25. Il problema della colpa. Un saggio di pratica filosofica

Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa.

K. JASPERS, La questione della colpa (1946), p. 22.

Nel 1937, a seguito dell’ingiunzione del governo nazista, che obbligava i professori con moglie ebrea a divorziare o abbandonare l’università, Karl Jaspers, che nel 1910 aveva sposato Gertrud Mayer, a cui era legato da vivissimi sentimenti e a cui aveva dedicato tutte le sue opere, abbandonò l’università e la terra di Germania per riparare a Basilea, in Svizzera, dove gli era stato offerto un incarico di insegnamento.

Tornò in Germania otto anni dopo e, all’Università di Heidelberg, a cui il Comando americano aveva concesso nell’autunno del 1945 di riprendere l’attività, tenne nel semestre estivo del 1946 una serie di lezioni che avevano come oggetto “La questione della colpa”, e il loro centro in quella sentenza che non concede margini di innocenza perché suona così: “Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa”.

1. Le figure della colpa

Ma di che colpa parla Jaspers? Quattro, a suo parere, sono i modi di concepire la colpa:

1) Colpa giuridica: si riferisce a quelle azioni che trasgrediscono la legge e che possono essere provate oggettivamente. La competenza è del tribunale e l’imputazione riguarda i singoli individui.

2) Colpa politica: si riferisce alle azioni degli uomini di Stato e coinvolge quanti appartengono a quello Stato, perché, scrive Jaspers, “ciascuno porta una parte di responsabilità riguardo al modo come viene governato”.1 La democrazia, infatti, ci rende responsabili e quindi, negli errori, colpevoli.

3) Colpa morale: si riferisce alla colpa individuale rilevabile al tribunale della propria coscienza “a cui non si può chiedere un trattamento amichevole”. Qui la giustificazione, che può avere una sua plausibilità nel mondo giuridico, dove può trovare accoglienza il principio secondo cui “gli ordini sono ordini”, per Jaspers non ha valore sul piano morale perché, di fronte alla propria coscienza, “i delitti rimangono delitti anche se vengono ordinati”.2

4) Colpa metafisica: si riferisce a quella colpa che investe qualsiasi uomo che tollera ingiustizie e malvagità che possono essere inflitte a un proprio simile e non fa nulla per impedirlo. Questa colpa ha per oggetto l’infrazione del principio della solidarietà tra gli uomini, offesa la quale, viene messa a rischio quella base di appartenenza al genere umano che poggia sul riconoscimento di se stessi nell’altro. A questo livello, scrive Jaspers:

Il modo di sentirsi colpevole non può essere compreso da un punto di vista giuridico, politico o morale, ma il fatto che uno sia ancora in vita, dopo che sono accadute cose sul genere delle atrocità naziste, costituisce per lui una colpa incancellabile, perché, pur di salvare la propria vita, ha rinunciato alla vita degna che, nel caso dell’uomo, vuole che si viva insieme o non si viva affatto.3

2. La colpa metafisica come oggettivazione dell’uomo

Qui Jaspers fa riferimento a quella matrice sentimentale che unisce gli uomini prima dei loro accordi razionali e delle loro intese politiche, giuridiche e persino morali. Occorre però assumere la parola “sentimento (Gefühl)” in senso forte e cogliere in essa quella che Jaspers definisce “solidarietà incondizionata che ciascuno conosce per averla almeno una volta vissuta nell’ambito di una particolare unione nella vita”,4 per cui il dolore dell’altro è il mio dolore, il suo patire la mia passione.

Questa matrice sentimentale, che consente agli uomini di riconoscersi come appartenenti allo stesso genere, è la medesima matrice pre-giuridica e pre-politica che aveva fatto dire a Kant: “L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo”.5 Nessuna norma giuridica, infatti, così come nessun accordo politico, nessuna legge morale sono in grado di trovare un minimo di fondazione e un residuo di plausibilità se l’uomo tratta il proprio simile non come uomo, ma come cosa, non in riferimento alla sua soggettività, ma in modo oggettivo come si trattano le cose. In questo caso, infatti, la natura umana viene negata nel suo tratto specifico e allora non c’è diritto, non c’è politica, non c’è moralità che possa costituirsi.

Ma il nazismo ha significato proprio questo: la riduzione dell’uomo a cosa, per cui è possibile dire che l’elemento tragico del nazismo non risiede tanto nella sua ferocia e nella sua crudeltà, che la storia su scale diverse ha sempre registrato, ma nell’oggettivazione dell’uomo, nella sua riduzione allo statuto della cosa. Questa è la colpa metafisica. Una colpa da cui non è possibile riscattarsi, perché ciò che il nazismo ha inaugurato, l’oggettivazione dell’uomo, è la forma che l’umanità va via via assumendo sotto il regime della tecnica, che proprio nell’organizzazione nazista ha trovato il suo primo abbozzo.

3. Il nazismo come prova generale dell’apparato tecnico

In una delle settanta interviste che Gitta Sereny fece a Franz Stangl, direttore generale del campo di sterminio di Treblinka, si legge:

“Quanta gente arrivava con un convoglio?” chiesi a Stangl.
“Di solito circa cinquemila. Qualche volta di più.”
“Ha mai parlato con qualcuna delle persone che arrivavano?”
“Parlato? No... generalmente lavoravo nel mio ufficio fino alle undici – c’era molto lavoro d’ufficio. Poi facevo un altro giro partendo dal Totenlager. A quell’ora, lì erano già un bel pezzo avanti con il lavoro.”
Voleva dire che a quell’ora le cinque o seimila persone arrivate quella mattina erano già morte. Il “lavoro” era la sistemazione dei corpi, che richiedeva quasi tutto il giorno e che spesso proseguiva anche durante la notte.[...]
“Oh, la mattina a quell’ora tutto era per lo più finito, nel campo inferiore. Normalmente un convoglio teneva impegnati per due o tre ore. A mezzogiorno pranzavo... Poi un altro giro e altro lavoro in ufficio” [...]
“Ma lei non poteva cambiare tutto questo?” chiesi io. “Nella sua posizione, non poteva far cessare quelle nudità, quelle frustate, quegli orrori dei recinti da bestiame?”
“No, no, no... Il lavoro di uccidere con il gas e bruciare cinque e in alcuni campi fino a ventimila persone in ventiquattro ore esige il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. Arrivavano e, tempo due ore, erano già morti. Questo era il sistema. L’aveva escogitato Wirth. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile.”6

È questo un esempio di “pensiero manageriale” dove Treblinka non è dissimile da un complesso industriale su vasta scala, e dove il personaggio chiamato Stangl non è dissimile da un qualsiasi direttore generale che opera in base a quel solo criterio: l’efficienza, che l’apparato tecnico assume come unico e assoluto valore, mettendo in ombra lo scopo delle azioni, la loro direzione, il loro senso, per attestarsi sul principio della pura funzionalità priva di riferimento.

Celandosi dietro la maschera dell’efficienza, il potere ottiene l’ubbidienza dei subordinati inducendo in loro da un lato un pensiero a breve scadenza, per cui non si guarda più intorno e in avanti e a lungo termine sui valori di fondo della vita, con conseguente atrofizzazione dei sentimenti, e dall’altro quella diffusa insensatezza per cui i “fini” raggiunti diventano “mezzi” per fini ulteriori, dove, come dice Jaspers: “Il semplice ‘fare’ trova la sua giustificazione indipendentemente da ciò che si fa”.7

4. Dal totalitarismo politico al totalitarismo tecnico

Focalizzando il problema della colpa sulla sua valenza “metafisica”, che si registra ogni volta che l’uomo non è più trattato come un fine, ma come un mezzo per il conseguimento di altri fini, Jaspers lascia intendere che lo schema inaugurato dal nazismo può ripresentarsi, e di fatto si ripresenta, ogni volta che la struttura di un apparato esige la riduzione dell’uomo allo statuto della “cosa”. È il caso, ad esempio, della sperimentazione nucleare, a cui Jaspers ha dedicato un libro importante: La bomba atomica e il destino dell’uomo, dove lo scenario del totalitarismo tecnico appare come il succedaneo del totalitarismo politico.

Che senso ha, infatti, parlare di “sperimentazione” là dove il laboratorio è diventato coestensivo al mondo, coinvolgendo nella sperimentazione: aria, acqua, terra, flora, fauna e l’intera umanità, con conseguenze irreversibili sulla realtà geografica e quindi storica? E soprattutto che senso ha migliorare i dispositivi di distruzione quando quelli attuali sono già sufficienti per la distruzione totale? L’imperativo della tecnica, che chiede la maggiorazione e il miglioramento di ogni prodotto, ha ancora senso a proposito della bomba atomica, dove il minimo dei suoi effetti sarebbe più grande di qualsiasi scopo politico e militare? Quando l’effetto è la distruzione totale, esiste ancora la possibilità di un comparativo, di una maggiorazione, di un miglioramento? Si può essere “più morti” dei morti?

Con la sperimentazione atomica, l’apparato tecnico ripropone il problema della colpa metafisica, perché anche le potenziali vittime, per quanto innocenti, diventano colpevoli se non aprono gli occhi a coloro che non vedono ancora. La colpa metafisica, infatti, non sta nel passato, ma nel presente e nel futuro, e se nella sua edizione politica il totalitarismo, almeno in Europa, sembra abbia scarse possibilità di ripresentarsi, nella sua edizione tecnica si è già ripresentato in quella forma che consente a Günther Anders di definire noi tutti, uomini d’oggi, “figli di Eichmann”, non di Hitler, simbolo dell’espressione politica del totalitarismo, ma proprio di Eichmann, il burocrate, che, come funzionario di un apparato, più o meno come oggi noi tutti siamo nel regime della tecnica, compiva, dal ridotto della sua scrivania, azioni dagli effetti che oltrepassano l’immaginazione di cui può essere capace un uomo.

In Noi figli di Eichmann,8 Günther Anders coglie l’essenza del “mostruoso” nella discrepanza (Gefälle) che, allora come ora, esiste tra l’azione che uno compie all’interno di un apparato e l’impossibilità per lui di percepire le conseguenze ultime delle sue azioni. Allora furono sterminati in modo industriale sei milioni di ebrei, zingari, omosessuali, da parte di persone che accettarono questo lavoro come qualsiasi altro lavoro, adducendo a giustificazione la pura e semplice ubbidienza agli ordini e la fedeltà all’organizzazione.

Per questo nei processi contro “i crimini verso l’umanità” gli accusati si sentivano “offesi”, “sgomenti” e qualche volta, come Eichmann, “sdegnati”, non perché si trattava di esseri privi di coscienza morale, aberranti psicopatici, o persone ormai disumanizzate, come più volte si è sentito ripetere, ma perché applicavano il principio, da loro inaugurato e oggi diventato mentalità aziendale, secondo cui essi avevano soltanto collaborato.

Se prima di indignarci di fronte a una simile difesa, riflettessimo sul fatto che gli autori di quei crimini, o per lo meno molti di loro, senza i quali l’ente di gestione criminale non avrebbe potuto funzionare, non si sono comportati nelle situazioni in cui commisero i loro crimini molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell’esercizio del loro lavoro, e come ciascuno di noi è invitato a comportarsi quando inizia il suo lavoro in un apparato, allora comprendiamo perché siamo tutti “figli di Eichmann”.

5. La colpa metafisica nell’età della tecnica

La divisione del lavoro che vigeva nell’apparato di sterminio di Treblinka e che oggi vige in ogni struttura aziendale, fa sì che all’interno di un apparato produttivo tecnicizzato, l’operatore, sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente non ha più niente a che fare con lo scopo finale, anzi gli è tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei processi lavorativi, di intendere realmente l’esito ultimo a cui porterà la sua azione.

In questo modo l’operatore non solo diventa irresponsabile, ma addirittura gli è precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perché la sua competenza è limitata alla buona esecuzione di un compito circoscritto, indipendentemente dal fatto che, concatenandosi con gli altri compiti circoscritti previsti dall’apparato, la sua azione approdi a una produzione di armi o a una fornitura alimentare.

Limitando l’agire a quello che nella cultura tecnologica si chiama button pushing (premere il bottone), la tecnica sottrae all’etica il principio della responsabilità personale, che era poi il terreno su cui tutte le etiche tradizionali erano cresciute. E questo perché chi preme il bottone lo preme all’interno di un apparato, dove le azioni sono a tal punto integrate e reciprocamente condizionate, che è difficile stabilire se chi compie un gesto è attivo o viene a sua volta azionato.

In questo modo il singolo operatore è responsabile solo della modalità del suo lavoro, non della sua finalità e, con questa riduzione della sua competenza etica, si sopprimono in lui le condizioni dell’agire, per cui anche l’addetto al campo di sterminio con difficoltà potrà dire di aver agito, ma, per quanto orrendo ciò possa sembrare, potrà dire di sé che ha soltanto lavorato. E questo vale ancora oggi sia per chi lavora nelle grandi fabbriche d’armi, sia nei centri studio per la sperimentazione delle armi nucleari, sia nelle modeste fabbriche di mine anti-uomo che per anni e anni continueranno a esplodere.

La mostruosità che l’apparato nazista ha inaugurato, e che poi è diventato il paradigma di ogni produzione aziendale, è la discrepanza tra la nostra capacità di produzione che è illimitata e la nostra capacità di immaginazione che è limitata per natura, e comunque tale da non consentirci più di comprendere e al limite di considerare nostri gli effetti che l’inarrestabile progresso tecnico è in grado di provocare.

Quel che si è detto per l’immaginazione vale anche per la percezione. Quanto più si complica l’apparato in cui siamo incorporati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto meno vediamo, e più ridotta si fa la nostra possibilità di comprendere i procedimenti di cui noi siamo parti e condizioni.

Questo scarto tra produzione tecnica da un lato e immaginazione e percezione umana dall’altro rende il nostro sentimento inadeguato rispetto alle nostre azioni che, al servizio della tecnica, producono qualcosa di così smisurato, da rendere il nostro sentimento incapace di reagire. Il “troppo grande” ci lascia freddi perché il nostro meccanismo di reazione si arresta appena supera una certa grandezza, e allora, da analfabeti emotivi, assistiamo oggi a milioni di trucidati nelle guerre sparse per il mondo, a milioni di inermi che ogni anno muoiono di stenti e malattie, come un giorno ai sei milioni di ebrei, zingari e omosessuali sterminati nei lager. “E poiché vige questa legge infernale – scrive Günther Anders – ora il mostruoso ha via libera”.9

Il richiamo jaspersiano al tratto metafisico e non storico della colpa è essenziale per ricordare che se ci siamo liberati del nazismo come evento storico, ancora non ci siamo liberati da ciò che ha reso possibile il nazismo, e precisamente da quell’indifferenza di fronte al mostruoso che nasce dalla discrepanza tra ciò che possiamo produrre con la tecnica e ciò di cui possiamo sentirci responsabili ogni volta che “irresponsabilmente” lavoriamo in un apparato, che ci esonera dal farci carico degli scopi finali per cui l’apparato è stato costruito.

6. La colpa metafisica come nichilismo passivo

In un contesto come quello appena descritto può generarsi quel “nichilismo passivo” che Nietzsche descrive come:

Declino e regresso della potenza dello spirito, come segno di debolezza: l’energia dello spirito può essere stanca, esaurita, in modo che i fini sinora perseguiti non trovano più credito.10

Tra il discredito dei fini e il potenziale distruttivo della tecnica esiste quel nesso di reciproco sostegno che genera il nichilismo passivo come rassegnazione. Se infatti l’uomo ha il sospetto di vivere senza scopo, allora il potenziale nientificante della tecnica ne è una conferma. E se dal punto di vista di questo potenziale l’uomo non vale nulla, per chi non si accontenta della vita, ma, come dice Jaspers nelle sue lezioni sulla colpa, ne pretende anche una degna, il potenziale distruttivo della tecnica non può che peggiorare la situazione.

Questo ragionamento, che vive della reversibilità della causa e dell’effetto, della premessa e della conseguenza, è il maggior responsabile di quel nichilismo passivo da cui la gran massa tenta inutilmente di difendersi, andando alla ricerca, come scrive Nietzsche di “tutto ciò che ristora, guarisce, tranquillizza, stordisce”.11

Si conferma così che né la cultura né la gran massa sono all’altezza dell’evento tecnico e, pur ruotando intorno all’asse del nulla, la loro percezione, la loro immaginazione, la loro sensibilità sono, forse per la prima volta nella storia, inadeguate a quanto sta accadendo, perché la rapidità e la potenza dello sviluppo tecnico ottundono la possibilità previsionale.

Nata sotto il segno dell’anticipazione, di cui Prometeo, “colui che vede in anticipo (pro-métis)” è il simbolo, la tecnica ha finito con il sottrarre all’uomo ogni possibilità anticipatrice e, privandolo della previsionalità, l’ha reso cieco e distratto nel mondo da essa generato.

7. Non si è ancora fatta sera

La tecnica, che il Terzo Reich ha avviato su vasta scala, non ha ancora raggiunto i confini del mondo, non è ancora tecno-totalitaria. Questo, naturalmente, non ci deve consolare e soprattutto non ci deve far considerare il regno (Reich) che ci sta dietro come qualcosa di unico e di erratico, come qualcosa di atipico per la nostra epoca o per il nostro mondo occidentale, perché l’operare tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacuna, con conseguente irresponsabilità individuale, ha preso le mosse da lì. Non riconoscerlo significa, come scrive Günther Anders, non rendersi conto che:

L’orrore del regno (Reich) che viene supererà di gran lunga quello di ieri che, al confronto, apparirà soltanto come un teatro sperimentale di provincia, una prova generale del totalitarismo agghindato da stupida ideologia.12

Ma per questo è necessario portare il sentimento umano all’altezza dell’evento tecnico. È necessario quello che lo psicopatologo Jaspers chiama “autoriflessione” come presa di coscienza del significato dell’accadere:

Chiamiamo semplice accadere ciò che avviene senza coscienza del significato, e autoriflessione l’esperienza dell’accadere in cui se ne sperimenta il significato.13

Questa considerazione, ben lungi dall’essere sufficiente, evita almeno all’uomo che la tecnica, come a suo tempo il nazismo, accada a sua insaputa, e, da condizione dell’esistenza umana, si traduca in causa della sua estinzione. Con ciò non pensiamo ancora alla soppressione “fisica” dell’uomo, ma con Jaspers, alla soppressione della sua cultura, della sua morale, della sua storia.

Occorre infatti evitare che l’età della tecnica segni quel punto assolutamente nuovo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più “che cosa facciamo noi della tecnica”, ma “che cosa la tecnica può fare di noi”. Rispetto a questa eventualità, non rimuovere il tratto metafisico della colpa significa mantenere qualche chance per il proseguimento della storia, dove l’uomo possa essere ancora riconoscibile nei tratti in cui finora l’abbiamo conosciuto.

1 K. Jaspers, Die Schuldfrage (1946); tr. it. La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 21.

2 Ivi, p. 23.

3 Ivi, pp. 22-23.

4 Ivi, p. 24.

5 I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785); tr. it. Fondazione della metafisica dei costumi, Rusconi, Milano 1994, p. 155.

6 G. Sereny, Into that Darkness (1983); tr. it. In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1994, pp. 228-229, 271-272.

7 Sul senso del “fare afinalizzato” si veda K. Jaspers, Die Atombombe und die Zukunft des Menschen (1958); tr. it. La bomba atomica e il destino dell’uomo, il Saggiatore, Milano 1960, pp. 541-560.

8 G. Anders, Wir Eichmannsöhne (1964); tr. it. Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995.

9 Ivi, p. 34.

10 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1887-1888; tr. it. Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, Adelphi, Milano 1971, vol. VIII, § 9 (35), p. 13.

11 Ibidem.

12 G. Anders, Noi figli di Eichmann, cit., p. 66.

13 K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie (1913-1959); tr. it. Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 2000, p. 379.