6. La psicologia analitica di Jung

Io non sono un avversario di Freud, anche se la sua miopia e quella dei suoi discepoli mi vuole etichettare in tal senso. [...] A Freud rimprovero di spiegare l’uomo troppo esclusivamente dal punto di vista patologico e alla luce dei suoi difetti. Io miro invece a capire l’uomo in quanto sano, e a liberare anche il malato da quella psicologia che Freud descrive in ogni pagina delle sue opere. [...] Senza dubbio Freud ha fatto molto male a negarsi alla filosofia.

C.G. JUNG, Il contrasto tra Freud e Jung (1929), pp. 358-359.

“Psicologia analitica” è la denominazione della psicologia del profondo elaborata da Jung, che si staccò da una precedente adesione al pensiero psicoanalitico di Freud nel 1912 con l’opera Simboli della trasformazione,1 nella quale Jung prospetta una lettura dell’energia psichica o libido non più limitata alle sole manifestazioni pulsionali come aveva ritenuto Freud, ma estesa anche alle espressioni culturali con finalità creative.

Il simbolo, infatti, che Freud concepiva come semplice segno manifesto di un contenuto latente, viene inteso da Jung come istanza operativa che promuove lo sviluppo e la trasformazione dell’uomo in vista di quel “processo di individuazione” che nel pensiero junghiano sostituisce il concetto di “guarigione”.

1. Il simbolo e il processo di trasformazione

Operando una netta distinzione tra il segno che rinvia a una cosa nota (campanile = fallo; caverna = contenitore materno) e il simbolo che rimanda a qualcosa di fondamentalmente sconosciuto e per il quale non c’è un’espressione razionale adeguata,2 Jung scorge, nella produzione simbolica individuale e collettiva, delle eccedenze di senso, rispetto all’insieme dei significati codificati, che promuovono quelle trasformazioni individuali e collettive in cui si esprime: a livello individuale il senso di ogni biografia, e a livello collettivo il senso della storia.

In questo modo Jung amplia il concetto di “psiche”, lo emancipa dallo sfondo naturalistico in cui Freud l’aveva trattenuto, identificando la psiche con la pulsionalità dell’uomo inteso come organismo biologico, e introduce in questo concetto la nozione di storia che le indagini psicologiche precedenti avevano lasciato fuori dal loro ambito, perché la metodologia delle scienze esatte, a cui tende anche la psicologia, non ne consente il controllo e la verifica in termini di esattezza. Scrive infatti Jung:

Là dove accade che il simbolo offra un gradiente maggiore che non la natura è possibile tradurre la libido in altre forme. La storia della civiltà ha dimostrato a sufficienza che l’uomo possiede una relativa eccedenza di energia suscettibile di essere impiegata in modo diverso dal decorso puramente naturale. Il fatto che il simbolo renda possibile questa deviazione dimostra che non tutta la libido si è fissata in maniera conforme alle leggi di natura, e che ne è rimasto un certo quantum d’energia che potremmo definire eccedenza libidica.3

2. Metodo causale e metodo finalistico

Questa concezione del simbolo, che oltre a operare “la trasformazione dell’energia dalla forma biologica alla forma culturale”,4 esprime un’eccedenza di senso rispetto ai significati individualmente e collettivamente codificati, chiede un mutamento della metodologia interpretativa, e precisamente un passaggio dal metodo causale a quello finalistico, in vista non della spiegazione di un determinato disagio, ma del significato e del senso che quel disagio oscuramente indica. Aggiungere allo sguardo esplicativo, a cui si era limitata la psicoanalisi di Freud, uno sguardo prospettico significa leggere i sintomi delle malattie non solo come “segni” di destrutturazioni da ristrutturare, ma come “simboli” di trasformazioni da effettuare. Infatti, scrive Jung:

La causa rende impossibile ogni sviluppo. Come esatto contrario di ogni evoluzione prospettica, la reductio ad causam blocca la libido ai dati di fatto elementari. Dal punto di vista del razionalismo questo è senz’altro un bene, ma dal punto di vista della psiche è la non vita, è la noia inguaribile. Con ciò non si intende naturalmente negare che per molti uomini la fissazione della libido ai fatti fondamentali è assolutamente necessaria. Ma quando questa esigenza è soddisfatta, la psiche non può ancorarsi in eterno a questo punto, deve continuare a evolversi, e perciò le cause si trasformano per lei in mezzi per raggiungere un fine, in espressioni simboliche di un cammino da percorrere.5

Da questo punto di vista prende avvio una nuova interpretazione dei sintomi, delle fantasie e dei sogni a partire dal principio che:

Quando si ha a che fare con cose psichiche, il chiedersi “Perché si verifica la tal cosa?” non è necessariamente più produttivo che il domandarsi “A che scopo succede?”.6

In gioco è qui il passaggio dall’ordine della spiegazione (Erklärung), presieduta dalle categorie della ragione, all’ordine del senso (Sinn) che dette categorie trascende, essendo l’universo psichico più ampio dell’universo razionale.

3. L’inconscio e le sue figure

Per Jung l’inconscio precede la coscienza come sua radice e non la segue come conseguenza della rimozione; il suo contenuto non è solo il resto del passato, ma esprime anche un progetto d’esistenza e quindi un possibile futuro. Al pari di Freud, Jung non nasconde che l’inconscio è solo un’ipotesi: “Definisco ipotetici i processi inconsci, perché l’inconscio, per definizione, non è accessibile all’osservazione diretta, ma può essere soltanto ‘inferito’”.7 Ma, prosegue Jung: “Sa forse qualcuno un’espressione migliore per una cosa che, in senso moderno, non è stata ancora compresa?”.8

Giustificato l’uso del termine, Jung ne delinea gli approcci metaforici o figure con cui ci è dato rappresentarlo. Essi sono l’anima che, nella sua accezione generica, si riferisce alle caratteristiche interiori dell’uomo non riscontrabili nel suo aspetto esteriore che Jung chiama “persona”, mentre in quella specifica si riferisce alla femminilità inconscia del maschio opposta alla sua virilità conscia. L’anima appare personificata nei sogni sotto forma mitica e in questo caso rivela la sua struttura archetipica di base, oppure come madre, come moglie, come amante, come figlia a seconda della figura femminile da cui è desunta o su cui, nelle varie fasi del processo psichico, si proietta.

Altre figure sono: l’animus che esprime l’elemento maschile inconscio nella donna, nonché la possibilità, per la donna, di connettersi al mondo dello spirito, mentre, nel caso sia eccessivamente invasivo, l’animus rende la donna ostinata, aggressiva, testarda, dominatrice; l’ombra che Jung definisce “la parte negativa della personalità, la somma cioè delle qualità svantaggiose che sono tenute possibilmente nascoste, e anche la somma delle funzioni difettosamente sviluppate e dei contenuti dell’inconscio personale”.9

A queste figure resta da aggiungere la persona, termine che Jung impiega nel significato latino di “maschera”, per descrivere il comportamento che soddisfa le richieste della vita sociale. Questo atteggiamento esteriore è una delle maschere che l’Io, per esigenze sociali, è costretto ad assumere, senza però identificarsi per non perdere se stesso. Jung ha riscontrato e descritto numerosi esempi di complementarità tra “persona” e “anima” la cui polarità è di segno opposto.

Per Jung l’inconscio non contiene solo tracce di esperienze vissute, dimenticate o rimosse, ma anche uno strato più profondo dove è depositato il patrimonio psicologico dell’umanità. A questo strato Jung ha dato il nome di inconscio collettivo, che si distingue dall’inconscio personale perché, scrive Jung:

Mentre l’inconscio personale è formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all’ereditarietà. L’inconscio personale consiste soprattutto in “complessi”, mentre il contenuto dell’inconscio collettivo è formato essenzialmente da “archetipi”. Il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato dell’idea di inconscio collettivo, indica l’esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque. La ricerca mitologica li chiama “motivi”; nella psicologia dei primitivi essi corrispondono al concetto di représentations collectives di Lévy-Bruhl; nel campo della religione comparata sono state definite da Hubert e Mauss “categorie dell’immaginazione”.10

Con l’introduzione dei modelli archetipici Jung mostra di preferire, per la descrizione della psiche, il modello immaginale rispetto al modello freudiano di tipo concettuale. Questo non autorizza a considerare gli archetipi alla stregua di immagini fisse e condizionanti il successivo sviluppo dell’uomo, perché gli archetipi non sono “contenuti”, ma “forme a priori” di apprendimento, disposizioni a fare esperienza in un modo piuttosto che in un altro. Scrive in proposito Jung:

Mi oppongo all’equivoco secondo cui gli archetipi sarebbero contenutisticamente determinati, sarebbero cioè una sorta di rappresentazioni inconsce. Devo perciò ancora una volta sottolineare che essi non sono determinati dal punto di vista del contenuto, bensì soltanto in ciò che concerne la forma, e anche questo in misura assai limitata.11

4. L’asse Io-Sé e il processo di individuazione

Con il termine “Sé” Jung intende il sommo potenziale dell’individuo e l’unità complessiva della personalità. Come principio unificante della psiche, scrive Jung: “Il Sé non è soltanto il centro, ma anche l’intero perimetro che abbraccia coscienza e inconscio insieme; è il centro di questa totalità, così come l’Io è il centro della mente cosciente”.12

Del Sé Jung parla in due accezioni: come momento iniziale della vita psichica e come sua realizzazione e meta. Benché Jung non manchi di sottolineare che si tratta di una forma di approccio alla totalità psichica e non di una formulazione filosofica o teologica, la somiglianza tra la sua ipotesi e le metafore religiose offre una via d’accesso a questa figura e alla dinamica che, a partire da questa figura, si articola come processo di individuazione, che Jung così definisce:

L’individuazione è un compito eroico o tragico, in ogni caso difficilissimo, perché implica un patire, una passione dell’Io, cioè dell’uomo empirico comune, quale è stato finora, a cui accade di essere accolto in una più vasta sfera, e di spogliarsi di quell’ostinata autonomia che si crede libera. Egli patisce, per così dire, la violenza del Sé.13

Come antecedente dell’Io, e quindi del dischiudersi della coscienza razionale, il Sé è l’espressione indifferenziata di tutte le possibilità umane, mitologicamente rappresentata dalla divinità, da cui un giorno l’uomo si è emancipato inaugurando, con la ragione, identità e differenze che gli hanno consentito di uscire dalla notte dell’indifferenziato in cui abita la follia.

Come figura ulteriore rispetto all’ambito circoscritto della coscienza razionale, il Sé rappresenta il riferimento per una nuova ricerca di senso, attraverso il recupero di motivi esistenziali, che a suo tempo sono stati rimossi per un’adeguata costruzione dell’Io, per cui se il Sé che antecede la nascita della coscienza mostra il volto pericoloso della non avvenuta o non riuscita emancipazione dalla follia, il Sé come ampliamento della coscienza rappresenta il luogo da cui si attivano la creatività e, più ampiamente, possibili futuri.

Questa seconda figura del Sé, a livello terapeutico, va attivata nella seconda metà della vita, quando l’Io è abbastanza forte per reggere il confronto con il Sé, e sufficientemente desideroso di nuovi spunti esistenziali per rinnovare la propria esistenza. Questo processo, che Jung chiama di individuazione, non avviene in vista di una “guarigione”, ma in vista del raggiungimento della “propria autenticità”, di ciò che ciascuno “in fondo” propriamente è.

5. Tipologia ed ermeneutica

Il concetto di individuazione non consente di parlare dell’uomo in termini generali, illustrando i meccanismi psicologici di una presunta “natura umana”, perché, per Jung, gli uomini sono fondamentalmente “individui”, e come tali dissimili fra loro nel modo di pensare, di intuire, di sentire e di esperire sé e il mondo.

Nasce da qui l’esigenza di una tipologia dove, dopo la grande distinzione fra introversione ed estroversione, compaiono i tipi psicologici di “pensiero”, “sentimento”, “intuizione” e “sensazione”. Alcune di queste funzioni, in forme diverse da individuo a individuo, sono differenziate e a disposizione dell’Io; altre sono indifferenziate e come tali inconsce.

A Jung non interessa tanto la classificazione che può essere anche mutata, ma la sua utilità in ordine al processo di individuazione, che richiede il riconoscimento e l’accettazione delle funzioni inferiori della personalità, rimaste indifferenziate e arcaiche, per una loro integrazione nella dinamica dell’individuo psicologicamente maturo.

La tipologia, inoltre, pone problemi ermeneutici, nel senso che la qualità tipologica dello psicologo condiziona le sue interpretazioni possibili, e non essendoci un punto di vista superiore che consenta una visione oggettiva della psiche, questa sarà rintracciabile per vie ed erramenti dovuti alla “qualità tipologica” dell’interprete nell’intendere psicologico. Questa “qualità” viene definita: equazione personale, a proposito della quale Jung scrive:

L’equazione personale entra in azione sin dal momento dell’osservazione, giacché si vede ciò che la propria individualità consente di vedere. [...] La tipologia rappresenta uno strumento fondamentale per determinare l’equazione personale dello psicologo pratico, il quale, attraverso un’esatta conoscenza delle sue funzioni differenziate e di quelle meno differenziate, può evitare di commettere non pochi gravi errori nel valutare i suoi pazienti.14

Ponendosi al di fuori di ogni confronto con le altre scienze dell’uomo, perché il suo oggetto di indagine coincide con lo stesso soggetto indagante, la psicologia, a parere di Jung, “deve abolirsi come scienza e, proprio abolendosi, raggiunge il suo scopo scientifico”.15

Questa considerazione apre problemi ermeneutici ed epistemologici che Jung ha indicato, ma non ha approfondito, per il suo continuo oscillare tra il percorso di una psicologia sovrastorica e presuntivamente “oggettiva” e il percorso più avvertito che, non ignorando il “soggettivismo” implicito in ogni ricerca sulla psiche, evita il relativismo, e accetta il paradosso inevitabile del “circolo ermeneutico”.

Detto “circolo” fa riferimento all’appartenenza reciproca del soggetto e dell’oggetto dell’interpretazione, che precede e predetermina qualsiasi atto esplicito di conoscenza, perché il conosciuto è già dentro l’orizzonte del conoscente, e il conoscente è a sua volta dentro il mondo che il conosciuto co-determina. Ne consegue il rifiuto dell’oggettività (che è l’ideale delle scienze positive o esatte), e l’accettazione dei limiti propri dell’interpretazione che caratterizzano le scienze storico-ermeneutiche.

Quando Jung mette tra parentesi la pretesa di costruire una psicologia “oggettiva”, anticipa in psicologia la posizione ermeneutica che Gadamer illustrerà in ambito filosofico, a partire dalla considerazione secondo la quale: “La storicità dell’uomo rivela l’illusorietà dell’ideale illuministico di una comprensione senza pregiudizi, perché i pregiudizi del singolo sono la realtà storica del suo essere”.16

Applicando le considerazioni di Gadamer alla psicologia analitica, Mario Trevi scrive:

La “psicologia” come scienza si pone al di fuori di ogni confronto con le altre scienze dell’uomo (e comunque distante da ogni scienza della natura), appunto perché il suo oggetto di indagine coincide con lo stesso soggetto indagante e ogni tentativo di “porsi al di fuori” di quest’ultimo porta inevitabilmente le stimmate della soggettività. Il “testo” che lo psicologo si propone di indagare, la psiche nella sua sconfinata fenomenologia, non può essere colto in un’immobile e atemporale oggettività, ma sempre attraverso quell’orizzonte dischiuso dal soggetto nel momento in cui su quel testo si ripiega.17

6. Gli sviluppi della psicologia analitica

Dopo Jung la psicologia analitica ha percorso due itinerari che si scostano dallo junghismo classico: l’itinerario “archetipico” di Erich Neumann e di James Hillman, e quello “ermeneutico-epistemologico” di Mario Trevi.

a) L’itinerario archetipico trova in Neumann la seguente giustificazione:

Nello sviluppo ontogenetico la coscienza egoica dell’individuo deve percorrere i medesimi stadi archetipici che hanno determinato lo sviluppo della coscienza all’interno dell’umanità. Nella propria vita il singolo ricalca le orme che l’umanità ha calcato prima di lui. Noi intendiamo mostrare che quell’evoluzione ha lasciato le sue tracce sedimentate nella serie delle immagini archetipiche della mitologia. Normalmente gli stadi archetipici vengono attraversati senza disturbi e lo sviluppo della coscienza procede in essi in maniera altrettanto ovvia e simile a quella dello sviluppo fisico attraverso gli stadi della maturazione corporea. Gli archetipi, quali organi della struttura psichica, intervengono in maniera autonoma, esattamente come gli organi fisici, e determinano la maturazione della personalità in maniera analoga alle componenti biologico-ormonali della costituzione.18

Nell’archetipo Neumann distingue:

1) Una dinamica che si estrinseca nel fatto che l’archetipo determina, in modo inconscio ma regolare e indipendente dall’esperienza dell’individuo, il comportamento umano. Diceva infatti Jung che “Come condizioni a priori, gli archetipi rappresentano il caso psichico del pattern of behaviour o modello di comportamento, familiare al biologo che presta a ogni essere vivente il suo modo specifico”. Questa componente dinamica dell’inconscio ha per l’individuo, che da essa viene diretto, un carattere cogente ed è sempre accompagnata da una forte componente emotiva. [...]
2) Un simbolismo che consiste nella forma in cui l’archetipo si manifesta in specifiche immagini psichiche che vengono percepite dalla coscienza e sono diverse per ogni archetipo. [...]
3) Un contenuto che è il senso racchiuso in esso che si concreta in un’immagine archetipica che può essere elaborata o assimilata dalla coscienza. [...]
4) Una struttura che è il modo in cui dinamica, simbolismo e contenuto di senso si organizzano fra loro.19

Dal canto suo Hillman, dopo aver segnalato che “la tradizione filosofica occidentale ha mantenuto un pregiudizio contro le immagini, preferendo loro le astrazioni del pensiero”,20 chiede un rovesciamento della tendenza, anche in considerazione del fatto che “l’istinto agisce e nello stesso tempo forma un’immagine della sua azione”.21 E poiché, prosegue Hillman:

Il linguaggio onirico, il linguaggio delirante e allucinatorio, il linguaggio popolare parlano in termini di persone, lo stesso deve fare una psicologia che voglia parlare alla psiche in quello che è il suo vero discorso.22

Partendo da queste premesse, Hillman fonda una psicologia archetipica, dove il linguaggio adottato è quello mitologico e dove gli archetipi diventano dei modelli originari in cui, in un certo senso, è prescritta la vicenda psicologica di ognuno di noi. Scrive infatti Hillman:

Tutti gli eventi nel regno dell’anima, cioè tutti gli eventi e i comportamenti psicologici, hanno una somiglianza, una corrispondenza, un’analogia con un modello archetipico. Le nostre vite seguono figure mitiche; noi agiamo, pensiamo, sentiamo soltanto come ce lo consentono i modelli primari stabiliti nel mondo immaginale. Le nostre vite psicologiche sono mimetiche dei miti. Come nota Proclo, i fenomeni secondari (le nostre esperienze personali) possono essere ricondotti a un terreno primordiale, con il quale entrano in risonanza e a cui appartengono. Il compito della psicologia archetipica, e della terapia che ne deriva, è quello di scoprire il modello archetipico delle forme di comportamento. L’ipotesi è sempre che ogni cosa ha un aggancio da qualche parte; tutte le forme di psicopatologia hanno il loro substrato mitico e appartengono ai miti, o in essi hanno la loro dimora. Inoltre, la psicopatologia è essa stessa un mezzo per essere influenzati dal mito o per entrare nel mito.23

Le immagini espresse dagli archetipi, che hanno la loro descrizione nei miti, non devono essere interpretate con un linguaggio a esse estraneo, come potrebbe essere quello della psichiatria e della psicopatologia, perché il mito è il modo specifico di narrarsi dell’“anima” che non può essere distorto dalla sovrapposizione di un linguaggio concettuale a esso estraneo. Infatti, scrive Hillman:

La psiche, avendo un regno suo, ha anche una sua logica, la psicologia, che non è una scienza di cose fisiche, né una metafisica di cose spirituali. A questo regno appartengono anche le patologie psicologiche. Avvicinarsi a esse dall’uno o dall’altro lato, cioè vederle in termini di malattia medica o di sofferenza, peccato e salvezza religiosi, manca il bersaglio dell’anima.24

Per questo è necessario “spodestare l’Io” che, con la sua armatura concettuale, è sempre vigile sui processi psichici che distorce con la sua nomenclatura, per aprirsi all’anima, intesa come una “messa in scena di archetipi”, che i miti descrivono con quel linguaggio immaginale che è proprio dell’anima.

Ciò consente di eliminare quelle che per Hillman sono malattie indotte dal linguaggio psicologico che, rendendo sterili le metafore dell’anima e trasformandole in astrazioni utili a formulare categorie diagnostiche, “distorce la psiche e crea il convincimento che in essa vi è qualcosa di sbagliato”, aggiungendo in questo modo, alla sua sofferenza, “la visione malata che essa ha di se stessa per effetto delle categorie psicologiche impiegate”.25

b) L’itinerario ermeneutico-epistemologico ha in Mario Trevi il suo maggiore esponente che critica l’impostazione archetipica della psicologia analitica con questo argomento:

Se gli archetipi sono quegli invarianti metastorici e universali dell’immaginazione – ma inevitabilmente anche del pensiero e dell’agire umano – di natura formale e non contenutistica in cui, dopo innumerevoli tentennamenti, Jung stesso sembra configurarli, allora essi rappresentano quel cosmo immutabile che, insediato nel più profondo dell’inconscio, dovrebbe rendere ragione dell’uniformità occultata nell’infinita varianza della cultura.
Come tali essi sono “ipostasi” molto prossime a quelle della metafisica religiosa, e noi non riusciamo a comprendere come l’uomo, nel suo perenne trascorrere culturale, possa attingerli e, anche solo sommariamente, descriverli. In ogni caso essi rappresenterebbero il cardine inamovibile del divenire psichico o la ragione di una presunta costanza sottesa a questo divenire. [...]
E in effetti l’archetipo, pur nella sua discendenza platonica, ancorando l’uomo all’immutabile, lo riporta alla natura, e nella natura lo sommerge e ne abolisce irrimediabilmente l’eccezionalità.26

Rifiutata la psicologia archetipica, Trevi inaugura la distinzione tra psicologia e considerazione psicologica per risolvere il problema dell’oggettività e della soggettività nella costruzione del sapere psicologico. A questo proposito, scrive Trevi:

Il modulo costruttivo della “psicologia” porta inevitabilmente ad assolutizzare un’ipotesi e a organizzare appunto una descrizione oggettiva della psiche, un discorso conclusivo “sulla” psiche, una “teoria” e infine, come si vedrà, un tessuto dogmatico. Il modulo costruttivo della “considerazione psicologica” porta invece verso l’enunciazione di procedimenti epistemologici sempre più scaltri e sottili e a quella cautela metodologica che potrebbe andare sotto il nome di arte ermeneutica o esercizio inesauribile dell’interpretazione. Il primo modulo costruttivo conduce all’esclusione delle altre “psicologie” oppure, inavvertitamente, a un sincretismo acritico. Il secondo modulo costruttivo conduce al dialogo dei punti prospettici e perciò stesso delle “psicologie”, tutte “vere” purché coerenti alle loro premesse, alle loro scelte di “imputazione causale” e tutte relative, storicamente, psicologicamente ed esistenzialmente condizionate. Il modulo costruttivo della “psicologia” elabora un modello e lo universalizza, il modulo costruttivo della “considerazione psicologica” tende all’elaborazione della dialogicità aperta dei modelli possibili. Infine l’uno tende al logos psicologico, l’altro al dialogo.27

1 Quest’opera fu pubblicata da C.G. Jung nel 1912 con il titolo Wandlungen und Symbole der Libido, Deutlicke Verlag, Leipzig, Wien, e nel 1952 (quarta edizione) con il titolo Symbole der Wandlung. Analyse des Vorspiels zu einer Schizophrenie, Rascher Verlag, Zürich. La traduzione italiana, condotta sulla quarta edizione, si intitola: Simboli della trasformazione, in Opere, Boringhieri, Torino 1969-1993, vol. V.

2 Per un approfondimento di questo tema si veda U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo (1984), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 5: “Il gioco dei segni e il conflitto dei simboli”.

3 C.G. Jung, Über die Energetik der Seele (1928); tr. it. Energetica psichica, in Opere, cit., vol. VIII, pp. 56-57.

4 Ivi, p. 70.

5 Ivi, pp. 32-33.

6 Id., Vom Wesen der Träume (1945-1948); tr. it. L’essenza dei sogni, in Opere, cit., vol. VIII, p. 303.

7 Id., Die Psychologie der Übertragung (1946); tr. it. La psicologia della traslazione, in Opere, cit., vol. XVI, p. 182.

8 Id., Versuch zu einer psychologischen Deutung des Trinitätsdogmas (1942-1948); tr. it. Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, in Opere, cit., vol. XI, p. 184.

9 Id., Über die Psychologie des Unbewussten (1917-1943); tr. it. Psicologia dell’inconscio, in Opere, cit., vol. VII, p. 67.

10 Id., Der Begriff des kollektiven Unbewussten (1936); tr. it. Il concetto di inconscio collettivo, in Opere, vol. IX, 1, p. 43. Le opere a cui Jung fa riferimento sono: L. Lévy-Bruhl, Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures (1910); tr. it. Psiche e società primitive, Newton Compton, Roma 1970; H. Hubert, M. Mauss, Mélanges d’histoire des religions, in “Travaux de l’Année sociologique”, Paris 1909.

11 C.G. Jung, Il concetto di inconscio collettivo, cit., p. 81.

12 Id., Psychologie und Alchemie (1944); tr. it. Psicologia e alchimia, in Opere, cit., vol. XII, p. 444.

13 Id., Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, cit., p. 156. A proposito di questo tema si veda U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo, cit., capitolo 15: “La violenza del Sé e la passione dell’Io”.

14 Id., Psychologische Typen (1921); tr. it. Tipi psicologici, in Opere, cit., vol. VI, pp. 21, 558.

15 Id., Theoretische Überlegungen zum Wesen des Psychischen (1947-1954); tr. it. Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in Opere, cit., vol. VIII, p. 240.

16 H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode (1960); tr. it. Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000, p. 318.

17 M. Trevi, Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano 1987, p. 16.

18 E. Neumann, Ursprungsgeschichte des Bewusstsein (1949); tr. it. Storia del-le origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1981, pp. 13-14.

19 Id., Die grosse Mutter (1956); tr. it. La grande madre, Astrolabio, Roma 1981, pp. 15-16. La citazione di C.G. Jung, riportata da Neumann, si trova nel Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, cit., p. 149.

20 J. Hillman, An Essay on Pan (1972); tr. it. Saggio su Pan, Adelphi, Milano 1977, p. 55.

21 Ivi, p. 62.

22 Ivi, p. 57.

23 Id., Photos. La nostalgia del puer æternus, in AA.VV., Dopo Jung, Franco Angeli, Milano 1980, p. 124.

24 Id., Re-visioning Psychology (1975); tr. it. Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano 1983, p. 132.

25 Id., The Myth of Analysis (1972); tr. it. Il mito dell’analisi, Adelphi, Milano 1979, p. 16.

26 M. Trevi, Per uno junghismo critico, cit., pp. 100-101.

27 Ivi, p. 93.