14. La psicologia come arte

Non bisogna fare della psicologia da rigattieri! Mai osservare per osservare! Ciò determina un’ottica falsa, una vista obliqua, qualcosa di coatto e di iperbolico. [...]
Chi assume questo atteggiamento “impersonale” è uno spregiatore di uomini, perché conoscitore di uomini è chi si mette sul loro stesso piano, ci si mette dentro.

F. NIETZSCHE,Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello (1889), pp. 111, 118.

L’interpretazione è una scienza solo nei principi; nella sua applicazione è un’arte.

E. BLEULER, Trattato di psichiatria (1911), p. 4.

1. Il limite metodologico dell’analisi esistenziale

Per evitare di oggettivare l’uomo e di visualizzarlo, come vuole il metodo scientifico, alla maniera degli enti di natura l’analisi esistenziale propone, come abbiamo visto, di sostituire al metodo “esplicativo (erklären)” proprio delle scienze della natura, il metodo “comprensivo (verstehen)”, dove l’uomo compare nelle specifiche modalità del suo essere-nel-mondo e non come schermo in cui si rileva la dinamica della libido, ovvero quell’energia psichica presupposta, a partire dalla quale la teoria psicoanalitica promuove la sua “spiegazione”.

Se, dopo quanto abbiamo detto nei capitoli precedenti, questo breve cenno è sufficiente a richiamare la differenza tra analisi esistenziale e teoria psicoanalitica, possiamo proseguire osservando che il progresso dell’analisi esistenziale rispetto alla teoria psicoanalitica è innegabile dal punto di vista epistemologico, con tutte le conseguenze teorico-pratiche che derivano da una corretta epistemologia, ma rimane circoscritto al piano del metodo.

Con l’analisi esistenziale, infatti, si abbandonano le metodologie mutuate dalle scienze della natura, per adottare metodologie che consentano alla psicologia di porsi come scienza dell’uomo, senza snaturare la specificità del suo oggetto. Ma se questo è vero, l’analisi esistenziale non si sottrae all’obiezione di Nietzsche là dove annota che “ciò che caratterizza il nostro diciannovesimo secolo non è la vittoria della scienza, ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”.1

E ancora: “Le idee più importanti vengono trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi”.2

Commentando queste note nietzscheane, Heidegger osserva:

Anche Nietzsche, nell’ultimo anno della sua salute mentale, nel 1888, è giunto a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza. Nelle scienze, non solo il tema viene posto dal metodo, ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto. Nel metodo è tutta la potenza del sapere. Il tema rientra nel metodo.3

Ora è noto che il metodo è una via (meta-odós) attraverso cui tutti i fenomeni che si manifestano vengono ridotti, cioè ricondotti a quanto è stato preventivamente anticipato. Nella teoria psicoanalitica i fenomeni vengono ricondotti a quell’anticipazione naturalistica che è la libido, nell’analisi esistenziale a quell’anticipazione antropologica costituita dalle modalità trascendentali dell’essere-nel-mondo. La differenza è nel tipo di anticipazioni, ma non nella riduzione delle espressioni umane al modello di riferimento anticipato.

Se non si desse un criterio riduttivo, l’analisi esistenziale non assurgerebbe a statuto teorico-scientifico, ma si risolverebbe in pura sovrabbondanza di dati resi insignificanti proprio dalla loro disarticolata sovrabbondanza. D’altra parte, dandosi un criterio riduttivo, l’analisi esistenziale non può evitare quello che è implicito in ogni riduzione, e cioè che il dato, lungi dall’essere, come direbbe Husserl “espressione (Ausdruck)”, si risolve in “indice (Anzeichen)”4: che rinvia a quei significanti supremi quali la destrutturazione del tempo, la disarticolazione dello spazio, la frantumazione della coesistenza, che l’analisi esistenziale assume per l’interpretazione dei dati.

Ma là dove i dati sono indicativi e non espressivi, è impossibile evitare l’oggettivazione. E se l’analisi esistenziale, con il suo metodo, si sottrae all’oggettivazione naturalistica propria della teoria psicoanalitica, non si sottrae all’oggettivazione antropologica, un’oggettivazione che non può essere evitata ovunque la ricerca sia promossa dall’intento di costituirsi come “scienza rigorosa”.

A questo punto, sia pure su un altro piano senz’altro più scaltrito, all’analisi esistenziale si pone la stessa alternativa che al suo sorgere essa aveva posto alla teoria psicoanalitica: o il proprio costituirsi come scienza con conseguente oggettivazione dell’uomo, o la rinuncia allo statuto scientifico, con la possibilità di incontrare l’uomo. Forse la psicologia, come peraltro ci ricorda Jung,5 per la peculiarità del suo riferimento, deve rinunciare a essere scienza. La sua costitutiva impossibilità a oggettivare l’uomo non le consente infatti di assumere uno statuto scientifico. D’altro lato, la sua crisi come scienza non è solo la crisi di una scienza fra le altre, ma, come Husserl riteneva, il sintomo più grave della perdita dell’orizzonte del significato delle scienze per l’esistenza umana nella sua totalità. Scrive infatti Husserl: “La scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia, sarebbe perciò assurdo se l’uomo decidesse di lasciarsi giudicare da una sola delle sue ideazioni”.6

Il verificarsi di questa eventualità sarebbe l’autoalienazione più grande, il maggior allontanamento (Ent-fremdung) dell’uomo da sé.

2. Il superamento del limite nella rinuncia della psicologia a porsi come scienza e nel suo approdo all’arte ermeneutica

Se siamo disposti a rinunciare all’ideale di una psicologia come scienza rigorosa, potremo cominciare a pensare la psicologia come arte, come quella particolare arte dell’interpretazione che oggi chiamiamo ermeneutica. Gadamer ce ne offre lo spunto:

Come dinanzi a un testo da interpretare non possiamo mai sentirci in un atteggiamento di oggettivante estraneità, perché noi stessi siamo presi in esso e quindi il testo da interpretare mette in gioco anche la nostra comprensione di noi stessi, a maggior ragione ciò vale per l’interpretazione dell’altra persona [...] Che l’esperienza del tu sia necessariamente qualcosa di specifico, in quanto il tu non è un oggetto, è un fatto chiaro. In questo senso i momenti strutturali dell’esperienza che abbiamo messo in rilievo subiscono una modifica. Poiché qui l’oggetto dell’esperienza ha esso stesso un carattere personale, tale esperienza è un fenomeno morale, e così pure il sapere che attraverso l’esperienza si acquisisce, la comprensione dell’altro. Cerchiamo dunque di seguire la trasformazione che la struttura dell’esperienza subisce quando è esperienza del tu ed esperienza ermeneutica.7

Al di là della scienza, è dunque l’arte la dimensione che può dare esecuzione a questo compito. E in tal senso il detto di Nietzsche: “L’arte vale più della verità”8 è letteralmente vero se la verità è solo quella della scienza, una verità che scaturisce dalle premesse metodologiche da cui è stata generata e che quindi non si lascia modificare dall’altro su cui agisce e con cui non interagisce.

Come arte dell’interpretazione, come ermeneutica, la psicologia non dispone di un punto d’osservazione al di fuori del sistema osservato, quindi non è in grado di oggettivare e di comunicare in modo univoco i risultati della sua interpretazione. Proprio per questo l’analisi esistenziale ha ritenuto di dover superare l’Einfühlung jaspersiana,9 la partecipazione empatica, il compiere assieme con l’altro atti che scaturiscono dal centro della persona, e che proprio per questo si sottraggono all’univocità della comprensione intersoggettiva. L’impossibilità di comunicare in modo univoco e universalmente comprensibile è infatti un inconveniente per la scienza, ma non per i due che compartecipano, sottraendosi alla reciproca oggettivazione. Essi si sanno ospitati da una parola che li interpreta, e non oggettivati dalla parola di uno che interpreta l’altro.

3. La convocazione simbolica come principio e fondamento dell’arte ermeneutica

Ma per la psicologia come arte è forse necessario un nuovo linguaggio, dove le parole non sono più segni che rinviano a un quadro di riferimento anticipato che dà loro senso, ma simboli nel senso greco della parola, dove i due sono messi assieme (sym-bállein) dalla parola che li convoca e al tempo stesso li trascende.

A differenza, infatti, del linguaggio scientifico che espone il senso delle cose in un’apertura già dischiusa, il linguaggio simbolico non espone nell’apertura, ma apre l’apertura. L’apertura dischiusa dal linguaggio simbolico non è arbitraria, perché la nuova fondazione è anche riconoscimento di un fondo che sta alla base della fondazione stessa. Il simbolo, allora, non fonda arbitrariamente, ma risponde a quel fondo da cui nasce; quando nomina nuovi sensi, in realtà risponde al loro appello.

Questa risposta non è garantita, almeno nel senso in cui la ragione scientifica promuove le sue garanzie, d’altra parte il luogo dove si annuncia non è presieduto dalla ragione, ma è percorso da quella dimensione che siamo soliti chiamare “follia”, dove l’essenza dell’uomo corre il suo massimo pericolo, dove manca ogni protezione, dove il rischio incombe, dove tutto non è salvaguardato e anticipatamente custodito.

Qui non serve la parola della scienza che calcola e anticipa, ma per usare un’espressione di Heidegger, occorre la parola del “mortale che sa giungere più rapidamente nell’abisso”.10 In questo senso parliamo della psicologia come arte. Se infatti l’abisso (Ab-grund) è mancanza di fondamento (Grund), di terreno solido e sicuro, di protezione, all’abisso non può giungere il pensiero scientifico che anticipa, fonda e assicura, ma solo il pensiero che non si cura (sine cura) delle protezioni, e, proprio per questo, è securus.

Essere senza cura è possibile solo là dove non si fa il calcolo delle protezioni, dove non ci si affida alla loro presenza o alla loro assenza, dove, nel rapporto con le cose, si arrischia un senso che per il pensiero che calcola è “inaudito”, perché sfugge ai calcoli con cui questo pensiero si dispone a “udire” il senso delle cose. Dall’inaudito nasce un linguaggio a cui la ragione scientifica non sa cor-rispondere perché, limitata com’è all’ambito dischiuso dalle proprie anticipazioni, non può che ignorare tutti quei sensi che trascendono le sue previsioni.

Qui occorre il linguaggio simbolico che inaugura una comunicazione che è sconosciuta al linguaggio della ragione. Nell’ordine razionale, infatti, due comunicano perché si scambiano delle parole, nell’ordine simbolico due comunicano perché si scambiano nella parola. È infatti la parola che li con-voca, che li mette assieme (sym-bállein), e, solo perché così convocati, possono poi scambiarsi delle parole. Non queste instaurano il rapporto (Beziehung), ma queste sono possibili perché il rapporto è già instaurato. Ma chi lo instaura, chi convoca, chi mette insieme? La parola che sta nel frammezzo tra i due. In versione ontologica, a proposito del “frammezzo”, Heidegger scrive:

Compenetrandosi, i due passano attraverso una linea mediana. In questa si costituisce la loro unità. Per tale unità sono intimi. La linea mediana è l’intimità. Per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine das Zwischen (il “fra”, il “frammezzo”). La lingua latina dice inter. All’inter latino corrisponde il tedesco unter. Intimità di mondo e cosa non è fusione. L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti. Nella linea che è a mezzo dei due, nel frammezzo di mondo e cosa, nel loro inter, in questo unter, domina lo stacco. L’intimità di mondo e cosa è nello stacco (Schied) del frammezzo, è nella dif-ferenza (Unter-schied).11

Se ci è concesso di tradurre in versione antropologica questa lettura di Heidegger, allora possiamo dire che nel frammezzo (zwischen) i due parlano perché cor-rispondono, sono cioè l’uno risposta all’altro, ma l’evocante li trascende. Infatti le parole rispondono l’uno all’altro solo se corrispondono all’evento che le provoca, e provocandole le chiama, instaurandole una come parola (Wort), l’altra come risposta (Ant-wort).

Se la psicologia accetta di pensarsi come arte ermeneutica, dove non l’uno interpreta l’altro, ma i due sono interpretati dalla parola che li trascende e al tempo stesso li convoca nel rapporto (Beziehung), nel frammezzo (Zwischen), la psicologia è costretta a ripensare i termini in cui finora ha ritenuto si svolgesse la sua specifica comunicazione.

4. L’ermeneutica come dimensione dialogica che risponde
   a un appello che trascende i due dialoganti e li convoca

È un ripensamento che deve avvenire nella direzione della Übertragung. Questa parola di Freud che solo un linguaggio dimentico dell’ulteriorità (über) poteva tradurre con “transfert”, dice che tra i due è possibile “trasferire” qualcosa solo se un über, un oltre, un al di là, rispetto a ciò che i due dicono, li accoglie e consente loro di dire ciò che dicono.

In questo senso Jung dice che: “L’Übertragung è un fenomeno che è impossibile provocare”.12 Infatti non dipende dai due, ma dall’oltre (über) che li pro-voca, li chiama cioè alla reciproca presenza, l’uno di fronte all’altro, non per scambiarsi due parole, ma per ri-portare (über-tragen) la parola che li ha convocati, il simbolo. Il simbolo, infatti, non dice, non enuncia, ma si limita a mostrare una connessione (sym-bállein), o meglio una vicinanza, una prossimità che custodisce una ricchezza di significati non contenuti dalla parola, ma in cui la parola è contenuta.

Questa prossimità, senza la quale il simbolo non sarebbe evocante, non si fonda sul rapporto spazio-temporale che dispone le cose una dopo l’altra, ma sull’originaria apertura di ogni cosa sull’altra. Su questa apertura originaria tempo e spazio non hanno potere perché da essa nascono; l’uno come ciò che temporalizza portando a maturazione e dischiudendo, l’altro come ciò che spazializza dislocando località e luoghi a cui concede l’accesso. Questo gioco si annuncia nell’immagine simbolica, che è tale non quando enuncia un qualche rapporto, ma quando si offre come il rapporto di tutti i rapporti che Heidegger chiama Beziehung e così definisce: “Il rapporto di tutti i rapporti (Beziehung) è il dire originario che imprime l’intero moto al mondo”.13

Appartenendo al rapporto, l’uomo può rapportarsi, può entrare in relazione con l’altro; ma non è questa relazione a instaurare il rapporto, piuttosto questa relazione è possibile perché i due si trovano convocati dalla stessa parola originaria che li rapporta. Per questo, nessuno può incontrare chiunque, ma ciascuno il suo compagno di viaggio, con cui può parlare, perché entrambi ascoltano la stessa parola, rispondono all’identico appello. L’appello, l’invito non è promosso dai due convenuti, ma da quella parola che, al di là (über) di loro, promuove un convegno tra (zwischen) loro.

A questo proposito Jung, in un linguaggio non fenomenologico, ma che trascende il naturalismo psicoanalitico, osserva che:

Un forte transfert di natura violenta corrisponde a un contenuto scottante; racchiude qualcosa di importante che ha un elevato valore per il paziente. Nella misura in cui ciò viene proiettato, l’analista sembra incarnare questa cosa così preziosa e importante. Egli non può introdurre alcun mutamento in questa infelice situazione, ma è costretto a restituire questo valore al paziente, e l’analisi non è conclusa finché il paziente non ha ripristinato il tesoro. Se quindi il paziente proietta su qualcuno un complesso del redentore, occorre restituirgli qualcosa che non sia da meno di un redentore – qualunque cosa ciò possa significare. Non siamo però noi i redentori – questo è sicuro.14

In questa restituzione, in questo ri-porto, si esprime quell’altro senso della Über-tragung che vede la parola impiegata dal linguaggio corrente per designare una “partita riportata”, un “saldo”, una “girata”, una “voltura”, un “riporto”. Restituendo all’altro la sua proiezione, l’uno e l’altro tutelano l’ulteriorità (über) della parola, di cui non sono gli autori, ma gli ospiti. Il loro compito, infatti, non è di dire, ma di tradurre. Per questa ragione, scrive Jung: “Übertragung in tedesco è sinonimo di Übersetzung (traduzione)”.15

“Tra-durre” è condurre tra loro una parola che, se restasse totalmente al di là (über) non consentirebbe ai due di parlare tra loro. Ma affinché tradurre non sia tradire, nessuno dei due deve considerarsi il dicente, e portare l’altro alla sua parola. Über-tragung, infatti, è ri-portare la parola, non sostituirsi alla parola che i due ha convocato.

Se dunque l’Über-tragung conduce dall’uno all’altro, solo perché conduce l’uno e l’altro alla parola simbolica che li trascende e a un tempo li convoca, la comunicazione tra i due non sarà decisa dalle tecniche o dalle rispettive iniziative, ma dall’attesa che la parola simbolica li convochi; un’attesa che non esclude la possibilità che, nel frattempo, entrambi si trovino costretti a tacere.

Il silenzio è inevitabile là dove la comunicazione è risposta a un appello. È un silenzio che può essere interrotto da parole randagie, da digressioni, da giri senza senso, dove il simbolo tace, ma dove anche si preparano le condizioni perché possa eventualmente tornare a parlare. La sua parola, infatti, e non le parole dei due convenuti, è decisiva. I convenuti possono solo veicolarla, darle approssimativa espressione, ma il dicente li trascende. “Non siamo noi i redentori” ci ricorda Jung.

La prassi psicoanalitica, a dispetto della sua teoria e forse anche della sua consapevolezza, già percorre questi sentieri, mentre l’analisi esistenziale, a cui va il merito di aver denunciato il naturalismo della teoria psicoanalitica, guadagnando questo nuovo significato della Übertragung, è nelle condizioni più idonee per proseguire la sua critica a tutte le forme, anche le più raffinate, di oggettivazione.

In questa direzione, che va assolutamente approfondita, mi pare si muovano la riflessione di Mario Trevi sulla “psicologia come discorso della psiche e non come discorso sulla psiche”,16 la nozione di Wirheit o “nostralità” che Danilo Cargnello propone come “nostro continuo incontrarci, accoglierci e riconoscerci, in luogo dell’appropriarsi di un particolare e perciò relativo vero, qual è appunto quello scientifico”,17 e infine il concetto di “metamorfosi, nel senso di una psichiatria dia-logica e non più mono-logica18 che Eugenio Borgna scorge come interna consequenzialità dell’analisi esistenziale.

1 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1888-1889; tr. it Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, Adelphi, Milano 1974, vol. VIII, 3, fr. 15 (51), p. 231.

2 Id., Die Wille zur Macht. Versuch einer Umwertung aller Werte (1906); tr. it. La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori, Bompiani, Milano 1992, fr. 469, p. 265.

3 M. Heidegger, Das Wesen der Sprache (1957-1958); tr. it. L’essenza del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 141.

4 E. Husserl, Logische Untersuchungen (1900-1921); tr. it. Ricerche logiche, il Saggiatore, Milano 1968, pp. 291 sgg.

5 C.G. Jung, Theoretische Überlegungen zum Wesen des Psychischen (1947); tr. it. Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in Opere,Boringhieri, Torino 1969-1993, vol. VIII, p. 240: “La psicologia deve abolirsi come scienza, e proprio abolendosi come scienza raggiunge il suo scopo scientifico. Ogni altra scienza ha un ‘al di fuori’ di se stessa; ma non la psicologia, il cui oggetto è il soggetto di ogni scienza in generale”.

6 E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie (1934-1937, pubblicata nel 1954); tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1972, p. 147.

7 H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode: Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik (1960); tr. it. Verità e metodo. Elementi di un’ermeneutica filosofica, Bompiani, Milano 2000, p. 739. Lo stesso motivo ritorna alle pp. 553 sgg.; 691 sgg.

8 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., fr. 14 (21), p. 19.

9 K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie (1913-1959); tr. it. Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 2000, pp. 69, 122, 329, 620 sgg.

10 M. Heidegger, Wozu Dichter? (1946); tr. it. Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 272.

11 Id., Die Sprache (1950); tr. it. Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 37.

12 C.G. Jung, Die Psychologie der Übertragung erläutert anhand einer alchemistischen Bilderserie (1946); tr. it. La psicologia della traslazione illustrata con l’ausilio di immagini alchemiche, in Opere, cit., vol. XVI, p. 184.

13 M. Heidegger, L’essenza del linguaggio, cit., p. 169.

14 G.G. Jung, Über Grundlagen der analytischen Psychologie (1936); tr. it. Psicologia analitica, Mondadori, Milano 1975, p. 143.

15 Ivi, p. 128.

16 M. Trevi, Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano 1987, p. 111. Scrive Trevi: “Ogni ‘discorso sulla psiche’ si risolve nel ‘discorso della psiche’, ogni ‘psicologia’ nell’inesauribile e dialogica parola dell’uomo, ogni scienza psicologica nella sconfinata foresta di metafore che è il linguaggio umano sorpreso nella sua perenne germinatività”.

17 D. Cargnello, Alterità e alienità, Feltrinelli, Milano 1966, p. 66.

18 E. Borgna, Per una psichiatria fenomenologica, saggio introduttivo a U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 1979, p. 43.