22. La condizione tragica dell’esistenza
Generazione di uomini, vi conto una dopo l’altra, tutte uguali, tutte viventi nel nulla. Quale uomo ottiene più che l’illusione della felicità? E dopo l’illusione viene il declino. Abbiamo davanti a noi l’esempio del tuo destino, infelicissimo Edipo, e dunque non diremo felice nessuno degli uomini.
SOFOCLE, Edipo re, vv. 1186-1195.
1. La concezione giudaico-cristiana della natura come terra da dominare
Ospiti come siamo della tradizione giudaico-critiana, pensiamo che l’uomo abbia il potere, se non addirittura il dovere, di dominare la natura. Questa tradizione, infatti, pensa la natura come l’effetto di una volontà, della volontà di Dio che l’ha creata e dell’uomo a cui è stata consegnata:
Poi Iddio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e su gli uccelli del cielo, su gli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie”.1
Così concepita, la natura non è più, come pensavano i Greci, espressione dell’ordine immutabile della necessità, ma dominio di una volontà. Il suo significato non è più cosmologico, ma antropo-teologico. Per ordine divino, essa dipende dall’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio.
Questa visione del mondo comporta che l’indagine sulla natura non ha più in vista la conoscenza delle sue leggi immutabili, a cui si rivolgeva la theoría greca, ma le intenzioni della progettualità umana che, come vuole il programma baconiano, “scientia est potentia”,2 conosce per dominare.
Di fatto la scienza moderna che Bacone inaugura, ai suoi albori di poco differisce, quanto a efficacia, dalla scienza elaborata nell’antica Grecia, ma radicalmente nuova è la qualità dello sguardo che, in vista dell’instaurazione del regnum hominis, trasforma la natura, che i Greci concepivano come phýsis, ossia come originaria manifestazione dell’essere, in fisica, espressa dalle figure della quantità, dell’estensione, della forza e del numero, che hanno nel progetto matematico della mente umana la loro anticipata comprensione.3 Ciò rende possibile quella manipolazione e quel dominio della natura nelle cui leggi Bacone e Galilei scorgono l’impronta di Dio, e nella loro scoperta le condizioni del riscatto umano.4
All’ordine cosmologico immutabile e astorico, quale era stato concepito dalla cultura greca, la cultura giudaico-cristiana sostituisce un ordine antropocentrico, in cui la natura è risolta in puro materiale da utilizzare al di fuori di qualsiasi considerazione etica. Tutto ciò non è solo un dato di fatto che il successo tecnico-scientifico porta a legittimare, ma dalle posizioni filosofiche viene teorizzato, a riprova che la pre-comprensione di origine giudaico-cristiana della natura condiziona anticipatamente anche i sistemi filosofici che presumono di esserne immuni.
2. La concezione greca della natura come terra da abitare
A differenza della concezione giudaico-cristiana, la cultura greca concepisce la natura come quell’ordine immutabile che nessuna azione umana può violare perché, come dice un frammento di Eraclito:
Questo cosmo, che è di fronte a noi e che è lo stesso per tutti, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure.5
Avendo in sé la sua norma, vincolata dal sigillo della necessità (anánke), la natura era, per il Greco, quell’orizzonte inotrepassabile, quel limite insuperabile a cui l’azione umana doveva piegarsi come alla suprema legge. Lo stesso Prometeo, l’inventore delle tecniche, non esita a riconoscere che: “La tecnica è di gran lunga più debole della necessità (téchne d’anánkes asthenestéra makrôi)”.6
L’impossibilità di dominare la natura inscrive sia il fare tecnico, sia l’agire politico nell’ordine immutabile della natura, che l’uomo non può dominare, ma solo svelare. Nasce da qui la concezione greca della verità come svelamento (a-létheia) della natura (phýsis), dalla cui contemplazione (theoría) nascono le conoscenze che regolano l’agire e il fare umano.
Il primato della teoria sulla prassi deriva proprio dalla consapevolezza che non si dà corretta azione tecnica o etica se non riconoscendo le leggi immutabili che presiedono la regolarità dei movimenti della natura, che l’azione umana non può modificare, non tanto per la modestia delle disponibilità tecniche, quanto perché se la natura è pensata come immutabile, per ciò stesso non è assoggettabile.
All’interno di questa concezione saranno l’etica e la tecnica a scrutare l’ordine della natura per reperire le regole del “retto agire” e del “retto fare”. Per questo la natura non rientra nelle responsabilità etiche dell’uomo, perché l’uomo non è misura, ma è misurato dall’ordine cosmico, in cui si esprime quel Lógos a cui le leggi degli uomini dovranno ispirarsi. In proposito Platone è chiarissimo:
Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell’universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica.7
Nella cosmologia greca la tecnica è inscritta nel registro della verità, pensata non come dominio sulla natura, ma come suo svelamento. La natura e il sigillo della necessità che la presiede non consentono alla tecnica di oltrepassare il suo limite che resta inscritto nell’ambito dei processi naturali, e al tempo di configurarsi come storia del progressivo dominio della natura.
Per questo la tecnica non era inquietante, perché non era capace di oltrepassare l’ordine della natura che il pensiero mitico e filosofico ponevano sotto il sigillo della necessità. Questa era più forte sia della tecnica divina di Zeus che incatena Prometeo servendosi degli strumenti di Efesto, sia della tecnica umana che Prometeo aveva donato ai mortali per sollevarli dalla loro condizione indifesa.
È vero che la violazione della natura e l’emancipazione dell’uomo nella sua differenza dalla condizione animale vanno di pari passo, e che la figura dell’Inquietante, un misto di meraviglia e di angoscia, si affaccia al pensiero tragico: “Molte sono le cose inquietanti (deinà), ma nessuna più dell’uomo (deinóteros)”,8 ma l’inquietudine provocata dal progresso tecnico è insignificante rispetto all’inquietudine della morte, a cui l’uomo soggiace nell’ordine della necessità. Si tratta della stessa necessità che da un lato decreta la morte del mortale e dall’altro lo protegge garantendo, contro le sue incursioni tecniche, l’inviolabilità della natura “grandissima, instancabile, immortale”.9
La necessità che garantisce l’immutabilità della natura è figurata, nell’Antigone di Sofocle, dalla quiete del mare che si ricompone alle spalle dell’imbarcazione che ha osato sfidarla, dalla fecondità della terra che, non sfibrata, rimargina il solco dell’aratro che l’ha percorsa, dal cielo che, non trafitto dalle armi della caccia, continua a ospitare “gli uccelli spensierati”.10
L’uomo, il “signore delle tecniche (mechanóen téchnas)”,11 per “quanto domini con i suoi espedienti le bestie selvagge dei monti, il cavallo dalla folta criniera, il toro gagliardo piegandolo sotto il giogo”,12 non riesce a dominare la natura, ma da questa è costretto a difendersi, circondando la propria comunità con solide mura che ritagliano, nel grande regno della natura, il piccolo regno dell’uomo.
Nella città antica, sorta per difendersi e non per espandersi, l’uomo dispiega le sue tecniche, regolate da quella tecnica superiore che è la tecnica politica. Le leggi (nómoi) che la governano sono il riflesso della grande Legge (Nómos) che governa la regolarità della natura. L’ordine che vi regna imita l’ordine cosmico e il disordine che può generarsi è perituro, come perituro è il destino dell’uomo, secondo necessità.
3. Innocenza e crudeltà della natura: l’essenza del tragico
Sotto il sigillo della necessità la natura mostra il suo ciclo crudele e innocente di vita e di morte, dove l’una è concessa a condizione che l’altra accada. La morte, infatti, è un destino che tocca i viventi perché altre vite possano vivere. Come momento di scansione del ritmo della vita, la morte è naturale quanto la vita stessa. Ciò non significa che ogni vivente, e in particolare l’uomo, si consegni rassegnato alla morte. In quanto espressione di vita, ogni vivente resiste, per quanto può, alla morte e pretende per sé la pienezza del vivere.
In questo senso in ogni vita è rintracciabile una lotta per vivere, un conatus, direbbe Spinoza,13 una volontà di potenza, come dice Nietzsche,14 dove la “volontà” non è una decisione che procede da un’intenzione, ma fa tutt’uno con la potenza, qui intesa come capacità e forza di vivere, come disposizione originaria inscritta nella natura dei viventi. In questo senso, scrive Nietzsche: “Tutto ciò che avviene in base a intenzioni si può ridurre all’intenzione di aumentare la potenza”.15 Salvatore Natoli, che meglio di altri ha colto nella crudeltà innocente della natura la condizione tragica dell’uomo, scrive:
Si tratta di una crudeltà che non è mai delitto, poiché ogni distruzione è generazione e la natura crea nel travaglio. Soprattutto la natura dissipa perché qualcosa di riuscito nasca, e ciò che riesce è frutto di una selezione inavvertita, di un caso. Ma c’è di più. Di ciò che riesce non si può mai dire che sia il meglio di quello che sarebbe potuto accadere e, per converso, ciò che fallisce non ha perciò stesso minore valore di ciò che è riuscito. Il successo non ratifica la bontà di un evento, allo stesso modo in cui il fallimento non è un’obiezione contro quello che sarebbe potuto accadere.16
La natura spreca senza rimpianto. Ciò che deve perire non può essere salvato, perché altre vite urgono. La natura non indugia su ciò che muore, ma sulla bellezza di ciò che vive anche se non dura. È vero, questa bellezza scaturisce da uno sterminato dolore, perché quello che vive deve la sua vita a molte morti; ma siccome questa crudeltà è condizione di vita, la crudeltà, la morte, il dolore non sono per i Greci un’obiezione alla vita, non sono, come per la tradizione giudaico-cristiana, qualcosa di collegato a una colpa originaria, e perciò non cadono sotto il dominio della morale, ma mantengono la loro innocenza.
In quanto innocente, la crudeltà della natura, di cui sofferenza e morte sono espressioni, non ha bisogno di una redenzione, di un altro mondo che riscatti questo mondo. Per questo il Greco non chiede la vita eterna, e, per aver preso sul serio la sua mortalità inscritta nella legge di natura, chiede una vita lunga e il più possibile felice.
La morte non ha quindi per il Greco un effetto malinconico-depressivo, perché che la natura faccia nascere per morire non è un inganno, come invece pensavano i romantici, Schopenhauer17 e Leopardi18 sopra tutti, ma una necessità all’interno della quale ogni vivente si attiva per procrastinare la sua vita, o comunque per viverla in tutta la sua pienezza.
Sottoposto al fato, al “già detto”, come vuole il significato della parola fatum, l’uomo ha anche la possibilità di giocarsi il suo destino attraverso la vita che condiziona il suo futuro. Il messaggio dell’oracolo di Delfi, “Conosci te stesso (gnôthi seautón)”19 , infatti, non ha tanto una valenza psicologica, quanto il significato di un invito a prendere consapevolezza che il destino non è solo qualcosa che proviene dall’esterno, ma anche qualcosa che l’uomo si costruisce nella modalità di condurre la sua vita, per cui il modo in cui abbiamo vissuto “destina” il nostro futuro. Ciò significa che l’uomo è sì sottoposto al destino a cui la natura destina ogni vivente, ma, all’interno di questo destino, c’è per l’uomo uno spazio espressivo.
Ma proprio in questo spazio si fa evidente in tutta la sua crudeltà l’essenza del tragico. Guardata infatti dal punto di vista dell’individuo, la vita appare vivibile solo come apertura al senso, un’apertura che però non può nascondersi la morte che è l’implosione di ogni senso. Sileno, il satiro che ha educato Dioniso, dopo aver illustrato a re Mida il carattere illusorio di ogni esistenza individuale, esce in quel suo grido che Nietzsche riporta ne La nascita della tragedia:
Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non esser nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per tè è – morire presto.20
La sentenza di Sileno sposta in modo radicale l’orizzonte e la prospettiva. Lo sguardo non è più dall’individuo verso l’apertura del suo senso, ma dalla natura che, senza senso e senza scopo, guarda agli individui come a sue creazioni. Questo rapido mutamento di prospettiva ci introduce nella sapienza di Dioniso, libera da ogni visione antropomorfica dell’esistenza, e afferma la vita come flusso che divora continuamente le sue forme, come potenza che ne foggia di sempre nuove, senza fedeltà e senza memoria. Infatti, come ci ricorda Giorgio Colli:
Dioniso è il dio della contraddizione, di tutte le contraddizioni [...]È vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, gioco e violenza.21
Ma soprattutto Dioniso è un animale e un dio, manifestando così i punti terminali delle opposizioni che l’uomo porta in sé, e lasciando sospettare tra questi estremi una sotterranea parentela. Per questo l’orgia dionisiaca non si esaurisce nello scatenamento animale delle pulsioni, ma ospita stati contemplativi, trasfigurazioni, e-stasi nel significato letterale della parola che rimanda a chi è fuori di sé, perché è sempre al di là di sé. Richiamo alla definizione nietzscheana dell’uomo come “animale non stabilizzato (das noch nicht festgestellte Tier)”.22
L’esistenza individuale, che la memoria di sé ha generato, quando è percorsa dalla visione dionisiaca, percepisce se stessa come illusione e mera apparenza perché, scrive Nietzsche:
Al mistico grido di giubilo di Dioniso, la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose.23
Il tragico coglie il fondo originario perché spezza la catena dell’individuazione, e così facendo sperimenta ogni individuazione come apparenza. Ma, innanzi alla labilità delle apparenze, il Greco non rinuncia alla vita come invitava il grido di Sileno, perché scopre nell’insensata crudeltà della natura la sua assoluta vitalità, di cui anche l’esistenza individuale è innocente espressione.
L’ottimismo dei Greci prende avvio dal punto più basso della parabola pessimistica: dalla dissoluzione di ogni forma individuale all’esaltazione della vita, che il Greco sa trasformare in figure eternizzanti, ove non vige l’angoscia del perire, il terrore della morte e della caduta di ogni senso. Nasce così “la montagna incantata dell’Olimpo” come illusione, come maschera che serve a sopportare l’esistenza, colta nella sua essenza dalla sapienza dionisiaca. Scrive in proposito Nietzsche:
Ora si apre a noi per così dire la montagna incantata dell’Olimpo e ci mostra le sue radici. Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l’avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi – fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi. [...] Nel mondo olimpico, la “volontà” ellenica si pose di fronte a uno specchio trasfiguratore. Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi – la sola teodicea soddisfacente.24
La funzione degli dèi dell’Olimpo è di proteggere il Greco dalla lucida penetrazione dionisiaca dell’essenza tragica dell’esistenza. Così simili agli uomini, essi li rispecchiano, ma sotto la forma dell’eterno. Che qualcosa possa permanere, e quindi sottrarsi al carattere effimero e caduco dell’esistenza è la prima illusione che i Greci dovettero inventare per poter vivere.
Questa immedesimazione nel desiderio eterno di sé che il dio riflette sarà l’origine prima dell’arte poetica e scultorea dell’antica Grecia, ma anche il monito che gli uomini non sono dèi e che, nella distanza che separa i mortali dagli immortali, l’uomo deve trovare la sua giusta misura.
1 Genesi, 1, 26.
2 F. Bacone, Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum (1620); tr. it. La grande instaurazione, Parte seconda: Nuovo organo, in Scritti filosofici, Utet, Torino 1986, I, 3, p. 552.
3 Per un approfondimento di questa tematica si veda U. Galimberti, Il tramondo dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers (1975-1984), Feltrinelli, Milano 2005, Parte VIII: “La matematicità del pensiero moderno e la fondazione dell’umanismo”.
4 Si veda in proposito Id., Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, capitolo 33: “L’epoca moderna e il primato della scienza e della tecnica come deriva teologica”.
5 Eraclito, fr. B 30.
6 Eschilo, Prometeo incatenato, in Tragedie e frammenti, Utet, Torino 1987, v. 514.
7 Platone, Leggi, Libro X, 903 c.
8 Sofocle, Antigone, in Tragedie e frammenti, Utet, Torino 1982, vol. I, vv. 332-333.
9 Ivi, v. 338.
10 Ivi, vv. 332-343.
11 Ivi, vv. 365-366.
12 Ivi, vv. 349-352.
13 B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata (1665, edita postuma nel 1677); tr. it. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Boringhieri, Torino 1959, Parte III, pp. 140-141, Proposizione 6: “Ogni cosa, per quanto è in essa, si sforza di perseverare nel suo essere”. Proposizione 7: “Lo sforzo (conatus), con cui ogni cosa tende a perseverare nel suo essere, non è altro che l’essenza attuale della cosa stessa”. Proposizione 9: “Questo sforzo, se lo si riferisce alla sola mente, si chiama volontà; se invece lo si riferisce insieme alla mente e al corpo, si chiama appetito, che dunque non è altro che la stessa essenza dell’uomo”.
14 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1888-1889; tr. it. Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, Adelphi, Milano 1974, vol. VIII, 3, fr. 14 (21), p. 90: “La mia teoria è questa: la volontà di potenza è la forma primitiva dell’affetto, e tutti gli affetti sono soltanto sue configurazioni. Un’importante chiarificazione risulta dal mettere la potenza al posto della felicità’ individuale alla quale tenderebbe ogni essere vivente: ‘si aspira alla potenza, a un aumento di potenza’. Il piacere è solo un sintomo del sentire la potenza raggiunta, la consapevolezza di una differenza. Non si aspira al piacere, bensì il piacere sopravviene quando si raggiunge ciò a cui si tende: il piacere accompagna, non muove. Ogni forza propulsiva è volontà di potenza, e all’infuori di questa non c’è una forza fisica, dinamica o psichica”.
15 Id., Nachgelassene Fragmente 1885-1887; tr. it. Frammenti postumi 1885-1887, in Opere, cit., 1975, vol. VIII, 1, fr. 2 (88), p. 93.
16 S. Natoli, I nuovi pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, il Saggiatore, Milano 1995, p. 66.
17 A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819); tr. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano 1969, Libro IV, § 57, pp. 352-353: “Bisogna infine che la morte trionfi, poiché siamo divenuti sua preda per il solo fatto di essere nati. La morte si permette un momento di giocare con la sua preda, ma non aspetta che l’ora di divorarla. Rimaniamo nondimeno affezionati alla vita, e spendiamo ogni cura per prolungarla quanto possiamo; proprio come chi si sforza di gonfiare quanto più e quanto più a lungo una bolla di sapone, pur sapendola destinata a scoppiare. [...] Dunque la vita oscilla, come un pendolo, tra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali, donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo aver ricacciati nell’inferno dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo, niente all’infuori della noia”.
18 G. Leopardi, A Silvia (1828), in Canti di Giacomo Leopardi commentati da lui stesso, Remo Sandron, Napoli 1917, vv. 36-39: “O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?”
19 Platone, Protagora, 343 b. Questo motivo ritorna più volte nei dialoghi platonici, e precisamente nel Filebo, 48 c, nel Fedro, 229 a, nell’Alcibiade maggiore, 124 a, nel Carmide, 164 d, nelle Leggi, Libro XI, 923 a.
20 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, cit., 1972, vol. III, 1, § 3, pp. 31-32.
21 G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano 1977, vol. I, p. 21.
22 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft (1886); tr. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in Opere, cit., 1972, vol. VI, 2, § 62, p. 68.
23 Id., La nascita della tragedia dallo spirito della musica, cit., § 16, p. 105.
24 Ivi, § 3, pp. 32-33.