16. La medicina e il fraintendimento del corpo

La natura del corpo è il principio del discorso in medicina.

ANONIMO DELLA SCUOLA MEDICA DI KOS, Luoghi nell’uomo, § 2.

C’è un senso in cui è possibile dire che la scienza medica soffre di un significativo fraintendimento del corpo, per effetto del quale le scienze psicologiche hanno potuto inserirsi e occupare lo spazio lasciato libero dallo sguardo clinico.

Infatti, da quando Cartesio ha posto le basi della scienza moderna, radicalizzando il dualismo platonico di anima e corpo, la medicina ha progressivamente abbandonato la componente umanitaria, fondata sulla comunicazione “comprensiva” tra medico e paziente, per attenersi all’oggettività dei dati clinici, che la strumentazione tecnica mette ogni giorno di più a disposizione.

Lo spazio comunicativo, trascurato dalla medicina, è stato successivamente occupato dalla psicoanalisi che, a parere di Jaspers, “lungi dall’essere un sapere, è una fede”,1 i cui tratti dogmatici e acritici ledono l’autentica comunicazione tra uomini e la possibilità di diventar se stessi al di là dei presupposti fideistici che sono alla base della concezione psicoanalitica.

Partendo da queste premesse, Jaspers auspica un’estinzione della psicoanalisi che, come tutte le fedi, riduce la libertà dell’uomo, e un recupero, da parte della medicina, di quella comunicazione tra medico e paziente di cui la psicoanalisi si è appropriata quando, a partire da Cartesio, e in modo esponenziale nell’età della tecnica, la medicina ha via via trascurato l’aspetto soggettivo della malattia, per attenersi esclusivamente all’oggettività dei dati che la strumentazione tecnica è in grado di offrire.

1. I due volti della malattia

La figura del medico si caratterizza, a parere di Jaspers, “da un lato per la conoscenza scientifica e l’abilità tecnica, dall’altro per l’ethos umanitario”.2 I due tratti rimandano a due scenari tra loro molto differenziati, che non è facile veder composti e unificati nella singola personalità.

Affinché le parole acquistino subito il loro senso, diciamo che conoscenza scientifica e abilità tecnica sono dimensioni che possono essere insegnate e apprese, perché ciò che esprimono è qualcosa di oggettivo che non mette in gioco né la soggettività del medico né quella del paziente. Il loro campo di applicazione è il corpo inteso come organismo, ossia un apparato di organi, strutture e funzioni che è possibile trattare con criteri meccanicistici come qualsiasi fenomeno naturale.

In questo contesto la malattia appare come l’effetto di una causa che si può rimuovere o modificare con interventi tecnici, i quali ubbidiscono al sistema di spiegazioni che il sapere medico ha anticipato come lettura scientifica del corpo e delle sue alterazioni. In questo sguardo clinico oggettivante, che percepisce il corpo come una macchina, la componente umanistica non solo non ha alcuna rilevanza, ma può essere addirittura di intralcio a una visione scientifica e oggettiva.

Accade però che la malattia sia vissuta dal soggetto che la percepisce secondo modalità che influiscono sul suo decorso, quando non addirittura sulla sua insorgenza e sulla sua prognosi. Su questo fronte, conoscenza scientifica e abilità tecnica sono insufficienti. L’ordine della “spiegazione (erklären)”, che dice come l’alterazione si è prodotta, non è in grado di “comprendere (verstehen)” perché si è prodotta, dove il “perché” non rinvia a una causa, ma a un senso.

Se gli uomini non sono cose, il modo in cui sono al mondo e il senso che il mondo assume per loro sono causa di malattia non meno delle componenti fisico-chimiche che lo sguardo clinico, per le regole imposte dal metodo scientifico che lo esprime, individua come uniche cause. Percorrendo questa via, ciò che è possibile accertare sono i fatti non i significati, la successione causale non la produzione di senso, l’ordine della spiegazione non l’ordine della comprensione, per cui, dice Jaspers:

Conoscenza scientifica e abilità tecnica si trovano sempre nella condizione di spiegare qualcosa senza nulla comprendere, a meno di non considerare compreso un fenomeno per il solo fatto che gli si è assegnato un nome.3

2. I fatti e i significati

Se lo statuto dell’uomo non è lo statuto della cosa, se il suo “comportamento” non è un “movimento” analogo a quello delle cose naturali, la medicina che accostasse l’uomo con le metodiche positive delle scienze della natura spiegherebbe dei fatti, ma non comprenderebbe dei significati, l’umano resterebbe fuori della sua portata, perché un fatto, spogliato del suo significato, è per definizione in-umano.

Come ci ricorda Sartre,4 dal punto di vista organico la collera differirebbe ad esempio dalla gioia solo per una diversa intensità del ritmo respiratorio, del tono muscolare, dello scambio biochimico e della pressione arteriosa, ma ciò non autorizza a concludere che il collerico è un arcicontento, così come non possiamo dire che un riso di gioia è identico a un riso isterico perché entrambi impegnano la stessa area muscolare nelle stesse modalità.

Il fatto non è in grado di esprimere da sé il suo significato. Significare è indicare qualcosa che trascende il fatto, e che si scopre non analizzando le modalità con cui il fatto accade, ma il senso a cui il fatto rinvia. Per questo i fatti fisiologici, considerati in se stessi, ci sono, ma non significano nulla. Il corpo che li registra è puro organismo, è cosa, non intenzionalità dispiegata su un mondo.

Finché la medicina considera il corpo nel suo isolamento, come corpo organico (Körper)e non come corpo vivente in un mondo (Leib), finché si limita a raccogliere fatti, invece di interrogare i fenomeni, cioè i vissuti soggettivi per quel tanto che sono significanti e non per quel tanto che sono fatti puri, finché non trascende i disturbi dell’organismo per trovarne il senso, che non è qualcosa che si aggiunge dall’esterno, ma ciò in cui l’esistenza si esprime, la medicina non potrà che collegare una serie di dati “insignificanti”, per aver scelto quel terreno delle scienze positive dove i significati sono esclusi, perché il metodo esige che ci si attenga esclusivamente ai fatti.

3. Il corpo e l’esistenza

Rifiutare di risolvere l’ordine dei significati nell’ordine dei fatti significa rifiutare di identificare la corporeità che l’esistenza vive con l’organismo che la scienza descrive. Non è infatti lo sguardo che vede qualcosa per me o il braccio che si protende per afferrare qualcosa per me, ma sono io quello sguardo che ispeziona, così come sono io questo braccio che afferra. L’Io, cioè, non si distingue dal corpo, non dispiega una presenza in cui il corpo compare come uno strumento. Io sono davanti al mondo, non davanti al mio corpo; per questo si dicono “alienati” coloro che vivono il corpo come “altro” da sé, come qualcosa del mondo, da cui l’Io è diviso.5

La coincidenza di corpo ed esistenza è in quel ben-essere in cui l’Io aderisce al suo stato corporeo, lasciandosi invadere dalla calma, dal silenzio, ascoltando e ascoltandosi vivere. Questa aderenza allo stato corporeo può essere interrotta dal dolore che, sordo e lancinante, si annuncia in me come qualcosa che non riesce a con-fondersi con me, né a trattenersi in una delimitata regione dell’organismo.

Per l’esperienza che ne ho, non è il mio stomaco che soffre, ma è la mia esistenza che si contrae. Tutto diventa urgente, pressante, il ritmo con cui si succedono le cose dice la mia impotenza a controllarle, e il mio dolore, che “fa corpo” con quel ritmo, mi costringe a sentire il mondo come incalzante e ossessivo. Non è una parte dell’organismo che soffre, ma è il rapporto con il mondo che si è contratto, è la mia distanza dalle cose, la successione del tempo, l’ordine della presenza.

Si comprende a questo punto perché i primitivi concepivano il dolore come un essere estraneo che li abitava, come un’altra presenza che non faceva corpo con loro. Era un modo di non rassegnarsi alla sua presenza, perché accettarlo significava accettare quella diminuzione d’essere che nel dolore verifico ogni volta che non posso più osare quel che prima osavo, o intraprendere quel che prima intraprendevo.

Per questo sopporto il dolore, ma non l’accetto, perché accettarlo significherebbe far arretrare l’esistenza dal mondo al corpo che, da possibilità nel mondo, diventa, in presenza del dolore, ostacolo da superare. In questo arretramento dell’esistenza si nasconde il senso profondo della malattia, in cui il malato si scopre attento al proprio corpo invece che al mondo e, sempre più incapace di trovare uno sbocco sulle cose, dimora in sé.

4. Il dolore e il piacere

Il mondo è il polo verso cui posso oltrepassarmi, mentre il corpo è il polo in cui mi trattengo. Se nel dolore il corpo diventa per me il mondo, non siamo in presenza solo di un capovolgimento polare, ma di un radicale perturbamento dell’esistenza, perché io non sono circondato dal mio corpo come dal mondo, perché il corpo non è l’orizzonte in cui si dispiega la mia esistenza, il corpo sono io.

Nel dolore, quindi, mi separo da me; l’“altro” che mi abita e mi insidia sconvolge l’ordine della mia esistenza; nella mia temporalità inserisce i suoi tempi, che non sono solo i tempi del dolore, ma la mutilazione delle prospettive. Se un dolore dura, la scienza medica mi può dare delle rassicuranti spiegazioni e delle ragionevoli prospettive, che però non sono le mie prospettive, ma quelle della malattia, dai cui tempi dipendono i miei. E quando la speranza di un “dopo” si affievolisce, il tempo si destruttura, il domani diventa come ieri, mentre la vita assapora la monotonia della ripetizione.

Se nel dolore l’esistenza scopre il corpo come qualcosa di estraneo, nel piacere lo riconosce come suo e si riconosce in lui, quasi una risposta a un’attesa segreta, a un desiderio profondo eppure appena accennato. Per questo il piacere che si profila, anche se ancora non lo conosco, non è mai propriamente sconosciuto.

Eppure non è dal corpo che nasce il piacere, ma dal contatto del corpo con qualcosa del mondo. Per questo, come si diffonde l’eco, così mi invade il piacere, che non può mai essere localizzato, delimitato a un punto del mio corpo. Il piacere, infatti, coinvolge l’esistenza nella sua totalità e la rende piacevole.

Non è solo il mio corpo che sente, ma sono io che coincido pienamente con la sua sensazione, perché pienamente al mio corpo mi sono concesso. Il piacere di un bacio non è qualcosa che registra la mia mucosa, ma qualcosa che invade il mio essere. Sono io che assaporo la voluttà, o, meglio ancora, il piacere mi fa assaporare nella voluttà il mio corpo, così come il dolore me lo allontana.

Nella nuova forma d’esistenza che con il piacere si costituisce, il corpo chiede d’esser lasciato corpo affinché il piacere non si dissolva. Come nel dolore, anche qui il corpo si ritira a poco a poco dal mondo per dimorare in sé, il suo sguardo si perde, le sue membra si rilassano e di nuovo l’esistenza arretra dal mondo al corpo. Non è però l’arretramento tipico del dolore, perché il malato che soffre, non potendo sporgere sul mondo, non può oltrepassare il proprio corpo, mentre chi si abbandona al piacere si ritira dal mondo per lasciarsi andare al suo corpo, per essere solo corpo.

5. L’incarnazione

Non si dà un corpo leggibile con le sole categorie fisico-chimiche, così come non si dà un’esistenza leggibile con le sole categorie psichiche, perché l’esistenza di cui disponiamo è un’esistenza incarnata. Ciò significa che la medicina che accosta la malattia con la sola componente scientifica non ne coglie il riverbero esistenziale, dove si radica la malattia, il suo decorso e la sua prognosi.

Il mal-essere di un organismo è anche un’impossibilità a essere, è un disquilibrio dell’esistenza, costretta a vivere nel proprio corpo la sua impossibilità o incapacità a progettarsi in un mondo. Un rifiuto può far nascere l’angoscia, così come una violenza sessuale la frigidità. Ogni volta che l’esistenza non può esprimersi nel mondo come le “piace” è costretta a trattenersi e a ripiegarsi su di sé. Ciò che si produce non è tanto un “ingorgo della libido” come vuole la psicoanalisi, ma è una mancata presenza al mondo.

Non osando assumere una forma propria d’esistenza in quel mondo primitivo costituito dal proprio ambito familiare, l’anoressica rifiuta di assumere il suo corpo, e perciò non lo alimenta, e a poco a poco lo distrugge. Qui non si tratta di “conversione” o di “soma-tizzazione”, quasi che un conflitto psichico possa “trasferirsi” agli organi corporei, qui manca il richiamo di una presenza al mondo, per cui non resta altro modo di vivere se non quello del progressivo assentarsi. Il non alimentare il proprio corpo è il modo letterale, e non metaforico, di non alimentare la propria esistenza in un mondo che non interessa o che non accoglie, per cui il corpo diventa il teatro dove si vive ciò che non si può vivere nel teatro del mondo.

Benessere e malessere, salute e malattia, piacere e dolore trovano qui il luogo naturale della loro definizione. Se il corpo umano non è solo un campo di gioco di forze biologiche, ma un’originaria apertura al mondo, il modo con cui l’esistenza vive il proprio corpo rivela il modo in cui vive il mondo. Per questo Jaspers non parla di conversioni o trasferimenti di conflitti psichici agli organi fisici, perché non ci sono due realtà, quella psichica e quella fisica, ma un’unica presenza che dice nel corpo il proprio modo di essere-nel-mondo. Già Husserl avvertiva che:

Tra i corpi di questa natura io trovo il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico (Körper), ma proprio corpo vivente (Leib). 6

Finché la medicina e quindi la psichiatria non guadagneranno il senso del “proprio corpo vivente”, superando il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, tra mente e corpo, tra psiche e soma, non solo si troveranno costrette a trattare il corpo umano come un qualsiasi oggetto della natura, con un atteggiamento che, lungi dall’essere naturale, come queste discipline pretendono, è “naturalistico”, ma di fronte alla malattia, al suo insorgere, al suo svolgersi, al suo aggravarsi o alleviarsi, si troveranno nelle condizioni di “spiegare” qualcosa, come dice Jaspers, senza nulla “comprendere”, a meno di non considerare “compreso” un fenomeno per il solo fatto che gli si è assegnato il nome magico di “conversione” o di “somatizzazione”, intorno a cui si sollevano le polemiche degli organicisti e degli psicologisti, impegnati entrambi a far collimare le due parti di un’unità che non la natura, ma le esigenze metodologiche della scienza hanno impropriamente diviso e tenuto separate.

6. La grande lacerazione e le false ricuciture

Guardare l’“incarnazione” o, come dice Jaspers, “il tutto dell’uomo nella situazione reale”7 non è cosa che si possa perseguire con gli espedienti linguistici con cui la psicosomatica e la psicoanalisi hanno costruito se stesse. Già Binswanger ricordava che:

Le dottrine psicofisiche cercano di gettare un ponte tra due ambiti “cosali” che non corrispondono ad alcuna realtà umana, e in cui né l’uno né l’altro termine riesce a gettare luce relativamente sul primo o sul secondo, finendo anzi per occultarli entrambi.8

Se questo è vero, o ci si rassegna alla magia delle parole inspiegabili che i metodi scientifici pongono al limite delle loro possibilità, o si ritorna a quell’unità prescientifica, mai smentita dall’esperienza, dove è dato constatare, come dice Binswanger, che “corpo e psiche fanno uno nel piano dell’esistenza”.9

Per comprendere il senso di questa unità bisogna abbandonare il terreno delle scienze naturali che, per le note caratteristiche del loro metodo, sono costrette a spogliare il corpo di ogni connotato egoico, cioè di ogni valenza psichica e intenzionale, per ridurlo a mero oggetto di natura, a cosa, simile in tutto e per tutto alle altre cose che la scienza trova nel mondo e, oggettivandole, sottopone alla sua analisi sperimentale regolata dal principio di causalità.

Ora, nel corpo-cosa (Körperding) che la scienza descrive ogni volta che parla dell’organismo e delle sue funzioni io non mi riconosco, perché è un corpo che non mi rivela, non mi rappresenta, non mi esprime. Ciò che di esso la scienza dice non mi riguarda, e per quanti sforzi io faccia non riuscirò mai a integrare nella mia esistenza ciò che dalla scienza vengo a sapere.

La ragione è molto semplice. In occasione di qualsiasi malattia, l’ordine della mia esistenza subisce un profondo capovolgimento, che non è un’implicanza secondaria che si aggiunge alla malattia come sua inevitabile “conseguenza psicologica”, ma ne è piuttosto l’essenza. Essere ammalato, infatti, significa distogliere la mia intenzionalità dal mondo, dove si distende l’orizzonte della mia esistenza e dove le cose assumono quel significato per cui ha un certo senso per me essere-nel-mondo, per concentrarla sul mio corpo, anzi sulla malattia, che non consente più al mio corpo di progettarsi nel mondo come prima accadeva.

Il corpo, da potenza operativa nel mondo, da soggetto di intenzioni, diventa, quando sono afferrato dalla malattia, oggetto intenzionato, e io, che prima vivevo per il mondo, mi trovo improvvisamente a vivere per il mio corpo, mentre le cose del mondo svaniscono come termine del mio quotidiano mondanizzarmi, per avvolgersi in una penombra che ogni giorno della malattia rende sempre più buia. Tutto ciò, dice Jaspers, non è “conseguenza” della malattia, ma sua “essenza”.

Come è incomprensibile “dedurre” effetti psichici da malattie organiche, perché ciò che si constata, ciò che si sperimenta è semplicemente un’esistenza mancata, così è impossibile dedurre la malattia organica dalla qualità della vita. Non è la carenza affettiva o l’eccessiva repressione sessuale che “causano” disturbi gastrici, ma è l’esistenza che, impossibilitata a esprimersi in un mondo che sente troppo ostile o troppo proibitivo, dirige verso il proprio corpo le sue pulsioni aggressive o sessuali. Non c’è una causa (carenza affettiva) e un effetto (disturbo gastrico), ma un corpo che fraintende il proprio modo di essere-nel-mondo, un’esistenza che, priva com’è di mondo, non potrebbe esistere se non avesse un corpo su cui scaricare l’aggressività accumulata nella serie delle sue azioni mancate.

Un mondo inospitale, un mondo che non si lascia abitare non sopprime l’esistenza, ma la costringe alle corde, la lascia esistere nelle forme dell’apprensione, dell’ansietà, della malattia. Ciò che si constata non è la “conversione” di una tensione affettiva in un sintomo organico, ma il progressivo assentarsi di un’esistenza che, incapace di diluire la sua tensione con il mondo, “si ammala”, cioè riduce l’intensità dei suoi rapporti con le cose, la propria partecipazione, se stessa come presenza. Nella malattia essa ha la possibilità di non occuparsi più del mondo, ma esclusivamente di sé.

Da questo punto di vista non ci sono organi “privilegiati” su cui si scaricano i conflitti psichici, ma c’è un uomo che vive un conflitto con il mondo con certi organi, che sono poi quelli deputati a stabilire questo rapporto. In questo modo la comprensione della malattia psicogena non si realizza attraverso la ricerca di causalità, concordanze, parallelismi tra due ordini non omogenei, ma nel riferimento all’unità dell’esistenza, dove la malattia non appare come l’effetto di una causa, ma come il significato di un rapporto, il significato che la malattia assume per colui che la vive.

7. La superstizione scientifica

Siamo così rinviati alla distinzione husserliana tra il corpo oggettivato dalla scienza che si offre all’indagine anatomico-fisiologica (Körper), e il corpo come è concretamente vissuto e sperimentato dall’esistenza (Leib). Il punto di vista scientifico accantona l’esperienza diretta che noi abbiamo del nostro corpo come fenomenologicamente ci si rivela, per studiare un organismo nelle sue strutture, nelle sue funzioni e nei suoi organi, che si possono benissimo pensare come a sé stanti e anche di fatto separare, isolando le regioni dell’organismo, studiandone le rispettive funzioni, fino a legittimare la domanda che si chiede se l’oggetto di questa ricerca sia ancora il corpo umano e, soprattutto, il mio corpo.

Non si può pensare, infatti, che, ricomponendo le singole parti che l’anatomia ha diviso e restituendo la dinamica alle funzioni che la fisiologia ha isolato, io posso ottenere quell’unità corporea che quotidianamente vivo. Ricostruire il complesso dal semplice, e spiegare ad esempio la percezione attraverso una combinazione di sensazioni e il linguaggio attraverso una combinazione di segni, come ha fatto Pavlov,10 significa ottenere uno schema che dimentica che il complesso non è una combinazione di elementi semplici, che il corpo non è un mosaico di fatti fisicochimici, ma è una totalità, a partire dalla quale, anche questi fatti diventano comprensibili.

Il mio corpo, che conosco nella molteplicità delle esperienze quotidiane, si rivela come ciò che mi inserisce in un mondo, ciò grazie a cui esiste per me un mondo. Il corpo-cosa che io conosco nei libri di fisiologia o nelle tavole di anatomia non è un’altra realtà, ma è la stessa presente in un’altra modalità, nella modalità oggettivante della scienza biologica.

Qui non si tratta di opporre un corpo all’altro e poi domandarsi quale sia il vero, se quello che io vivo o quello che la biologia descrive. In questi termini la questione è mal posta, perché non abbiamo a che fare con due realtà, ma con due modi diversi di aver presente la stessa. Nel primo caso ho presente il mio corpo perché lo sono, nel secondo ho presente il mio corpo perché lo vedo, perché, nell’orizzonte della mia esistenza, con cui sempre coincido perché altrimenti non sarei al mondo, esperisco il mio corpo come mia estraneità. Prima con il corpo mi mondanizzavo in ogni altro-da-me, ora, sempre con il corpo, mi mondanizzo in quell’altro-da-me che è il mio corpo oggettivato.

Questo è il modo con cui accedo all’esperienza scientifica del mio corpo. Fare scienza, infatti, non significa abbandonare la presenza, il proprio corpo vivente e il suo modo di mondanizzarsi, ma adottare, nel mondanizzarsi, solo il pensiero scientifico e tecnico che isola per meglio analizzare il dettaglio dei fenomeni. L’errore nasce quando si riduce la presenza al modo con cui le cose si presentano quando sono focalizzate dal pensiero scientifico, quando un modo dell’apparire diventa la totalità dell’apparire, il senso ultimo di ogni fatto, lo statuto dell’essere.

Jaspers chiama questo atteggiamento “superstizione scientifica (Wissenschaftsaberglaube)”. 11 Assolutizzato, esso mi porta a conoscere il mio corpo solo come mia estraneità, ma anche così l’estraneità è pur sempre mia, per cui, per quanto distanziato, anche il corpo-cosa non perde mai del tutto la connessione con l’Io che connota il proprio corpo vivente.

Si dovrà allora concludere che l’orizzonte della presenza, dischiuso dal proprio corpo vivente, è capace di variazioni, tra cui la variazione scientifica che mi fa conoscere il corpo come organismo fisico-chimico, senza per questo dover concludere che all’organismo così reso presente sia da ricondurre ogni possibile significato dell’esistenza, e quindi il senso di ogni esperienza corporea.

8. Il supplemento psicologico

Una volta ridotto il corpo a puro organismo regolato dal meccanismo fisico-chimico, una volta ridotta la sua ambivalenza all’equivalenza imposta dalla scienza, è giocoforza introdurre una fantomatica “psiche”, non meglio precisata, per spiegare tutti quei fenomeni irriducibili alla fisica e alla chimica dell’organismo.

La psicofisiologia, che studia gli effetti somatici degli eventi psichici e viceversa, è lì a dimostrare che le migliori prove a favore dell’esistenza di un’“anima” o di una “psiche” non le hanno offerte tanto le tradizioni religiose o spiritualistiche, ma il materialismo scientifico che, riducendo l’ambivalenza del corpo vivente (Leib) intenzionato a un mondo all’equivalenza di un corpo fisico (Körper) privo di intenzionalità, s’è poi trovato costretto a lasciar spazio a una realtà non organica (l’anima), per spiegare tutto ciò che risultava inspiegabile a partire da un corpo ridotto a organismo.

Una corretta impostazione del sapere psicologico non ha bisogno dell’anima, perché la comprensione del mondo, che è la prerogativa fondamentale che la tradizione occidentale ha attribuito all’anima, è impossibile al “corpo fisico” ridotto a cosa del mondo, ma non al “proprio corpo vivente” originariamente dischiuso a un mondo. Ancora una volta il problema è di non ridurre l’orizzonte della presenza a ciò che il metodo scientifico, per le sue particolari esigenze, rende presente.

Gli studi sulla percezione ci dicono, infatti, che la stessa cosa, a seconda di come è vista, dà origine a descrizioni a tal punto diverse da divenire alla fine descrizioni di cose diverse. Se ci riferiamo alla famosa “figura ambigua”, dove i tratti dei profili dei due volti che si fronteggiano sono gli stessi tratti che delimitano i contorni di un vaso, di fronte alla stessa figura avremo chi parla di un vaso e chi parla di volti, a secondo di come articolano il rapporto tra figura e sfondo. Ebbene, la scienza medica, defilando la figura umana sullo sfondo della natura, non la vede più come persona, ma come cosa.

Il paziente che va dal medico per una visita agli occhi, quando entra vive i suoi occhi come ciò che gli consente di incontrare una persona, un “tu” nel mondo; quando si sottopone alla visita, li vive come una cosa che l’altro osserva come si osserva qualsiasi altra cosa; in quel momento l’occhio non è più per lui una possibilità per essere-nel-mondo, ma soltanto un organo. La stessa esperienza è vissuta dal medico che, quando riceve il paziente, quando lo saluta, lo fa accomodare, lo vede come una persona, poi, quando lo fa adagiare sul lettino, lo vede come un organismo. Il medico scompare dietro l’obiettività del suo metodo e il paziente viene de-personalizzato.

In realtà il paziente è visto alternativamente come persona e come organismo non perché in lui ci siano due cose, due sostanze: la psyché (persona) e il sôma (organismo), ma perché due sono i modi con cui il medico si rapporta al paziente. In quanto oggetto di atti intenzionali diversi, il paziente emerge ora come persona (psyché), ora come organismo (sôma), esattamente come nella figura ambigua, dove l’emergere del vaso o del profilo dei volti dipende dalle modalità con cui all’immagine ci si intenziona.

Non vi è dunque un dualismo nel senso dell’esistenza di due sostanze: l’“apparato organico” e l’“apparato psichico”, ma semplicemente due metodi che, in base alle loro procedure, riducono l’ambivalenza del corpo all’equivalenza di un suo aspetto. L’errore subentra quando si pretende che il corpo non sia altro che l’aspetto che un certo metodo ha evidenziato.

A questo punto pensare di comprendere meglio l’esperienza di un corpo vivente che abita un mondo, scindendolo nell’impersonalità dei due sistemi, uno organico e uno psichico, che per definizione non hanno un mondo, perché sono costruiti su modelli concettuali ricavati dalla fisica e dalla biologia, significa non rendersi conto di quanto sia assurdo tentare di comprendere persone con procedimenti di spersonalizzazione.

9. L’appartenenza corporea

Proprio perché il corpo vivente non è in sé come l’organismo, ma sempre per qualcos’altro da sé, all’uomo si dà una storia che poi coincide con la storia della sua esperienza corporea. Per effetto di questa coincidenza non posso dire di “avere” un corpo, così come non dico, quando “sono” stanco, di “avere” un corpo stanco. A differenza di quanto accade con la fisicità dell’organismo, con il corpo vivente si realizza quella “sfera di appartenenza”, o Eigenheitsphäre come la chiama Husserl,12 che è così stretta che io non posso disfarmi del mio corpo se non sui-cidandomi. Per questa ragione, Jaspers al termine “suicidio (Suicid)” preferisce l’espressione “autoassassinio (Selbst-mord)”, 13 perché con il corpo non se ne va solo un organismo, me ne vado io.

È questa una situazione-limite che dice che dal mio corpo non posso distanziarmi, né allontanandomi da lui, né allontanandolo da me. Non è infatti un mio “avere”, né una “zona di frontiera tra l’essere e l’avere” come vorrebbe G. Marcel14 ; il proprio corpo vivente è il mio essere. Ogni mio atto, infatti, rivela che la mia esistenza è corporea e che il corpo è la modalità del mio apparire.

Questo organismo, questa realtà carnale, i tratti di questo viso, il senso di questa parola portata da questa voce non sono le espressioni esteriori di un io trascendentale e nascosto, ma sono quell’io, così come il mio volto non è un’immagine di me, ma è me stesso. Nel corpo c’è perfetta identità tra essere e apparire, e accettare questa identità è la prima condizione dell’equilibrio.

Lo spiritualismo, che comprende l’uomo a partire dalla “realtà dell’anima” concepita come sostanza che vive in una sorta di inquietudine atemporale, e il materialismo scientifico, che risolve ogni pensiero nella biochimica del cervello, dimenticano, il primo, che il corpo è ciò senza di cui l’uomo non è al mondo, il secondo, che il cervello può lavorare solo coordinando ciò che riceve dal mondo, grazie a un corpo che nel mondo è presente non come organismo fisico, ma come corpo vivente, su cui, per successive impressioni, si vengono a inscrivere i fatti come si sono svolti, secondo quel principio ordinatore che è il nostro corpo coinvolto.

Quando diciamo “nostro”, buttiamo sulla bilancia della verbalizzazione quella perfetta coincidenza che fa del corpo quell’evento assoluto che dà ai fatti e agli avvenimenti il loro ritmo, la loro cadenza, la loro successione, da cui emerge l’oggetto specifico della psicologia che è il loro significato per noi.

10. L’inganno psicoanalitico

Se nell’età della tecnica la medicina tende ad attenersi esclusivamente al dato clinico, prescindendo dal significato che il dato ha per il paziente che lo patisce, la psicoanalisi si è subito inserita in questo vuoto lasciato dalla tecnicizzazione della medicina, per occupare lo spazio comunicativo sempre più trascurato dall’atteggiamento medico.

Ma la comunicazione, osserva Jaspers, ha come suo ineliminabile fondamento la libertà dei soggetti comunicanti, mentre nel percorso psicoanalitico ciò a cui si assiste non è tanto la libertà quanto l’adesione del paziente o dell’allievo all’impianto teorico presupposto alla cura o alla formazione terapeutica. La fede psicoanalitica ha per Jaspers i seguenti tratti:

a) Tutto ciò che accade all’uomo ha un senso conoscibile attraverso un’interpretazione infinita. Ma, osserva Jaspers, quando l’interpretazione trascura i criteri del vero e del falso, traducendo ogni sintomo in simbolo che può essere interpretato all’infinito, “l’interpretazione cessa di essere conoscibilità”.15

b) Se tutto ha per principio un senso, non c’è più nulla che ci possa difendere dalla pretesa di un sapere totale che, applicato all’uomo, lo priva della sua libertà ideativa, per risolverlo in un “caso” della teoria totalizzante, non dissimile, dice Jaspers, dal totalitarismo storico-sociologico.16

c) Il senso della malattia è ricondotto a una causa, e la causa a una colpa. Qui, oltre alla confusione psicoanalitica tra comprensione (ricerca del senso) e spiegazione (ricerca della causa), c’è uno slittamento dal piano medico a quello religioso, dove la causa-colpa (in greco le due parole sono espresse dall’unico termine aitía) produce come suo correlato la pericolosa identificazione tra salute e salvezza.17

d) Una volta che si è scivolati sul piano religioso, la libertà comunicativa si risolve nell’adesione fideistica. Ciò che unisce i soggetti così comunicanti, scrive Jaspers, “non è la discussione, scientificamente determinata, sul terreno della ragione universalmente vincolante, ma una concezione totale, fluida nelle formulazioni che ne danno, ma riconoscibile nell’atteggiamento di fondo. [...] Si tratta di un processo analogo agli esercizi spirituali durante i quali ci si impossessa della verità, non attraverso una conoscenza universalmente valida, ma addestrandosi al trattamento della propria coscienza”.18

e) Per quanto riguarda poi la formazione degli analisti, ciò che si verifica attraverso l’analisi didattica è “se la persona che vi si sottopone è predisposta per la fede necessaria”. Come tale, “l’analisi didattica non può che apparire indegna alla ragione”, anzi con la sua pratica “non ne va solo della scienza e della ragione, ma della stessa libertà”. Quando poi “un esperimento sull’uomo, su se stessi, viene elevato a condizione per un’abilitazione, si ha un’offesa dell’umanità”. Ne consegue che “la psicoanalisi è rovinosa per l’autentico essere del medico” che, dopo aver rinunciato, in nome dell’oggettività della scienza, alla comunicazione interpersonale che mette in gioco la soggettività del medico e del paziente, reintroduce questa comunicazione nella forma surrettizia del trattamento psicoanalitico, dove “la possibilità comunicativa è offerta in cambio di denaro”.19 Partendo da queste premesse, la conclusione di Jaspers è netta:

Forse la psicoanalisi è solo un dramma insensato che, attraverso la falsa soluzione che propone, mostra indirettamente ciò che il medico potrebbe o dovrebbe fare. Con ciò non vogliamo liquidare la psicoanalisi con una semplice negazione. Attraverso la realtà della sua diffusione, essa è piuttosto un minaccioso segnale delle omissioni avvenute da parte medica. Ciò che in essa vi è di corretto va capito, ciò che essa distorce va rimesso a posto. La verità che la oltrepassa si trova nello spazio della filosofia, la quale appartiene all’uomo che pensa in quanto tale.20

11. L’antica idea di medico

Se nell’età della tecnica la scienza medica “oggettivando l’uomo minaccia di trattarlo alla stregua dell’animale”,21 e se la psicoanalisi, nel tentativo di salvare il paziente dall’oggettivazione, finisce con il ridurlo a “cieco seguace di una fede”,22 contro questi due modi di offendere la ragione, che insieme alla libertà è la conquista più alta dell’uomo, Jaspers propone il ritorno all’antica idea di medico che Ippocrate indicò quando disse: “Il medico che si fa filosofo è pari a un dio (iatròs philósophos isótheos)”.23

Come medico, infatti, si avvale del sapere scientifico, ma non con l’atteggiamento onnipotente del “salvatore desiderato in segreto da tanti malati”,24 ma con la consapevolezza propria del filosofo che conosce i limiti di ogni forma di sapere, per cui non si professa “sapiente (sophos)”, ma amante del sapere, quindi “filosofo (philó-sophos)”, che sa disporsi nei confronti del sapere non come un possidente nei confronti del suo territorio, ma come un viandante nei confronti della sua via. E questo perché, scrive Jaspers: “Giunti ai confini della medicina scientifica, senza filosofia non si può dominare la stoltezza”.25

1 K. Jaspers, Zur Kritik der Psychoanalyse (1950); tr. it. Per la critica della psicoanalisi, in Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina, Milano 1991, p. 72.

2 Id., Die Idee des Arztes (1953); tr. it. L’idea di medico, in Il medico nell’età della tecnica, cit., p. 2.

3 Id., Allgemeine Psychopathologie (1913-1959); tr. it. Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 2000, p. 30.

4 J.-P. Sartre, Esquisse d’une théorie des émotions (1939); tr. it. Idee per una teoria delle emozioni, in L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 1962, p. 121.

5 Si veda a questo proposito G. Pancow, L’homme et sa psychose (1969); tr. it. L’uomo e la sua psicosi, Feltrinelli, Milano 1977.

6 E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge (1931); tr. it. Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1969, § 44, p. 107.

7 K. Jaspers, Psicopatologia generale, cit., pp. 795 sgg.

8 L. Binswanger, Welche Aufgaben ergeben sich für die Psychiatrie aus den Fort-schritten der neuren Psychologie? (1924); tr. it. Quali compiti sono prospettati alla psichiatria dai progressi della psicologia più recenti?, in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1970, p. 317.

9 Ivi, p. 322.

10 I. Pavlov, I riflessi condizionati (1927), Boringhieri, Torino 1966.

11 K. Jaspers, Philosophie (1932-1955): I Philosophische Weltorientierung, tr. it. Filosofia, Libro I: Orientazione filosofica nel mondo, Utet, Torino 1978, p. 243.

12 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., § 44, p. 105.

13 K. Jaspers, Philosophie (1932-1955): II Existenzerhellung; tr. it. Filosofia, Libro II: Chiarificazione dell’esistenza, cit., p. 781.

14 G. Marcel, Être et avoir (1935); tr. it. parziale Essere e avere, in P. Chiodi (a cura di), L’esistenzialismo, Loescher, Torino 1976, p. 129.

15 K. Jaspers, Per la critica della psicoanalisi, cit., p. 74.

16 Ivi, pp. 74-75.

17 Ivi, p. 75.

18 Ivi, pp. 77-78.

19 Ivi, pp. 79-82.

20 Id., Der Arzt im technischen Zeitalter (1958); tr. it. Il medico nell’età della tecnica, in Il medico nell’età della tecnica, cit., p. 62.

21 Ivi, p. 54.

22 Ivi, p. 58.

23 Ivi, p. 68.

24 Id., Arzt und Pazient (1953); tr. it. Medico e paziente, in Il medico nell’età della tecnica, cit., p. 21.

25 Id., Il medico nell’età della tecnica, cit., p. 68.