24. La cura di sé

Si può capire la natura della sapienza dei sette sapienti considerando quelle sentenze concise che furono pronunciate da ciascuno e che, radunatisi insieme, essi offrirono come primizie di sapienza ad Apollo, nel tempio di Delphi, facendo scolpire quelle sentenze che tutti celebrano: “Conosci te stesso (Gnôthi seautón)” e “Nulla di troppo (Medèn ágan)”.

PLATONE, Protagora, 343 a-b.

1. La conoscenza della natura umana (Anthrópou epistéme)

Platone dice che è insensato occuparsi di qualsiasi cosa se prima non si è raccolto il messaggio dell’oracolo di Delfi che invita alla conoscenza di sé. E perciò fa dire a Socrate:

Per queste cose non ho tempo a mia disposizione, e la ragione, mio caro, è questa: io non sono ancora in grado di conoscere me stesso (gnômai emautón), come prescrive l’iscrizione di Delfi. E perciò mi sembra ridicolo, non conoscendo ancora questo, indagare su cose che mi sono estranee. Perciò salutando e dicendo addio a tali cose e mantenendo fede alle credenze che si hanno in esse, come dicevo prima, vado esaminando non tali cose, ma me stesso, per vedere se io sia per caso una qualche bestia assai intricata e pervasa di brame più di Tifone, o se invece sia un essere vivente più mansueto e più semplice, partecipe per natura a una sorte divina e senza fumosa arroganza.1

Conoscenza di sé significa da un lato conoscenza della natura dell’uomo (anthrópou epistéme) e dall’altro conoscenza del proprio modo di essere uomo (heautoû epistéme). L’uomo appartiene alla natura (phýsis) che, nel suo ciclo di nascite e di morti, rivela tutta la sua innocenza e crudeltà. La figura della morte deve quindi accompagnare l’uomo non come malinconica o disperata tonalità della sua esistenza, ma come consapevolezza del suo limite che, una volta acquisito, agisce come incentivo alla vita, perché una sola vita deve essere vissuta nella sua pienezza.

Qui la tragicità dell’esistenza, propria della grecità che non si concede a speranze ultraterrene, agisce non come elemento depressivo, ma come fattore attivo e propulsivo. Se all’uomo non è concessa la vita eterna, resta suo compito procurarsi una vita buona (eû zoé), che è possibile solo se l’uomo si concilia con il limite che la natura gli ha assegnato.

All’interno di questo limite, l’uomo ama se stesso, perché, senza amore di sé, senza phílautía come dicevano i Greci, non avrebbe la forza di esistere e di resistere alle avversità dell’esistenza. Ma questo amore di sé non deve travalicare la propria condizione di mortale e pretendere per sé una vita che ecceda la propria natura. Amarsi sì, ma non troppo. Il che significa percepirsi come eventi della natura e accogliere la propria finitezza senza travalicare nel desiderio infinito che, proprio perché ignora il limite, produce infelicità.

Ciò non significa che l’uomo non debba emanciparsi dall’angustia, dal bisogno, dalla ristrettezza, dalla sofferenza in cui la sua condizione naturale lo pone, ma questa emancipazione, che siamo soliti chiamare “progresso”, non deve innescare una passione per la potenza illimitata, che non ci fa più riconoscere come eventi di natura, ma come padroni di una natura ridotta a materia prima da utilizzare per l’illimitato nostro desiderio di vita e di potenza.

In questo travalicamento del limite, determinato da una falsa visualizzazione di sé nell’ordine del tutto, si nasconde quella dimensione inquietante di cui parla Sofocle, là dove dice: “Nulla è più inquietante dell’uomo (houdèn anthrópou deinóteron)”.2 Dove l’inquietudine non riguarda solo la catastrofe che attende l’uomo che travalica l’ordine naturale, ma l’infelicità che sempre si produce quando la misura è abolita dal desiderio smisurato.

2. La conoscenza di sé (Heautoû epistéme)

Mentre l’animale può anche non conoscere se stesso perché la sua vita è regolata dall’istinto, l’uomo, privo com’è di istinti, come ci ricorda Platone,3 è delegato alla cura di sé. La carenza istintuale, infatti, se da un lato svincola l’uomo da qualsiasi comportamento codificato, dall’altro lo libera in quello scenario del possibile dove, se vuole evitare di perdere la propria vita prima ancora che giunga la morte, deve reperire la propria misura.

La misura è data dalla conformità della propria vita a quello che si è: “Diventa ciò che sei”4 diceva Nietzsche con riferimento al demone che Eraclito segnala come guida alla propria condotta: “êthos anthrópoi daímon”.5 Seguendo il proprio demone si raggiunge l’eudaimonía, ossia la felicità, che dunque non risiede nel raggiungimento degli oggetti del desiderio, ma nella realizzazione di sé.

Tutto ciò che io sono mi è dato, e la vita non è altro che l’espressione, la fioritura di ciò che in fondo sono. Di qui l’importanza di riconoscere l’ambito della mia possibile estrinsecazione, il progetto di vita per cui sono venuto al mondo, il compito a cui sono stato assegnato e in cui si rivela chi sono. Non sono disponibile per qualsiasi vita, ma per quell’unica vita in cui trova espressione ciò che sono. “Conoscere se stessi” significa allora conoscere i propri limiti, perché, solo nell’esperienza del limite, la vita acquista forma, come l’acquista il fiume che, senza argini, perderebbe la potenza della sua corrente.

Ma se è possibile pervenire alla propria forma solo attraverso l’esperienza del limite, occorre rinunciare a ciò che non compete alla nostra natura, a ciò che eccede le nostre capacità, a ciò per cui noi non siamo fatti. Il limite non è inscritto, come nel caso degli animali, nella nostra natura, e neppure è richiesto dall’osservanza di una qualche morale, ma dall’apertura incondizionata a tutte le possibilità a cui l’uomo è esposto per la sua condizione di animale non codificato o, come dice Nietzsche: “non ancora stabilizzato (das noch nicht festgestellte Tier)”.6 Creatura in eccesso, l’uomo è già oltre il limite fin dal primo momento della sua nascita, per cui suo compito non è tanto quello di infrangere i limiti, quanto di darseli, per dar forma alla sua vita e reperire il suo volto.

Qui la filosofia, che insegna all’uomo a darsi la sua forma, si salda con la pratica medica, perché entrambe, al dire di Plutarco, “hanno un solo e identico campo (mía chóra)”.7 L’una e l’altra, infatti, hanno a che fare col páthos, la passione, che ha riferimento tanto alle alterazioni del corpo quanto ai moti involontari dell’anima, che obnubilano, nell’uomo, il discernimento dei limiti, per cui, scrive Epicuro:

Vano è il discorso di quel filosofo che non cura le passioni dell’uomo. Come infatti non c’è alcun vantaggio dalla medicina che non cura le malattie dei corpi, così nemmeno dalla filosofia se non caccia la passione dall’anima.8

La negatività della passione non sta nel fatto che con la sua forza spinge a esperire le possibilità di vita, ma nel fatto che in questo esperire “non fa esperienza”, perché, nella passività in cui si trascina, obnubila l’anamnesi, la memoria di ciò che noi siamo e, a partire da questa memoria, ciò che possiamo tentare.

Senza anamnesi, la prognosi è cieca, e il muoversi dell’uomo non è più retto dalla sua azione (prâxis), ma dalla sua passione (páschein), che non gli consente di dirigere il corso della sua vita, ma semplicemente di subirlo. Le passioni vanno dunque dominate non perché spingono a fare, ma perché trascinano passivamente e, in questo trascinamento, più non consentono il governo di sé in cui è l’arte del vivere.

3. L’arte del vivere (Téchne toú bíou)

Siccome l’uomo, a differenza dell’animale, non ha altro modo di essere al mondo, se non quello di darsi un mondo,9 l’uomo è creatore di se stesso, e a questa creazione i Greci hanno dato il nome di “arte del vivere”. Essa consiste nel definirsi in una linea di confine, dove occorre spostare di continuo il limite onde dare alle nostre potenzialità lo spazio per la loro piena esplicazione, e al tempo stesso non oltrepassare il limite che è inscritto nelle nostre stesse potenzialità.

Arte del vivere è allora la competenza circa quello che possiamo o non possiamo fare, circa quello che possiamo o non possiamo avere, dove implicita è la figura della rinuncia (áskesis), che non avviene in vista di un ideale ascetico come nella morale cristiana, ma a partire da un calcolo circa ciò che rafforza o indebolisce la vita.

L’etica che scaturisce dall’arte del vivere non prevede la conformità a una norma, ma come vuole il significato originario di êthos, che, come ci ricorda Heidegger, significa “soggiorno”,10 la capacità di abitare il mondo governando se stessi, diventando legislatori di noi stessi. Ciò non significa che possiamo fare ciò che vogliamo, ma che di volta in volta dobbiamo delimitare l’ambito di ciò che possiamo fare e di ciò che non possiamo fare, per non incorrere nelle conseguenze infauste e inattese che possono derivare dall’imponderabile a cui l’uomo è ineluttabilmente esposto, o dall’esercizio dissennato della sua libertà.

L’etica che ne deriva è una giusta mescolanza (orthós synkerasmós) di coraggio (andreía) e prudenza (phrónesis): il coraggio di espandere la vita e la prudenza di non espanderla oltre i limiti concessi dalle nostre potenzialità.

Se ne deduce che è morale chi sa amministrare il proprio potenziale di vita, e immorale chi, smarrita la misura, si ritiene onnipotente e non tiene conto della mutevolezza del caso, del variare delle situazioni, della transitorietà degli eventi, e soprattutto delle potenzialità di cui la sua natura dispone, perché, come scrive Aristotele: “È credibile solo ciò che è possibile”.11 Ed è possibile il piacere della vita se non si rimuove quel limite che non è costituito solo dalla morte, ma anche dalla cecità del caso, dalla mutevolezza degli eventi, dall’imprevedibilità delle circostanze, dalla precarietà delle condizioni. Se si è consapevoli che questo è il contesto, vivere è un’arte, e ampie sono le possibilità dell’arte, anche se, ce lo ricorda Ippocrate:

La vita è breve, l’arte vasta, l’occasione istantanea, l’esperimento malcerto, il giudizio difficile.12

In questa considerazione di Ippocrate non c’è solo la consapevolezza dei limiti della scienza, ma anche la risonanza della condizione tragica dell’esistenza che, a differenza del cristiano, il Greco non rimuove. Dall’esperienza tragica, il Greco non esce, come il cristiano, affidandosi alla speranza di una vita ultraterrena, ma approdando alla saggezza filosofica, capace di indicare il giusto mezzo (mesótes), come proporzionato rapporto tra le forze della vita che vuole espandersi oltre ogni limite e la misura che la contiene nel suo limite per consentirle di durare.

L’equilibrio che così si crea, e che i Greci chiamano “arte del vivere”, non è una dimensione statica, ma dinamica. È tensione trattenuta che, come dice Aristotele, “sa contemperare paura e temerarietà (mesótes estì perì phóbous kaì thárre)”.13 L’etica che ne deriva non fa riferimento a una norma repressiva, ma a una dinamica attiva, sempre alla ricerca, sia nella gioia sia nel dolore, della giusta misura. Di questa dinamica attiva dà testimonianza Seneca là dove non circoscrive la filosofia a pura e semplice cognizione, ma la assume come regola dell’azione, perché:

La filosofia non è un’arte atta a procacciarsi il favore del popolo e di cui si possa fare ostentazione. Essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni, e non la si usa per trascorrere piacevolmente le giornate o per scacciare la nausea che viene dall’ozio. La filosofia, infatti, forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare, sta al timone e tiene la rotta in mezzo ai pericoli del mare in tempesta. Senza di essa nessuno può vivere libero da timori e tranquillo. In ogni istante capitano innumerevoli eventi che esigono una direttiva che solo la filosofia può dare.14

4. La virtù (Areté)

Quando è praticata, l’arte del vivere diventa disposizione (héxis), abito, consuetudine, costume e quindi “morale”, modo di soggiornare nel mondo, êthos nel suo significato originario, da cui quello derivato di “etica”, che dell’êthos è in un certo senso la decadenza.

Originariamente areté designava l’abilità funzionale delle cose, per cui nell’Iliade si parla della velocità come dell’“areté dei piedi”, o della fertilità come dell’“areté della terra”. Riferita agli uomini, areté denota una condizione di eccellenza che si manifesta in condizioni di scontro con avversari forti o nemici.

Nel concetto di virtù è dunque implicito il concetto di lotta, dove lo scontro non è necessariamente con i propri simili, ma anche con le difficoltà della vita, a cui bisogna far fronte uscendone vincitori: o con le proprie capacità di reazione o, là dove è impossibile, con le proprie capacità di adattamento. Qui la forza che la virtù esige si modula con l’abilità, il calcolo, la valutazione delle circostanze esterne e delle proprie capacità.

Possiamo allora dire che la virtù è la giusta proporzione tra la forza (briarótes) e la saggezza (phrónesis). Senza forza, la saggezza diventa ripiegamento e rinuncia all’espressione di sé, senza saggezza la forza tende a oltrepassare il limite e, per effetto di questa mancanza di misura (hýbris), la virtù degenera e porta l’uomo alla rovina.

L’elemento che compone forza e saggezza è il giusto mezzo (mesótes) che tiene lontano da ogni eccesso (medèn ágan). Il giusto mezzo non può essere indicato in una teoria generale, come di solito avviene nelle formulazioni etiche, ma, avverte Aristotele: “È una medietà che ciascuno deve trovare rispetto a sé”.15 Qui la virtù si lega strettamente all’arte del vivere, che varia da individuo a individuo, perché gli uomini non sono uguali quanto alle loro capacità, né uguali sono le circostanze in cui si trovano a vivere.

Questa è la ragione per cui la virtù non è insegnabile come insegnabili sono le tecniche, perché le tecniche sono un sapere, e, come scrive Platone: “Per il fatto che una buona sentinella sappia come si carpiscono i segreti e i piani d’azione del nemico, proprio in forza di questo sapere, è anche un buon ladro”.16

Il sapere che presiede le abilità tecniche, se garantisce la buona produzione degli oggetti, non garantisce la bontà dei comportamenti, perché una volta che si possiede il sapere, il modo di produrre gli oggetti (poíesis) è sempre identico, mentre il modo di produrre i comportamenti (prâxis) varia a seconda delle capacità, delle circostanze, delle opportunità.

Non si dà quindi una morale come scienza generale capace di indicare a tutti gli uomini la misura del comportamento, perché questa misura ognuno deve trovarsela da sé in quella fabbrica di se stesso che, a differenza della fabbrica delle cose, deve tener conto delle specificità dei singoli individui, più o meno idonei a essere coraggiosi, prudenti, timorosi, audaci. La morale, quindi, non deve prescindere dalla costituzione di ciascun individuo, e il suo scopo non deve essere tanto l’imputabilità degli individui, quanto il miglioramento della loro consapevolezza nella conduzione della vita.

Quando questa consapevolezza non c’è e, con la consapevolezza, neppure l’arte del vivere, nasce l’etica come norma impersonale per quanti non sanno trovare da sé la loro misura e quindi, non essendo norma a se stessi, hanno bisogno di essere normati da una legge esterna che chiede obbedienza. Nasce allora quella che Nietzsche chiama “la morale degli schiavi”, la cui virtù è servile perché non ha altra possibilità se non quella di obbedire o disobbedire. Nulla a che vedere con il “Grande Stile” di una vita che cerca la sua forma secondo la sua misura. Per questo, scrive Nietzsche:

Essere morale, costumato, etico, significa portare obbedienza a una legge o usanza anticamente fondata. Che ci si sottometta con sforzo o di buon grado è qui indifferente, basta che lo si faccia. Si dice “buono” colui che, dopo lunga tradizione, fa quasi per natura, cioè facilmente e volentieri ciò che è conforme al costume quale è di volta in volta. [...]
Ma finalmente, nel più alto grado di moralità finora raggiunto, l’uomo agisce in base al proprio metro delle cose e degli uomini. Egli stesso determina per sé e per gli altri che cosa sia onorevole, che cosa sia utile. È diventato legislatore delle opinioni, in base al concetto sempre più altamente sviluppato dell’utile e dell’onorevole. La conoscenza lo mette in grado di anteporre il massimo utile, cioè l’utile generale e durevole a quello personale, e l’onorevole riconoscimento di valore generale e durevole a quello momentaneo. [...]
Noi tutti soffriamo veramente ancora della troppa scarsa considerazione di ciò che è personale in noi. Esso è malformato – confessiamocelo. Si è al contrario violentemente distolto da esso il nostro animo e lo si è offerto in olocausto allo Stato, alla scienza e a ciò che abbisogna d’aiuto, come se esso fosse la parte cattiva, che doveva essere sacrificata. Lavoriamo anche ora per i nostri simili, ma solo finché troviamo in questo lavoro anche il nostro più grande vantaggio, non di più, non di meno. Quello che conta è solo che cosa si intende per proprio vantaggio. È chiaro che l’individuo immaturo, incivile, rozzo, lo intenderà anche nel modo più rozzo.17

La grandezza dell’uomo consiste nel dare forma alla propria forza che Aristotele chiama enérgheia, Spinoza conatus, Leibniz vis, Schopenhauer volontà di vita, Nietzsche volontà di potenza, Freud libido. Ogni esistenza, infatti, o ha la forza di esistere o perisce. Ma si può perire anche perché non si pone alcun limite all’espandersi della propria forza, perché si cade in quella colpa che i Greci hanno segnalato con il nome di hýbris, che è il travalicare il proprio limite. Qui la forza, se non manda in rovina, si dissipa, e l’esistenza non assume alcuna forma.

Se chiamiamo virtù il dar forma alla propria forza, allora essere virtuosi significa divenire legge a se stessi, perché chi non è in grado di governare se stesso è condannato, come dice Nietzsche, a subire la legge degli altri:

Se siete troppo deboli per dare delle leggi a voi stessi, accettate che un tiranno vi imponga il proprio giogo e dica: “Obbedite, digrignate i denti, ma obbedite” – e tutto il bene e il male anneghino nell’obbedienza a quel tiranno.18

Chi non vuole cadere sotto la tirannide deve prendersi cura di sé, soprattutto oggi in cui, crollate le mura della città, i confini si sono fatti più incerti, e le leggi che li presidiavano sempre più fragili, per la commistione delle culture, degli usi, dei costumi, delle morali. Più i confini territoriali si allentano, più urgente diventa la necessità di dare confini a se stessi. Se non è più la legge dell’appartenenza a darci forma, dovremo reperire nell’interiorità la nostra legge. In questo reperimento risiede quello che gli antichi chiamavano areté.

5. La felicità (Eudaimonía)

Gli antichi Greci chiamavano la felicità eudaimonía, con riferimento al daímon che ciascuno porta dentro di sé come sua qualità interiore, da cui discende la sua condotta, il suo êthos, per cui Eraclito può dire: “La propria qualità interiore, per l’uomo, è il suo demone (êthos anthrópoi daímon)”.19

Se nel corso della vita il proprio demone ha una buona (êu) realizzazione si raggiunge la felicità (eu-daimonía), che dunque non risiede fuori di noi nel raggiungimento delle cose del mondo (piaceri, soddisfazioni, salute, prestigio, denaro), ma nella buona riuscita di sé, perché, come chiarisce Democrito: “Felicità e infelicità sono fenomeni dell’anima (eudaimoníe psychês kaì kakodaimoníe)”,20 la quale prova piacere o dispiacere a esistere a seconda che si senta o non si senta realizzata. La realizzazione di sé è dunque il fattore decisivo per la felicità.

Ma per l’autorealizzazione occorre esercitare quella virtù capace di fruire di ciò che è ottenibile e di non desiderare ciò che è irraggiungibile. Ancora una volta la “giusta misura” come contenimento del desiderio, della forza espansiva della vita che, senza misura, spinge gli uomini a volere ciò che non è in loro potere, declinando così il proprio demone non nella felicità (eudaimonía), ma nell’infelicità (kakodaimonía), che quindi è il frutto del mal governo di sé e della propria forza, obnubilata dalla voluttà del desiderio.

Per difendersi dall’infelicità causata dall’eccesso del desiderio sono nate due morali, quella stoica e quella cristiana. La morale stoica tende all’ataraxía che è quell’invulnerabilità che si può raggiungere facendo lavorare la volontà contro se stessa, per estinguerla come desiderio dell’altro da sé e instaurarla come capacità di non desiderare. In quanto potenza di negazione del mondo e delle cose desiderabili nel mondo, la morale stoica regge il dolore e si astiene dal desiderio (substine et abstine), ma così facendo contrae l’espansione della vita e chiama felicità il giocare in anticipo la delusione. L’ideale di un potere incondizionato su di sé, attraverso la categorica rinuncia a ogni cosa, non è che il rovescio del delirio di onnipotenza di chi pretende di raggiungere tutto ciò che desidera. In un caso e nell’altro non c’è “giusta misura”.

Ma non c’è misura neppure nell’ideale etico cristiano che, non soddisfatto dei beni e dei piaceri transeunti del mondo, dove nulla è durevole, aspira a un bene indefettibile ed eterno che, non essendo di questo mondo, è ipotizzato in un altro mondo, che può essere raggiunto solo con la pratica ascetica del sacrificio e della rinuncia. Qui Agostino è lapidario:

Come potremo amare Dio, se amiamo il mondo? Due sono gli amori: quello del mondo e quello di Dio: se abita in noi l’amore del mondo, non è possibile che entri anche l’amore di Dio. Si allontani l’amore del mondo, e abiti in noi l’amore di Dio.21

Anche la rinuncia cristiana nasce dunque da un eccesso di desiderio che, insoddisfatto in questo mondo, crea quelli che Nietzsche chiama “i dispregiatori del mondo”, quelli che “hanno inventato l’al di là per meglio calunniare l’al di qua”, “uomini del risentimento” perché non hanno trovato in questo mondo la soddisfazione adeguata al loro eccesso di desiderio:

L’odio contro il “mondo”, la maledizione delle passioni, la paura della bellezza e della sensualità, un al di là inventato per meglio calunniare l’al di qua, in fondo un’aspirazione al nulla, alla fine, al riposo, fino al “sabato dei sabati” – tutto ciò, come pure l’assoluta volontà del cristianesimo di far valere soltanto valori morali, mi parve sempre la forma più pericolosa e sinistra di tutte le forme possibili di una “volontà di morte”, o almeno un segno di profondissima malattia, stanchezza, malessere, esaurimento, impoverimento di vita; giacché di fronte alla morale (soprattutto cristiana, cioè alla morale assoluta) la vita deve avere costantemente e inevitabilmente torto, dato che la vita è qualcosa di essenzialmente immorale – e la vita deve infine, schiacciata sotto il peso del disprezzo e dell’eterno “no”, essere sentita come indegna di essere desiderata, come priva di valore in sé. La morale stessa, – ebbene, la morale non sarebbe una “volontà di negazione della vita”, un segreto istinto di distruzione, un principio di decadenza, di discredito, di calunnia, un inizio della fine?22

Ancora una volta quel che manca, sia alla morale stoica, sia alla morale cristiana, è “la giusta misura”, che Aristotele indica come tratto tipico di ogni virtù, perché tiene lontano l’uomo da ogni eccesso e, nell’equidistanza, lo rende abile e capace di raggiungere i beni ottenibili e di rinunciare a quelli impossibili. In questo modo la felicità si salda con la virtù, non nel senso che la felicità è il premio che attende chi ha condotto una vita virtuosa, ma nel senso che la felicità è nella conduzione di una vita virtuosa, nel significato originario di areté, che è la capacità di dar forma alla propria forza vitale, di espandere la vita fin dove è possibile, secondo misura (katà métron). In questo senso Aristotele può dire che la felicità (eudaimonía) è il “vivere bene (eû zên)”, e la vita buona (e non la vita eterna) è il fine della vita:

Se conveniamo che è più perfetto ciò che si persegue per se stesso e non per altro, ebbene tale caratteristica sembra esser propria della felicità. Infatti noi desideriamo la felicità per se stessa e non per qualche altro fine, mentre invece l’onore, il piacere, la ragione e ogni altra virtù li perseguiamo sì per se stessi, ma soprattutto in vista della felicità, immaginando di poter essere felici attraverso questi mezzi. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di questi altri beni, né in generale in vista di qualcos’altro.23

Questo significa che la felicità è di questa terra, perché l’eternità non è fatta per l’uomo e, solo rinunciando all’eternità (che è un’idea che scaturisce da un eccesso di desiderio e di disprezzo del mondo), l’uomo può riconoscere che è valsa la pena l’esser nato. Ma a condizione che sappia rapportarsi a quel fine della vita che è la felicità, intesa come sua realizzazione e suo fine, non condizionato dalle cose del mondo che possono essere raggiunte o mancate. Il desiderio delle cose del mondo, infatti, obnubila l’offerta del mondo, che è molto più ricca di quanto non s’avveda la condotta offuscata dal desiderio, la cui brama impoverisce il mondo e non lascia scorgere le occasioni di felicità.

Quando la felicità viene ancorata non alla brama del desiderio, ma alla disposizione dell’anima, al “buon demone”, allora diventa coestensiva alla propria realizzazione e, in quanto coestensiva, difficilmente può essere persa o separata da noi. Non dunque una felicità come soddisfazione del desiderio e neppure una felicità come premio alla virtù, ma virtù essa stessa, come capacità di governare se stessi per la propria buona riuscita, perché questa è la misura dell’uomo.

1 Platone, Fedro, 229 e-230 a.

2 Sofocle, Antigone, in Tragedie e frammenti, Utet, Torino 1982, vv. 32-33.

3 Platone, Protagora, 321 a-322 b. Questa tesi è stata ripresa da Tommaso d’Aquino, Summa Theologiæ (1259-1273), Parte I, Questione 76, articolo 5, Editiones Paulinæ, Roma 1963, pp. 358-359 e da I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784); tr. it. Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici, Utet, Torino 1956, tesi III, p. 126.È stata inoltre riproposta da J.G. Herder, A. Schopenhauer, F. Nietzsche e, nel secolo scorso, da A. Gehlen e H. Bergson. Per un approfondimento di questa tematica si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, capitolo 8: “La tecnica come condizione dell’esistenza umana” e capitolo 18: “La carenza istintuale”.

4 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1881-1882; tr. it Frammenti postumi 1881-1882, in Opere, Adelphi, Milano 1975, vol. V, 2, fr. 11 (106), p. 316.

5 Eraclito, fr. B 119.

6 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft (1886); tr. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in Opere, cit., 1972, vol. VI, 2, § 62, p. 68.

7 Plutarco, De tuenda sanitate præcepta, 122 e, in Plutarch’s Moralia, Loeb Classical Library, London-Cambridge 1925-1978, vol. II.

8 Epicuro, fr. 221, in H. Usner, Epicurea (1887); tr. it. Epicurea, Bompiani, Milano 2002, p. 383.

9 Si veda a questo proposito A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940); tr. it. L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983, e a commento: U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 16: “Per una rifondazione della psicologia: L’uomo di Arnold Gehlen”.

10 M. Heidegger, Brief über den “Humanismus” (1946); tr. it. Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 306: “Il detto di Eraclito (fr. B 119) suona: êthos anthrópoi daímon. In genere si è soliti tradurre ‘Il carattere proprio è per l’uomo il suo demone’. Questa traduzione pensa in modo moderno e non greco. Êthos significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. Secondo la parola di Eraclito, questo è daímon, il dio. Il detto, allora, significa: ‘L’uomo, in quanto uomo, abita nella vicinanza del dio’”.

11 Aristotele, Poetica, § 9, 1451 b, 16-17.

12 Ippocrate, Aforisma 1, in Opere, Utet, Torino 1976, p. 421.

13 Aristotele, Etica a Nicomaco, Libro III, 1115 a, 6-7.

14 L.A. Seneca, Lettera XVI a Lucilio, § 3, in Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1994, pp. 949-950.

15 Aristotele, Etica a Nicomaco, Libro II, 1106 b, 36-37.

16 Platone, Repubblica, Libro I, 334 a.

17 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches I, (1878); tr. it. Umano troppo umano I, in Opere, cit., 1965, vol. IV, 2, Parte II, §§ 94, 95, 96, pp. 72-73.

18 Id., Nachgelassene Fragmente 1882-1884; tr. it. Frammenti postumi 1882-1884, in Opere, cit., 1986, vol. VII, 1, Parte I, fr. 108, p. 185.

19 Eraclito, fr. B 119.

20 Democrito, fr. B 170.

21 Agostino di Tagaste, In epistolam Iohannis ad Parthos (415), Discorso II, § 8; tr. it. Commento alla prima lettera di Giovanni, in Amore assoluto e “Terza navigazione”, Rusconi, Milano 1994, § 8, pp. 148-153: “Quomodo poterimus amare Deum, si amamus mundum? Duo sunt amores: mundi et Dei. Si mundi amor habitet, non est qua intret amor Dei. Recedat amor mundi, et habitet Dei.

22 F. Nietzsche, Versuch einer Selbstkritik (1886) zu Die Geburt der Tragödieaus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. Tentativo di un’autocritica a La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, cit., 1972, vol. III, 1, § 5, pp. 10-11.

23 Aristotele, Etica a Nicomaco, Libro I, 1097 a-b.