia illustrazione di questo passaggio si veda il capitolo 10, § 1: “Il simbolo come antecedente dei segni”
33 S. Freud, Über den Gegensinn der Urworte (1910); tr. it. Significato opposto delle parole primordiali, in Opere, cit., vol. IX, pp. 188-190. Le opere di Abel a cui Freud fa riferimento, e da una delle quali mutua il titolo per il suo saggio, sono: K. Abel, Über den Gegensinn der Urworte (Significato opposto delle parole primordiali), Leipzig 1884; Ursprung der Sprache (Origine del linguaggio), in Sprachwissenschaftliche Abhandlungen, Leipzig 1885.
34 C.G. Jung, Zur Psychologie des Kinderarchetypus (1940); tr. it. Psicologia dell’archetipo del fanciullo, in Opere, cit., vol. IX, 1, p. 164.
35 Id., Versuch zu einer psychologischen Deutung des Trinitätsdogmas (1942-1948); tr. it. Saggio d‘interpretazione psicologica del dogma della Trinità, in Opere, cit., vol. XI, p. 156.
36 Id., Psicologia dell’archetipo del fanciullo, cit., p. 157. È curioso notare che le prognosi psichiatriche di fine Ottocento e primo Novecento concludevano con l’espressione “Deo concedente”, come a dire che la ragione e l’ordine sarebbero tornati non tanto per l’efficacia delle terapie, quanto per concessione della follia che, al pari del dio, da sé sola poteva congedarsi.
37 Esodo, 2, 5-6.
38 E. Jabès, Je bâtis ma demeure, Gallimard, Paris 1959, p. 61.
39 C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 489. Sul conflitto Io-Sé si veda U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo, cit., capitolo 15: “La violenza del Sé e la passione dell’Io”.
40 Cfr. il capitolo 1, § 4: “Nietzsche e la genealogia della ragione”.
41 S. Freud, Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie (1905); tr. it. Tre saggi sulla teoria sessuale, in Opere, cit., vol. IV, p. 409.