10. La polisemia del simbolo nella concezione di Jung

A mio modo di vedere il concetto di simbolo va rigorosamente distinto dal concetto di segno. Significato simbolico e significato semiotico sono cose completamente diverse.

C.G. JUNG, Tipi psicologici (1921), p. 483.

La parola simbolo in Jung non ha un andamento tranquillo, il suo incedere è mosso, variegato, oscillante, fino alle soglie dell’equivoco, dove un senso si ribalta in un altro senso, generando scenari insospettati che risulta difficile comporre. Se procediamo con gli strumenti della semiotica, che ai tempi di Jung muoveva i primi passi, potremmo distinguere nei testi junghiani almeno tre accezioni di questo termine: a) il simbolo come antecedente dei segni, b) il simbolo come azione che compone i distanti, c) il simbolo come eccedenza di senso e quindi come trascendenza.

1. Il simbolo come antecedente dei segni

In questa accezione il simbolo si colloca là dove prende avvio la coscienza umana nel suo emanciparsi da quella condizione animale o divina che l’umanità ha sempre avvertito come suo sfondo, e da cui, pur sapendosi in qualche modo uscita, ancora si difende temendone la sempre possibile irruzione. Si tratta dell’irruzione della follia, intesa non come il contrario della ragione (Freud), ma come ciò che precede la stessa distinzione tra ragione e follia.

Questo spazio, irrispettoso delle differenze che la ragione ha faticosamente guadagnato, si offre indifferenziato, e perciò carico di quell’aspetto minaccioso che non distingue e non separa (dia-bállein), ma tutto mantiene in quella contrazione simbolica (sym-bállein) così poco rassicurante che gli uomini, non potendola eliminare, hanno espulso in quella sfera non-umana che è il mondo degli elementi naturali, degli animali, degli dèi, del sacro. Passare dall’inconscio al simbolo non significa allora passare da una nominazione all’altra, ma trasferirsi dalla descrizione che la ragione fa della follia all’esposizione della ragione alla follia.1

È questo un passaggio che la psicoanalisi non ha ancora compiuto, perché ancora non ha compreso che il simbolo non è un segno che sta per un significato (un “campanile” che sta per “fallo”, una “caverna” che sta per “contenitore materno”), ma è l’abolizione di tutti i segni che la ragione ha inaugurato per orientarsi nel mondo.

A questa contrazione simbolica, che mette assieme (sym-bállein) tutto ciò che la ragione distingue (dia-bállein), non si accede tramite una descrizione dell’inconscio secondo le linee della ragione, ma attraverso quello che per Nietzsche è “lo scatenamento totale di tutte le capacità simboliche”, per comprendere le quali “l’uomo deve essere già giunto a quel vertice di alienazione di sé che in quelle capacità vuole esprimersi simbolicamente”.2

Ma per questo occorre uscire dalla buona educazione dell’inconscio che si servirebbe dei simboli solo per ragioni di censura e di pudore. Il simbolo è ciò che la ragione avverte come sua implosione, è ciò che gli uomini hanno sempre trasferito al di là dell’umano perché, se restasse al di qua, non consentirebbe il dispiegamento di quell’ordine a cui, in tutte le mitologie, le divinità si sottraggono. Due frammenti di Eraclito tracciano netto il confine: “L’uomo ritiene giusta una cosa, ingiusta l’altra; mentre per il dio tutto è buono, bello e giusto”.3

Incapace di articolare la differenza in cui la coscienza umana si esprime, il dio non sa mantenere neppure una propria identità, perciò si concede alle metamorfosi più svariate senza fedeltà e senza memoria. L’identità, infatti, è l’altra faccia della differenza, è ciò che si ottiene perché non ci si confonde con tutte le cose, come invece capita al dio che Eraclito così descrive:

Il dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, sazietà e fame. E muta come il fuoco quando si mischia ai fumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma.4

La divinità è dunque quello sfondo indistinto, quella riserva di ogni differenza, quella totalità mostruosa che gli uomini, dopo essersene separati, hanno avvertito come loro sfondo di provenienza e da cui si sono tenuti lontano, fuori dalla loro comunità, nel mondo degli dèi, che per questo vengono prima degli uomini. Il mondo che essi abitano è il mondo del simbolo dove non c’è distinzione, dove all’incapacità di riconoscere la differenza, si accompagna la tendenza ad abolirla con un gesto violento.

A questo mondo Freud ha dato il nome di “inconscio” e, nella scelta della parola, c’è già il punto di vista che guarda da una coscienza raggiunta e pacificata. Gli uomini hanno sempre conosciuto l’inconscio nella forma ben più drammatica del “divino” e del “sacro”.5

Nel dispiegare questo scenario Jung scopre che non è stato Dio ad allontanarsi dagli uomini, ma sono stati gli uomini a essersi emancipati da Dio, separandosi da quello sfondo simbolico che non ospitava né identità, né differenze. Il fuoco, in cui Dio si confonde e si mescola, nelle mani dell’uomo diventa principio d’ordine; il suo uso differenziato dà l’avvio al processo di civilizzazione che coincide con il progressivo distacco dell’uomo da Dio. Nietzsche, che ha colto molto bene questo passaggio, scrive:

L’uomo, crescendo ad altezza titanica, si conquista da sé la propria civiltà, costringendo gli dèi ad allearsi con lui, perché nella sua propria saggezza tiene in sua mano l’esistenza e i limiti di essa. La cosa più mirabile in questa poesia su Prometeo, che nella sua intenzione fondamentale è il vero e proprio inno dell’empietà, è lo sconfinato dolore dell’“individuo” temerario da una parte, e la miseria divina, anzi il presentimento di un crepuscolo degli dèi dall’altra. [...] Il presupposto del mito di Prometeo è lo sconfinato valore che un’umanità ingenua attribuisce al fuoco, come al vero palladio di ogni civiltà ascendente: ma che l’uomo disponesse liberamente del fuoco e non lo ricevesse soltanto come un regalo dal cielo, come folgore incendiaria o come vampa scottante del sole, apparve a quei contemplativi uomini arcaici come un sacrilegio, come una rapina ai danni della natura divina. E così il primo problema filosofico pone subito una penosa e insolubile contraddizione fra uomo e dio, e la sospinge come un macigno sulla soglia di ogni civiltà. La cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine.6

2. Il simbolo come azione che compone i distanti

Qui siamo di fronte al significato più antico della parola, che affonda le sue radici in terra greca, dove symbolon era quella tessera ospitale, quel coccio di pietra che, spezzato, testimoniava il legame tra due persone, due famiglie in procinto di separarsi. Ognuno portava con sé il segno di una comunione, di un patto amichevole che la distanza non poteva annullare. Se poi accadeva di ricongiungersi, allora si procedeva alla ricomposizione delle due metà, e l’unità così ottenuta attestava, dopo l’assenza, un’intimità ininterrotta, un legame che non era stato spezzato. Il significato del termine successivamente si evolse, ma non smarrì il suo senso originario.

Nel Simposio di Platone ritroviamo la parola per designare il carattere proprio dell’amore che è simbolo di quell’unità che lega gli uomini, in quanto provenienti da una stessa origine e in quanto alla ricerca, con il consenso pietoso degli dèi, di quell’unità che, proprio a causa degli dèi, è stata spezzata. Per questo ogni uomo è simbolo, tessera dell’uomo totale: “hékastos oûn emôn estin anthrópou sýmbolon”.7

Symbolon è dunque espressione che dice unità da remote distanze, tensione verso una totalità assente richiamata dall’incompiutezza di senso della situazione presente. In termini junghiani: se l’Io è l’espressione della situazione presente, il Sé è quella totalità assente verso cui il simbolo de-situa. Il Sé dell’uomo (das Selbst) è infinitamente più comprensivo del suo Io (das Ich), così come i confini del possibile sono infinitamente più ampi della realtà determinata e consaputa.

Nella dialettica Io-Sé, Jung dà forse una delle migliori descrizioni della coscienza simbolica, che poi non è altro che la coscienza umana salvata da quell’irrigidimento nella dimensione razionale, in cui la cultura occidentale l’ha costretta, quando ha ideato quel reticolato di segni per la de-signazione delle cose. Tra segno e simbolo corre infatti quella differenza che i Greci avevano intuito tra dia-bállein e sym-bállein, tra disgiunzione e composizione.

Per “disgiunzione” qui intendiamo quella procedura discorsiva che, articolandosi in base al principio di identità e non contraddizione, garantisce che A è A e non è non-A. Il segno è ciò che scaturisce da questa esclusione che, annullando ogni virtualità di senso che ecceda la mera identità di una cosa con se stessa, struttura per esclusione quell’equivalenza dove è soppressa ogni ambivalenza simbolica, e dove il significante e il significato sono affidati a un sistema di reciproco controllo. Anche quando il significante rinvia a significati differenti, l’equivalenza non diventa ambivalenza, ma semplice polivalenza di significati che rimangono controllati e discreti.

Come civiltà di segni che, articolandosi nel linguaggio concettuale, perviene all’identità di una cosa con se stessa, e quindi all’unità della molteplicità, la civiltà occidentale, proprio per la sua procedura linguistica e per la qualità delle sue interrogazioni, si trova nell’impossibilità di comprendere il linguaggio simbolico.

Da de Saussure a Lévi-Strauss, da Lévy-Bruhl a Mauss, e più recentemente da Baudrillard a Eco, si è sempre guardato al simbolo partendo dal segno, e, rispetto al segno, lo si è definito o come il prodotto di una razionalità che fallisce (perché ad esempio confonde la similarità o la contiguità con la causalità), o come l’espressione di un’attività mentale che volta le spalle al principio fondamentale di ogni razionalità, cioè al principio di non contraddizione. Lo stesso Jung, che negli scritti dell’età matura offre a mio giudizio la migliore comprensione dell’attività simbolica, negli scritti giovanili incontra il simbolo come “forma inferiore del pensiero”8 che si riscontra nella dementia præcox, dove “si può pensare solo in modo superficiale, confuso, cioè simbolico”.9

In realtà, nell’universo simbolico delle società primitive l’uomo distribuisce dei segni secondo la suddivisione che egli compie del reale, ma senza stabilire un rapporto preciso tra significante e significato, per cui tutto ha un senso, ma questo non può essere identificato con l’esclusione di altri sensi. Questa inadeguatezza tra significante e significato produce quella situazione che è tipica del linguaggio simbolico, per cui alcuni significati restano disponibili senza ancorarsi rigidamente a una cosa, fluttuano tra le cose, impedendo a ciascuna di significare se stessa e non altro.

Con questa “eccedenza di significazione”, come la chiama Lévi-Strauss, il primitivo evita l’instaurarsi di un significante dispotico che, sotto il suo codice, regola le relazioni dei significati, che così divengono ovunque disponibili e in nessun luogo identificabili. È il caso del “mana” di cui le cose si caricano quando sono donate. Le cose hanno un “mana”, ci dice Mauss,10 ma subito aggiunge che ce l’hanno anche le piante, gli uomini, i morti, gli alimenti, per cui “mana” significa tutto e niente o, come dice Lévi-Strauss: “È simbolo allo stato puro, suscettibile di caricarsi di qualsiasi contenuto”.11

Non designando nulla di preciso, o, come dice Jung, “non rinviando a cose note”,12 i simboli, quando si caricano di un contenuto, che come s’è detto può essere qualsiasi contenuto, lo portano in quelle zone di disordine semantico che si costituiscono ai confini di un ordine stabilito, dove certe pratiche e situazioni, come la magia, lo sciamanesimo, la divinazione, la malattia, la morte, si incaricano dello scambio delle corrispondenze simboliche, e quindi della ri-creazione di un ordine sui resti dell’ordine precedente ormai disgregato.

Tutto questo è possibile perché il simbolo, grazie alla sua eccedenza semantica, designa questo ma anche quello, perché, a differenza del segno, non si inserisce in un ordine, ma tra gli ordini, come la brocca del Geviert heideggeriano che i mortali elevano ai divini fra la terra e il cielo. Scrive in proposito Heidegger:

La brocca non è una cosa né nel senso della romana res, né nel senso dell’ens rappresentato alla maniera del Medio Evo. La brocca è cosa in quanto connette. Solo a partire da questa connessione la brocca manifesta la sua essenza. [...] La brocca, infatti, è ciò che i mortali elevano ai divini dalla terra al cielo. Terra e cielo, divini e mortali sono reciprocamente connessi a partire dallo squadernarsi della quadratura (Geviert). Ognuno dei quattro rispecchia a suo modo l’essenza degli altri. [...] Rispecchiando, ciascuno dei quattro si dà a ognuno degli altri. Questo rispecchiare libera ciascuno dei quattro per ciò che gli è proprio, ma lega i quattro così liberati nella semplicità del loro essenziale appartenersi reciproco.13

La brocca è un simbolo non perché indica qualcosa in un ordine (questa è piuttosto la funzione del segno), ma perché aduna (sym-bállein) gli ordini. Ma il simbolo può adunare ordini in quanto non è incluso in alcun ordine, in quanto dispone sempre di un’eccedenza semantica che nessun significato noto esaurisce. Dopo l’ambivalenza, che sottrae il simbolo all’equivalenza di un significato con se stesso, la relazione con l’ignoto è la seconda caratteristica che distingue un segno da un simbolo. Per ovvio che sia, può qui tornar utile richiamare il già citato esempio di Jung:

Il segno sta per una cosa nota, il simbolo rinvia a qualcosa di fondamentalmente sconosciuto. La ruota alata dell’impiegato delle ferrovie non è un simbolo della ferrovia, ma un segno che denota l’appartenenza alla società ferroviaria. Il simbolo, invece, presuppone sempre che l’espressione scelta sia la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria. Se dunque la ruota alata dell’impiegato delle ferrovie venisse definita un simbolo, si verrebbe a dire con ciò che quest’uomo ha a che fare con un’entità sconosciuta, la quale non può essere espressa altrimenti e meglio che con una ruota alata.14

È noto che la diversa interpretazione del simbolo ha determinato la separazione tra Freud e Jung, per il quale i simboli freudiani sono un puro sistema di segni, dove l’eccedenza semantica propria di ogni simbolo è risolta nella rigida segnaletica sessuale: non più rinvio all’ignoto, ma ripetizione del già noto, come è tipico di ogni segno.

Ma a parte il contrasto tra Freud e Jung, la connessione tra simbolo e ignoto è qui ripresa per sottolineare la storicità di ogni simbolo e la sua conversione in segno ogniqualvolta un contenuto simbolico si lascia formulare in termini concettuali secondo i criteri della chiarezza e della distinzione. Allora, dice Jung:

Quando ha dato alla luce il suo significato, quando cioè è stata trovata quell’espressione che formula la cosa ricercata, attesa o presentita, ancor meglio del simbolo in uso fino a quel momento, il simbolo muore, cioè conserva solo un valore storico. È perciò assolutamente impossibile creare da connessioni note un simbolo vivo, cioè pregno di significato, giacché ciò che si crea non contiene mai più di quanto vi è stato messo dentro.15

Se dunque il segno nasce dalla discrezione di un significato, mentre il simbolo vive della sua eccedenza e della sua fluttuazione, tra segno e simbolo non c’è tanto un’opposizione quanto una circolarità. E precisamente: il nostro pensiero procede per segni che de-finiscono i significati ponendo fine alla loro fluttuazione. Ciò avviene attraverso quell’operazione disgiuntiva (dia-bállein) per cui A è A e non è non-A. Quando il segno fallisce perché non riesce a stabilire l’appartenenza del suo oggetto, questo segno diventa un simbolo, viene cioè sottratto al dispositivo concettuale che si è dimostrato inadeguato, per essere affidato al dispositivo simbolico, dove alla convocazione concettuale della molteplicità nell’unità si sostituisce l’e-vocazione di una molteplicità a partire da un’unità fallita o rivelatasi inadeguata. Se poi l’evocazione simbolica, nel suo raccordare cosa a cosa (sym-bállein) perviene a una definizione univoca, allora il simbolo muore, e sull’arresto dell’evocazione nasce il segno come dispositivo d’ordine.

A questo punto si comprende come non abbia senso cercare il significato di una rappresentazione simbolica, perché questa nasce proprio dal fallimento della rappresentazione concettuale, e dura finché la rappresentazione concettuale non è restaurata. Ciò significa che la semiologia non può interrogare la simbologia, e in particolare non può chiedere che cosa significano i simboli e come lo significano, perché i simboli nascono proprio quando non ci sono risposte a queste domande. Il solo fatto di porle, oltre a rivelare una sostanziale incomprensione del simbolo, ne occulta definitivamente la funzione.

Il dispositivo simbolico non entra in azione solo in presenza dell’insufficienza del dispositivo concettuale, ma anche quando il dispositivo concettuale, irrigidendosi, preclude ogni progressione possibile. In questo caso il simbolo, irrompendo nell’ordine dei significati statuiti, produce nel senso quel contro-senso che fa ruotare i discorsi senza immobilizzarli attorno a un dispositivo ideale.

S-terminando i termini, portandoli fuori dalla loro terminazione concettuale, il simbolo è un dispositivo contro l’irrigidimento del senso, che ha forse il suo corrispondente nella pratica primitiva che suscitava l’animale totemico, il dio o l’eroe al solo scopo di metterli a morte, onde evitare che intorno a essi si solidificasse un unico senso, e quindi dei rigidi dispositivi d’ordine.

Come dimensione che entra in funzione quando fallisce il dispositivo concettuale, e come rinvio a un’ulteriorità di senso rispetto ai sensi codificati, il simbolo, prima del segno e dopo il segno, supplisce a un’insufficienza e assicura una progressione. In ogni caso “non significa” e tanto meno “rinvia a cose note” che qualsiasi ordine concettuale potrebbe agevolmente esprimere. Su questo punto insiste particolarmente Mario Trevi nella sua lettura “ermeneutica” di Jung:

Il simbolo junghiano non rimanda a qualcosa di diverso da sé, non sta per qualcos’altro secondo il modello aliquid stat pro aliquo. Il simbolo junghiano allude a un significato che è racchiuso (e inespresso) nel simbolo stesso. Di qui la metafora implicita nella frase di Jung: “Il simbolo è vivo soltanto finché è pregno di significato”. Tale metafora va presa sul serio: evoca il ventre di una gestante in cui è racchiuso qualcosa che certamente esiste ma che non possiamo conoscere. La “pregnanza” del simbolo va presa nel suo senso letterale proprio perché scatti la potenza della metafora. È pregnante ciò che reca qualcosa in fieri e ancora totalmente nascosto. La pregnanza del simbolo in Jung corrisponde all’intransitività della parola poetica di Novalis. Paradossalmente ma coerentemente, in Jung il simbolo “muore” quando il suo significato “nasce”, cioè si rende visibile e intelligibile. Il simbolo è vivo solo finché è pregnante, vale a dire finché porta nel suo grembo un significato inespresso. Muore quando questo significato è dato alla luce.16

3. Il simbolo come eccedenza di senso

Siamo così giunti alla terza accezione della parola “simbolo” che è possibile reperire in quelle pagine junghiane attente al nesso che compone il processo di individuazione alla funzione trascendente, e la funzione trascendente al simbolo. Questa trama profonda, e continuamente ribadita in tutte le variazioni del pensiero junghiano, schematicamente può essere letta in quel rinvio esplicito che Jung stesso stabilisce tra le definizioni di “Individuazione” e di “Simbolo”:

Il processo di individuazione è strettamente connesso con la cosiddetta funzione trascendente, in quanto, mediante questa funzione, vengono date quelle linee di sviluppo individuali che non potrebbero mai essere raggiunte per la via già tracciata da norme collettive.17

Sotto questa voce, l’ulteriorità di senso promossa dalla funzione trascendente, all’interno di un processo di individuazione, è ricondotta all’atteggiamento simbolico, definito come:

L’emanazione di una determinata concezione del mondo che attribuisce agli accadimenti, ai grandi come ai piccoli, un senso, e a questo senso attribuisce un determinato valore, maggiore di quello che è solito essere ascritto alla realtà di fatto, così come si presenta.18

Dischiudendo con il linguaggio simbolico un’ulteriorità di senso “maggiore di quello che è solito essere ascritto alla realtà di fatto”, Jung oltre a smascherare il controllo e il dominio sotteso alla logica della ragione occidentale, oltre a far emergere il carattere esclusivamente funzionale del suo linguaggio, nonché le componenti efficientiste e conformiste della sua etica, offre all’individuo la possibilità di de-situarsi, di oltrepassare la situazione che lo ospita e lo costringe, non con la repressione, ma con la rimozione di ogni possibile senso ulteriore ed eccedente. Che qui si nasconda il vero disagio della civiltà ne ha il sospetto lo stesso Freud là dove dice, in un brano che già abbiamo richiamato, che:

Oltre agli obblighi cui siamo preparati, concernenti la restrizione pulsionale, ci sovrasta il pericolo di una condizione che potremmo definire “la miseria psicologica della massa”. Questo pericolo incombe maggiormente dove il legame sociale s’è stabilito soprattutto attraverso l’identificazione reciproca dei vari membri. [...] La presente condizione della civiltà americana potrebbe offrire una buona opportunità per studiare questo temuto male della civiltà. Ma evito la tentazione di addentrarmi nella critica di tale civiltà; non voglio destare l’impressione che io stesso ami servirmi dei metodi americani.19

In questo rapido accenno al “legame sociale stabilito per identificazione reciproca dei vari membri”, Freud supera l’interpretazione “naturalistica” che sta alla base della sua concezione della nevrosi come conflitto tra istanze pulsionali e istanze superegoiche, per aprirsi all’epocalità storica che però, per “esigenze scientifiche”, non adotta come metodo.

Jung, invece, che fa suo questo metodo, avverte che contro ogni ulteriorità di senso si mobilita la razionalità del sistema, che quindi non reprime tanto le pulsioni (Freud) quanto i simboli, nel tentativo di vanificare sul nascere ogni parola che si riferisca a sensi e a significati assenti dal sistema e quindi potenzialmente sovversivi.

Dare un nome alle cose assenti significa infatti spezzare la magia diffusa da quelle presenti, significa fare entrare un ordine differente entro l’ordine stabilito. Contro quello che Paul Valéry chiama “il lavoro che fa vivere in noi ciò che non esiste”,20 si mobilita tutto il sistema con i suoi strumenti di censura, che vanno dal divieto più grossolano alla più elegante mobilitazione dei media che, coordinando tra loro i mezzi di espressione e quindi le possibilità di comprensione, rendono la comunicazione dei contenuti trascendenti tecnicamente impossibile.21 Questo pericolo è stato ben individuato da Heidegger in quelle pagine dedicate al dissolversi dell’esistenza nel modo collettivo dell’esistere, dove:

Nell’uso dei mezzi di trasporto o di comunicazione pubblici, dei servizi di informazione (i giornali), ognuno è come l’altro. Questo essere-assieme dissolve completamente il singolo esserci nel modo di essere “degli altri”, sicché gli altri dileguano ancora di più nella loro particolarità e determinatezza. In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si (Man) esercita la sua tipica dittatura. Ce la spassiamo e ci divertiamo come ce la si spassa e ci si diverte, leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla “gran massa” come ci si tiene lontani, troviamo “scandaloso” ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un esserci determinato, bensì tutti (ma non come somma), decreta il modo di essere della quotidianità.22

L’impersonalità del “Si” opera un livellamento di tutte le possibilità di essere, di pensare, di volere, e quindi facilita alla razionalità del sistema il proprio compito di controllo. Ciò che si lascia prevedere, infatti, si lascia anche più facilmente controllare. Livellando le esperienze e le aspirazioni, la dimensione collettiva, con i suoi tratti di conformismo e omologazione, è in grado di compiere la sua opera di repressione senza l’impiego di strumenti brutali che potrebbero determinare la sua distruzione. Non solo, ma avendo già anticipato l’ambito di ogni possibile decisione, il “Si” sottrae ai singoli il peso della loro responsabilità e, gratificandoli dei mezzi necessari per portare a compimento le decisioni da loro prese, si rende gradito a essi, e così approfondisce il suo radicato dominio.

Di qui l’inaccessibilità al linguaggio simbolico. La sua eliminazione dall’alto e il disinteresse che lo circonda dal basso concorrono nell’intento repressivo della prepotenza della ragione, per la quale non esistono problemi che non possono essere discussi in modo piano e ragionato o sottoposti a sondaggi d’opinione, non esistono parole cariche di un senso loro proprio e specifico che non siano traducibili nel linguaggio coerente della comunicazione funzionale, non esiste la solitudine dell’individuo che con il suo linguaggio pregno di sensi e di significati privati possa porsi contro e oltre la sua società. A questo proposito Rilke scriveva:

Per i nostri avi, una “casa”, una “fontana”, una torre loro familiare, un abito posseduto erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l’umano. Ora ci incalzano dall’America cose nuove e indifferenti, pseudo-cose, aggeggi per vivere. Una casa nel senso americano, un mela americana, o una vite americana non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo in cui erano riposte le speranze e la ponderazione dei nostri padri.23

In rapporto alla vita quotidiana, il linguaggio simbolico è passato e futuro, ha i toni dell’evocazione e dell’allusione che l’universo razionale ha messo a tacere, privandolo del peso e della capacità di esprimere l’umano. Unificando gli opposti e non esitando a esibire le proprie contraddizioni come contrassegno della sua sincerità, la razionalità si rende immune dalla sollecitazione simbolica, escludendo ogni discorso che non si svolga nei propri termini.

In questo modo, monopolizzando ogni significato possibile, la razionalità è in grado di accogliere anche i propri negatori, perché sa che questi non possono costituirsi se non come suo dono, e non possono impiegare altro linguaggio se non quello che essa ha messo a loro disposizione. E così, assimilando tutti i termini dei discorsi possibili, può combinare la tolleranza con la massima uniformità.

L’uniformità si consegue unificando le aree linguistiche dopo averle svuotate della pregnanza simbolica che le sostanzia. Ciò è possibile con la creazione di un linguaggio che, fissando dei concetti, impedisce lo sviluppo e l’espressione dei simboli, per accogliere solo segni in grado di escludere tutto ciò che si oppone a tale risoluzione. In questo modo la razionalità del sistema raggiunge lo scopo di dissolvere qualsiasi realtà che non sia quella da essa stabilita, e così si immunizza da ogni opposizione che, in quanto trascendente il sistema, si pone come potenzialmente sovversiva.

La riduzione del simbolo a immagini fisse, come è riscontrabile nella psicologia archetipica di James Hillman, mi pare sostanzialmente infedele al metodo inaugurato da Jung, perché, come bene ha mostrato Mario Trevi nei suoi scritti, per Jung il simbolo è una traccia discorsiva che porta fuori dalle razionalizzazioni che le varie epoche storiche di volta in volta inaugurano. Il suo valore è “metaforico” per quel tanto che le metafore “portano fuori (meta-foréin)”. Il suo senso è affidato a un progetto di eccedenza e non è articolato dal contenuto mitico. Se così fosse, Jung, dopo aver liberato la psicologia dal determinismo naturalistico di Freud, la farebbe precipitare in un determinismo più sottile, ma non meno cogente, quale è appunto il determinismo culturale, in cui irrimediabilmente mi pare cada Hillman quando nei miti legge degli archetipi in senso forte, cioè dei modelli originari in cui è pre-scritta la vicenda psicologica di ognuno di noi. Scrive infatti Hillman:

Tutti gli eventi nel regno dell’anima, cioè tutti gli eventi e i comportamenti psicologici hanno una somiglianza, una corrispondenza, un’analogia con un modello archetipico. Le nostre vite seguono figure mitiche; noi agiamo, pensiamo, sentiamo soltanto come ce lo consentono i modelli primari stabiliti nel mondo immaginale. Le nostre vite psicologiche sono mimetiche dei miti. Come nota Proclo, i fenomeni secondari (le nostre esperienze personali) possono essere ricondotti a un terreno primario primordiale, con il quale entrano in risonanza e a cui appartengono. Il compito della psicologia archetipica, e della terapia che ne deriva, è quello di scoprire il modello archetipico delle forme di comportamento. L’ipotesi è sempre che ogni cosa ha un aggancio da qualche parte: tutte le forme di psicopatologia hanno il loro substrato mitico e appartengono ai miti, o in essi hanno la loro dimora. Inoltre, la psicopatologia è essa stessa un mezzo per essere influenzati dal mito o per entrare nel mito.24

Dunque il mito come modello: non più simbolo ma emblema, non più trascendimento ma riconduzione, non più storia ma archeologia. Inaugurazione del più rigido determinismo che neppure il gioco dell’immaginazione riesce a mascherare se è vero che – sono parole di Hillman:

Non possiamo mai essere certi se siamo noi che immaginiamo loro, oppure loro noi. Tutto ciò che sappiamo è che non possiamo immaginare senza di loro; i miti sono le precondizioni della nostra immaginazione. Se li inventiamo allora lo facciamo con i modelli che essi depositano.25

Con Hillman si dissolve quel delicato equilibrio tra libertà e necessità che aveva caratterizzato l’antropologia di Jung. L’uomo viene sottratto alla sua dimensione trascendente e progettuale per essere ridotto a superficie di scrittura, dove sono leggibili delle tracce indelebili, quasi un ostacolo all’oblio. Non più simboli desituanti, ma segni che fanno della psiche una memoria.

Anche se parla un linguaggio apparentemente antitetico, la psicologia archetipica offre un ottimo servizio alla pre-potenza della ragione del nostro tempo e ai mezzi con cui essa difende anticipatamente (pre) la propria potenza. Ogni conflitto che dovesse nascere è infatti già pre-risolto nel linguaggio archetipico che, pre-disponendo le modalità dalla sua formulazione, già pre-contiene la soluzione nei termini attesi.

In assenza del simbolo come ulteriorità di senso non esistono più soluzioni che oltrepassano l’ampiezza del problema, perché il senso è immediatamente costretto nei limiti della formulazione archetipica che lo esprime. Al determinismo biologico del primo Freud viene qui a sostituirsi un determinismo psicologico difficile da verificare, ma non meno cogente nei suoi esiti.

1 Si veda a questo proposito U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo (1984), Feltrinelli, Milano 2001.

2 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, Adelphi, Milano 1972, vol. III, 1, p. 30.

3 Eraclito, fr. B 102.

4 Id., fr. B 67.

5 Per un approfondimento di questa tematica si veda U. Galimberti, Orme del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, Feltrinelli, Milano 2000.

6 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., pp. 67-69. Di questo crimine e dell’accezione simbolica a esso connessa ho discusso ampiamente ne La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo, cit., capitolo 15: “La violenza del Sé e la passione dell’Io” e ne Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 17: “La violenza del simbolo e l’ordine della ragione”.

7 Platone, Simposio, 191 d. Per una più ampia trattazione di questo tema si veda U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, cit., capitolo 18: “Sessualità e follia”.

8 C.G. Jung, Über die Psychologie der Dementia præcox: ein Versuch (1907); tr. it. Psicologia della dementia præcox, in Opere, Boringhieri, Torino 1969-1993, vol. III, p. 24.

9 Ivi, p. 79.

10 M. Mauss, Sociologie et anthropologie (1950); tr. it. Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, p. 166.

11 C. Lévi-Strauss, Introduction à l’œuvre de Marcel Mauss, in M. Mauss, Sociologie et anthropologie (1950); tr. it. Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, cit., p. LII.

12 C.G. Jung, Psychologische Typen (1921); tr. it. Tipi psicologici, in Opere, cit., vol. VI, p. 485.

13 M. Heidegger, Das Ding (1950); tr. it. La cosa, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 118-119.

14 C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., pp. 483-484.

15 Ivi, p. 484.

16 M. Trevi, Simbolo e funzione simbolica (1986), in Metafore del simbolo, Raffaello Cortina, Milano 1986, p. 65. La citazione di C.G. Jung riportata nel testo di Trevi si trova in Tipi psicologici, cit., p. 484. Sull’argomento si veda anche M. Trevi, Interpretatio duplex, Borla, Roma 1986.

17 C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., pp. 463-464.

18 Ivi, p. 486.

19 S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (1929); tr. it. Il disagio della civiltà, in Opere, Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. X, p. 603.

20 P. Valéry, Poésie et pensée abstraite, in Œuvres, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1957, p. 1333.

21 Per una più adeguata trattazione di questo tema si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, capitolo 52: “Mass media e monologo collettivo”.

22 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, § 27, pp. 215-216.

23 R.M. Rilke, Briefe aus Muzot, in Gesammelte Werke, Frankfurt a.M. 1961, vol. VI, p. 335.

24 J. Hillman, Photos. La nostalgia del puer æternus, in AA.VV., Dopo Jung, Franco Angeli, Milano 1980, p. 124.

25 Id., Re-visioning psychology (1975); tr. it. Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano 1983, p. 151.