13. Binswanger e l’analisi esistenziale fenomenologicamente fondata
La psicologia non ha a che fare con un soggetto privo del suo mondo perché un simile soggetto non sarebbe altro che un oggetto, né tanto meno con la scissione soggetto-oggetto perché tale scissione non la si potrebbe intendere se non come avente alla base l’umana esistenza. La psicologia inizia quando comprende l’esistenza umana come originario essere-nel-mondo e considera i determinati modi fondamentali in cui l’esistenza di fatto esiste.
L. BINSWANGER, La concezione eraclitea dell’uomo (1935), p. 101.
1. Il problema epistemologico nelle scienze psicologiche
Nel panorama culturale della prima metà del Novecento l’opera di Ludwig Binswanger rappresenta un interessante incrocio in cui si danno convegno ordini disciplinari che fino allora avevano percorso itinerari separati, regolati da statuti epistemologici fra loro eterogenei. Medicina, psichiatria, psicoanalisi, filosofia e antropologia si trovano a dialogare grazie ai rapporti personali che, nell’arco di cinquant’anni, Binswanger aveva intrecciato con Bleuler, Freud, Jung, Buber, Husserl, Pfänder, Scheler, Heidegger, Ortega y Gasset, ospiti di volta in volta del “Sanatorium Bellevue” che Binswanger diresse dal 1911 al 1956. I risultati di quei frequenti incontri e di quelle intense discussioni trovarono la loro espressione nell’ampia raccolta di saggi1 che si estende dal 1920 al 1936 in cui si riflette sui presupposti epistemologici con cui psicologia, psichiatria e psicoanalisi andavano costituendo se stesse.
È una riflessione a cui nessuno che si occupi di eventi psichici può sottrarsi, non perché si richieda allo psicologo di occuparsi di problemi filosofici, ma perché lo psicologo non sia inconsapevole delle teorie che operano alle spalle delle sue apparentemente innocenti impostazioni metodologiche. Diciamo “apparentemente” perché anche l’atteggiamento scientifico che si vanta di attenersi alla “pura osservazione” si distingue dall’atteggiamento filosofico per il fatto che di solito si rifiuta di rendere conto della propria filosofia e dei presupposti filosofici che sono alla base della sua “pura osservazione”.
A dire il vero, gli “scienziati empirici” spesso non sono neppure coscienti del fatto che per principio non possono esistere delle “pure osservazioni empiriche”, se con ciò intendiamo dei fatti singoli che siano conoscibili senza alcun presupposto, per pura correlazione, perché ogni osservazione empirica dipende da una pre-cognizione, antecedente a ogni punto di vista scientifico, sulla natura delle cose e delle loro reciproche connessioni. In questo senso, osserva opportunamente Jaspers:
L’esclusione della filosofia è funesta per la psichiatria perché, a chi non è chiaramente consapevole della filosofia che lavora alle sue spalle, questa si introduce, senza che egli se ne accorga, nel suo pensiero e nel suo linguaggio scientifico, rendendo l’uno e l’altro poco chiari sia scientificamente sia filosoficamente.2
Condividendo l’epistemologia jaspersiana, che distingue tra spiegazione scientifica (erklären) e comprensione esistenziale (verstehen)3 (della cui importanza metodologica già si era accorto Sartre che, nel 1927-1928, partecipa con Paul Nizan alla traduzione in francese della Psicopatologia generale di Jaspers), Binswanger invita a un superamento del dualismo antropologico che, inaugurato da Platone e ribadito dalla scissione cartesiana dell’uomo in res cogitans e res extensa, è divenuto il modello culturale decisivo per la spartizione diltheyana delle scienze in scienze dello spirito (Geisteswissenschaften) e scienze della natura (Naturwissenschaften).4
La distinzione fu metodologicamente feconda per alcune discipline, tra cui quelle matematiche e fisiche, ma disastrosa per altre, come le scienze psicologiche, che si trovarono a operare tra due entità, anima e corpo che, secondo il modello concettuale ormai consolidato, sussistevano come due realtà giustapposte o intrecciate l’una con l’altra secondo modalità tutte da verificare.
Una verifica vana, perché non si possono dare risposte vere a premesse che sono richieste dalle esigenze del metodo, ma non dalla natura dell’oggetto. E se oggetto delle scienze psicologiche è l’uomo, allora vale il monito di Binswanger: “Si tenga ben fermo che cosa significa esser uomo”.5 In caso diverso la psicologia non può che risolversi in una sorta di “psico-fisiologia”, perdendo così la specificità dell’umano a cui è naturalmente ordinata.
L’analisi fenomenologica promossa da Binswanger non parte, per comprendere l’uomo, dal dualismo antropologico di anima e corpo, né da quello metodologico che articola quella scissione tra soggetto e oggetto (Subjekt-Objekt-Spaltung) che da Cartesio in poi è stato il cardine di ogni costruzione scientifica, ma dall’analitica esistenziale di Heidegger, a proposito della quale Binswanger scrive:
Con la dottrina heideggeriana dell’essere-nel-mondo (In-der-Weltsein) come trascendenza è stato eliminato il cancro che minava alla base tutte le precedenti psicologie e si è finalmente aperta la strada all’antropologia. Il cancro è rappresentato dalla dottrina della scissione del “mondo” in soggetto e oggetto. In forza di questa dottrina l’esistenza umana è stata ridotta a mero soggetto privo del suo mondo. È un “soggetto” nel quale hanno luogo tutti i possibili processi, eventi, funzioni, che ha tutte le possibili caratteristiche e compie tutti i possibili atti, senza che nessuno sia in grado di dire, salvo supporlo attraverso mere “costruzioni” teoriche, come possa incontrarsi con un “oggetto” e cominciare a intendersi con altri soggetti. Essere-nel-mondo significa sempre, per dirla in breve, essere nel mondo con i miei simili, essere con le altre esistenze (Mitdaseiende). Heidegger, postulando l’essere-nel-mondo come trascendenza, non soltanto ha superato la scissione tra soggetto e oggetto della conoscenza, non soltanto ha colmato lo hiatus tra Io e mondo, ma ha anche illuminato la struttura del soggetto come trascendenza, ha aperto un nuovo orizzonte di comprensione e ha dato impulso nuovo all’indagine scientifica sull’essere dell’uomo in genere e sui particolari suoi modi di essere. È dunque chiaro – e ciò mi preme particolarmente sottolineare – che in luogo della scissione dell’essere in soggetto (uomo, persona) e oggetto (cosa, ambiente) subentra qui, garantita dalla trascendenza, l’unità tra presenza e mondo.6
2. Il
problema della norma e il superamento
della distinzione tra “sano” e
“malato”
Partendo dall’essere-nel-mondo, invece che dal dualismo soggetto-oggetto, l’analisi esistenziale di Binswanger, grazie a questa nuova impostazione metodologica, raggiunge due obiettivi che una psicologia che voglia porsi come scienza “propriamente umana” non può assolutamente mancare.
Essi sono, in primo luogo, la possibilità di comprendere tanto l’“alienato” di mente quanto la persona “sana” come appartenenti allo stesso “mondo”, quantunque l’alienato vi appartenga con una struttura di modelli percettivi e comportamentali differenti. In questo modo l’alienato non è più colui che vive “fuori del mondo”, ma colui che nell’alienazione ha trovato l’unico modo per lui possibile di essere-nel-mondo, essendo l’alienazione null’altro che l’estremo tentativo di un uomo di diventare, nonostante tutto, se stesso.
In secondo luogo, la psicologia così impostata non ha più a che fare con una concezione astratta dell’uomo, come ad esempio l’homo natura della teoria psicoanalitica,7 ma con l’uomo salvato e garantito nella sua umanità di fronte a qualsiasi concettualizzazione scientifica riduttiva. L’analisi esistenziale fenomenologicamente fondata, infatti, non “comprende” in base a spiegazioni che riducono ciò che appare ai modelli concettuali anticipati, ma in base alla descrizione dei modi in cui si rivela l’esistenza umana (Dasein) nella sua inscindibile globalità e nei suoi aspetti costitutivi.
Una volta rifiutato il criterio normativo della psichiatria, che distingue la salute dalla malattia mentale in base a un sistema teorico anticipato, viene da chiedersi come può l’analisi esistenziale, che in tutte le manifestazioni sane o alienate vede altrettante possibilità propriamente umane, darsi un criterio normativo?
Per risolvere questo problema Binswanger si rifà al concetto heideggeriano di “comprensione (verstehen)” in base al quale, nell’incontro con le cose del mondo, l’esistenza ha una sua specifica modalità comprensiva (Umsicht) che si rivela nel modo di rendere significanti le cose stesse. La “significatività (Bedeutsamkeit)” che le cose assumono, in quanto investite dal progetto dell’esistenza, a parere di Heidegger mette allo scoperto da un lato “la struttura del mondo in cui l’Esserci come tale già da sempre è”,8 e dall’altro la progettualità dell’esistenza, che in tal modo diventa comprensibile nella sua essenza perché “della comprensione fa parte, in linea essenziale, il modo d’essere dell’Esserci in quanto poter-essere”.9 Il luogo privilegiato di questa comprensione è il linguaggio.
Del linguaggio, come è noto, si occupano anche la psichiatria e la psicoanalisi. La prima per verificarlo nella sua funzionalità onde scoprire eventuali disturbi della parola o del pensiero, la seconda per analizzarlo per quanto di biografico esso contiene o per quanto di simbolico offre all’interpretazione.
L’analisi esistenziale, invece, lascia essere il linguaggio per ciò che dice, onde potervi scorgere, nel modo di “significare (bedeuten)” il mondo, il progetto con cui l’esistenza al mondo si rapporta. In questo modo l’analisi esistenziale non “interpreta” l’uomo e neppure “spiega” le modalità del suo essere e le sue manifestazioni quotidiane, siano esse annoverate tra le “normali” o le “psicopatiche”, attraverso la loro misurazione sulla base di una teoria estrinseca all’individuo che accosta. Non ricorre, cioè, a una normativa meta-individuale, ma cerca la norma, cioè il criterio di comprensione dell’esistenza nell’esistenza stessa, che nel suo modo di vedere (Umsicht) e di indicare il significato (bedeuten) delle cose, offre da sé la chiave interpretativa del proprio modo di essere-nel-mondo.
Se si evita di ricondurre le manifestazioni dell’esistenza a un apparato interpretativo a essa estraneo, come quello di natura organicista tipico della psichiatria classica, o di natura biologica come lascia intendere la nozione freudiana di “libido”, se si evita di far riferimento a un concetto base di “salute” nosologicamente determinato, se non addirittura moralisticamente o politicamente caratterizzato, allora si concede all’esistenza di imporsi all’evidenza come essa è, e di descriversi nelle modalità che il suo linguaggio fedelmente lascia intendere.
Là dove l’esistenza non è pre-codificata da ipotesi interpretative anticipate ma è lasciata manifestarsi così come essa è, quelle che solitamente vengono rubricate come sue “carenze” o suoi “eccessi”, non appariranno come dis-funzioni, ma semplicemente come differenti funzioni con cui l’esistenza struttura se stessa, come diverse modalità di essere-nel-mondo e di progettare, nonostante tutto, un mondo.
3. Gli a priori esistenziali e la mediazione di Heidegger
L’essere-nel-mondo è ordinato da quegli a priori esistenziali che Heidegger ha segnalato in Essere e tempo, e precisamente in quelle pagine dove dice che ogni progetto nel mondo (Ent-wurf) è in relazione al proprio essere-gettato-nel-mondo (Ge-worfenheit), ogni oltrepassamento (Über-steigung) presuppone una fatticità (Faktizität) in cui e da cui trascendere, ogni esistenza è legata al suo esserci (Dasein) e quindi a una situazione (Situation) da cui e in cui esprimersi.10
Ora, prosegue Binswanger, quando l’essere gettato nel mondo ha il sopravvento sul progetto nel mondo, quando la fatticità domina la trascendenza, abbiamo una rottura nel modo d’essere dell’esistenza che, invece di esprimersi nella possibilità “propriamente sua” e perciò “autentica (eigen-tlich)”, resta ferma a una realtà costituitasi in una solidità intrascendibile. Affidandovisi, nell’incapacità di trascendere, l’esistenza rassegna il suo poter essere se stessa (Selbstseinkönnen) a una possibilità già data, a una possibilità inautentica, perché non sua, ma semplicemente fatta sua. È la vittoria della Geworfenheit sull’Entwurf, dell’essere-gettato sul pro-getto. È la deiezione (Verfallenheit) o caduta delle possibilità dell’esistenza nella ripetizione di possibilità già date. Allora le cose da invitanti diventano incombenti, da allettanti angoscianti, perché, scrive Binswanger:
In luogo di “padroneggiare” la situazione e di abbracciarla in tutte le sue relazioni di senso e di risolversi in conseguenza, la situazione si fa qui opprimente e sottrae all’esistenza il suo autodominio.11
In luogo della libertà di far sì che il mondo accada (Freiheit von Geschehenlassen von Welt) subentra la non libertà dell’essere dominati da un determinato progetto di mondo.12
Eppure tutto ciò non basta, perché, scrive Binswanger:
L’indagine fenomenologica e analitico-esistenziale in psichiatria non può ritenersi affatto conclusa con la sola descrizione degli aspetti caratteristici dei “mondi” dei malati mentali e della “struttura antropologica” delle “forme d’esistenza” contemplate dalla psichiatria. Bisogna invece, oltre a ciò, esaminare la peculiarità di questi mondi nel loro costituirsi, in altre parole, studiarne i momenti strutturali costitutivi e chiarirne le reciproche differenze costitutive.13
Qui non è il luogo di seguire Binswanger nell’analisi fenomenologica delle varie strutture trascendentali dell’esistenza, che sono poi le strutture indicate da Husserl e da Heidegger, a cui ho dedicato un’ampia trattazione nella terza parte di Psichiatria e fenomenologia.14 Qui si vuol solo precisare che queste strutture a priori esistenziali non sono delle caratteristiche dell’esistenza intese come suo avere, ma sono le modalità costitutive del suo essere, ciascuna delle quali manifesta l’intera esistenza in un particolare aspetto.
Ne consegue che gli alienati non hanno la schizofrenia, la mania o la malinconia, ma sono degli schizofrenici, dei maniaci o dei malinconici, perché la malattia mentale non appartiene alla sfera dell’avere, ma a quella dell’essere, e precisamente al modo di essere-nel-mondo. Di qui il capovolgimento metodologico che la fenomenologia di Husserl e l’analitica esistenziale di Heidegger segnalano alla psicologia. Scrive in proposito Husserl:
La fenomenologia ha quindi anche per la psicologia il significato di un cambiamento di costituzione. D’altronde la parte di gran lunga più notevole delle ricerche fenomenologiche appartiene a una psicologia intenzionale pura e a priori (ossia purificata da ogni carattere psicofisico). È questa la stessa psicologia che noi abbiamo ripetutamente indicato, in quanto permette, per il cambiamento dell’atteggiamento naturale in quello trascendentale, una rivoluzione copernicana, per cui assume il nuovo senso di una considerazione radicalmente trascendentale del mondo e informa di sé tutte le analisi fenomenologico-psicologiche.15
E Heidegger dal canto suo:
Lo stesso dicasi della psicologia le cui tendenze antropologiche sono innegabili. La mancanza di “fondamento” ontologico non può esser surrogata dall’inserimento dell’antropologia e della psicologia in una biologia generale. [...] Viene così posto l’accento su ciò che Husserl vuole significare quando afferma che la persona non è una cosa, una sostanza, un oggetto, per cui l’unità della persona esige una costituzione essenzialmente diversa da quella caratteristica delle cose naturali.16
In questo modo, sia Husserl sia Heidegger, propongono nell’analisi dell’esistenza, una forma di comprensione propriamente umana, che non si misura più sull’oggettivismo delle scienze naturali che partono dalla scissione io e mondo, perché da quella scissione la fenomenologia ha mostrato che è impossibile comprendere le modalità con cui l’io è al mondo. D’altra parte, come ci ricorda Binswanger:
La psicologia non ha a che fare con un soggetto privo del suo mondo (weltloses Subjekt) perché un simile soggetto non sarebbe altro che un oggetto, né tanto meno con la scissione soggetto-oggetto (Subjekt-Objekt-Spaltung) perché tale scissione non la si potrebbe intendere se non come avente alla base l’umana esistenza. La psicologia inizia quando comprende l’esistenza umana come originario essere-nel-mondo e considera i determinati modi fondamentali (bestimmte Grundweisen) in cui l’esistenza di fatto esiste (faktisch existiert).17
4. La produzione di significato e la mediazione di Sartre
Individuato il piano propriamente umano su cui condurre un’analisi psicologica, Binswanger declina in senso ontico l’analitica esistenziale di Heidegger che, come studio dell’essere e non dell’uomo, si trattiene sul piano ontologico, dove è possibile parlare dell’esistenza e non di questa o quest’altra esistenza. Scrive in proposito Binswanger:
Il discorso sull’essere-nel-mondo ha in Heidegger il carattere di una tesi ontologica, cioè di un enunciato su di un rapporto modale (Wesenverhalt) determinante l’esistenza in generale. Dalla scoperta e dalla definizione di questo rapporto modale di base l’analisi esistenziale ha tratto le sue sollecitazioni decisive, il suo fondamento e la sua giustificazione filosofica, nonché le sue direttive metodologiche. Tuttavia l’analisi esistenziale di per sé non è un’ontologia né una filosofia, essa pertanto non deve essere in alcun modo definita un’antropologia filosofica, l’unica definizione appropriata è quella di antropologia fenomenologica. L’analisi esistenziale non formula tesi ontologiche circa un rapporto modale che determini l’esistenza, ma soltanto degli enunciati ontici. Enunciati, cioè, su constatazioni fattuali circa le forme e le configurazioni (Gestalten) dell’esistenza, quali si presentano nella loro fatticità.18
Per effetto di questa declinazione ontica degli a priori esistenziali, Binswanger si allontana da Heidegger per avvicinarsi a Sartre, per il quale non si dà una struttura generale dell’essere umano, quale ad esempio la “cura (Sorge)” heideggeriana che definisce e costituisce l’essere come tale. Per Sartre ogni essere umano costruisce il significato del suo mondo di cui è responsabile. Infatti, scrive Sartre:
Noi scegliamo il mondo non nella sua ossatura, ma nel suo significato. [...] Questa scelta originaria del mondo crea tutti i motivi e tutti i moventi che possono condurci a delle azioni parziali, e dispone il mondo con i suoi significati, i suoi complessi-utensili e il suo coefficiente di avversità.19
Partendo da queste premesse, per Sartre non si può cambiare un proprio comportamento parziale se non cambiando il proprio modo di essere-nel-mondo, ossia quella originaria scelta di mondo che ogni individuo ha fatto e in cui si identifica. Nel famoso esempio dell’escursione in montagna con gli amici, Sartre, dopo aver desistito dall’impresa, afferma:
Non c’ è dubbio che io avrei potuto fare diversamente, ma non è questo il problema. Bisognerebbe piuttosto formulare il problema in questo modo: potevo io fare diversamente senza modificare sensibilmente la totalità organica dei progetti che io sono? [...] In altre parole: avrei potuto fare diversamente, senz’altro, ma a quale prezzo? Al prezzo di una trasformazione radicale del mio essere-nel-mondo.20
Ora l’a priori esistenziale di Binswanger, che sta alla base dei vari comportamenti di un individuo, riproduce esattamente il progetto originario di Sartre, un progetto che lo costringe a fermarsi perché, proseguire, dice Sartre: “Implicherebbe una conversione radicale del mio essere-nel-mondo, una brusca metamorfosi del mio progetto originario, un’altra scelta di me stesso e dei miei fini”.21 Tutto ciò non ha niente a che fare con il progetto heideggeriano, per il quale il significato dell’esperienza, degli oggetti, dell’ente non dipende da colui che conferisce significato, ma dall’essere che, come presenza originaria, è offerta di significati.
Il progetto sartriano è dunque il rovescio di quello heideggeriano, e ciò in conseguenza del fatto che per Sartre l’essere è quell’in sé di cui nulla si può dire o sperimentare, mentre l’ente è ciò che viene costituito dall’umano per sé per appropriazione. In una parola il progetto sartriano non sottintende l’heideggeriana differenza ontologica che coglie tra essere ed ente un rapporto di identità e differenza,22 ma si fonda sulla radicale differenza dell’essere dall’ente, l’uno impenetrabile nel suo significato, l’altro reso significante dal progetto umano.
Ora Binswanger, quando descrive la funzione costitutiva dell’esistenza e parla delle “direzioni di significato esistenzialmente unitarie (existentiell einheitlichen Bedeutungsrichtungen)”23 o dell’“aprioristica struttura dell’esistenza che rende possibili tutti i fenomeni (apriorische Daseinsstruktur die alle Phänomene ermöglicht)”,24 si avvicina a quella “psicoanalisi esistenziale” che Sartre espone nell’ultima parte de L’essere e il nulla, dove si legge:
Ciò che esigiamo – e che non si tenta mai di darci – è un vero irriducibile, cioè un irriducibile la cui irriducibilità sarebbe evidente per noi, e non presentata come il postulato dello psicologo o il risultato del suo rifiuto o della sua incapacità di spingersi più lontano, ma qualcosa la cui constatazione si accompagna in noi a un sentimento di soddisfazione. Questa esigenza in noi non proviene da quell’incessante inseguimento della causa, da quella regressione all’infinito che sovente si è descritta come costitutiva della ricerca razionale e che di conseguenza non sarebbe specifica dell’inchiesta psicologica, ma si troverebbe in tutte le discipline e in tutti i problemi. Non è la ricerca infantile di un “poiché” che non darebbe luogo ad alcun “perché?”. È invece una ricerca basata su di una comprensione pre-ontologica della realtà umana e sul rifiuto connesso di considerare l’uomo come analizzabile e come riducibile a dati primitivi, a desideri (o “tendenze”) determinati, sopportati dal soggetto come delle proprietà da un oggetto. [...] Questa unità, che è l’essere dell’uomo, è libera unificazione. E l’unificazione non può venir dopo una diversità che essa unifica.25
Ora se l’a priori esistenziale di Binswanger è la fonte del significato che le cose assumono per l’individuo e, lungi dall’essere il primo anello di una catena causale, è l’unità trascendentale del mondo dell’individuo che non viene dopo la diversità che essa unifica, l’analisi esistenziale di Binswanger riproduce la “psicoanalisi” di Sartre che, a differenza di quella di Freud che ha individuato nelle pulsioni il suo irriducibile, lascia che esso si annunci in un’intuizione evidente. Allora, prosegue Sartre:
I risultati così raggiunti, cioè i fini ultimi dell’individuo, potranno essere oggetto di una classificazione, ed è appunto sul confronto di questi risultati che potremo stabilire delle considerazioni generali sulla realtà umana in quanto scelta empirica dei propri fini. I comportamenti studiati da questa psicoanalisi non saranno solamente i sogni, gli atti mancati, le ossessioni e le nevrosi, ma anche e soprattutto i pensieri di quando si è svegli, gli atti riusciti e adatti, lo stile, eccetera. Questa psicoanalisi non ha ancora trovato il suo Freud.26
Forse il Freud atteso da Sartre è Binswanger, se è vero che la sua analisi esistenziale non cerca cause, ma piuttosto ciò che nell’individuo rende possibile che queste cause agiscano nel modo che la psicoanalisi freudiana ha accertato che agiscono. Si tratta allora di trovare l’a priori esistenziale che dischiude una certa visione del mondo, all’interno della quale e per la quale le cose acquistano un certo significato.
5. Psicoanalisi e analisi esistenziale
I rapporti tra psicoanalisi (Psycho-analyse) e analisi esistenziale (Daseins-analyse) sono stati finora di neutralità reciproca. Le relazioni di amicizia che legavano Binswanger a Freud e la profonda ammirazione di Binswanger per Husserl e Heidegger non favorirono una chiarificazione in questo senso. In una lettera del 7 ottobre 1926 Binswanger scrive a Freud:
Spero che non se ne abbia a male se io, in alcune questioni di primaria importanza, sono giunto a intuizioni che si scostano dalla scuola psicoanalitica, dopo che lei nel suo libro sull’angoscia ha nuovamente dimostrato come inesorabilmente abbandoni i suoi figli spirituali se essi non si accordano più con le sue intuizioni progressive. Queste mie vedute divergenti non riguardano la terapia come tale.27
Nelle pagine precedenti28 abbiamo segnalato, a proposito della psicoanalisi, una sconnessione tra impianto teorico da un lato e prassi terapeutica dall’altro, nel senso che la teoria psicoanalitica risponde all’ideale esplicativo che riduce le manifestazioni propriamente umane a epifenomeni di una realtà biologica indagabile con i metodi delle scienze naturali, mentre la prassi terapeutica dipende da quell’ideale di comprensione del modo propriamente umano di essere-nel-mondo a cui prima la psicopatologia di Jaspers e poi l’analisi esistenziale di Binswanger hanno dato un’adeguata espressione teorica.
A questo punto viene spontaneo chiedersi se non sia conveniente che la psicoanalisi abbandoni il suo impianto teorico, costruito sul modello delle scienze naturali, per sostituirlo con un’analisi fenomenologica, più idonea alla comprensione dell’umano e, di fatto, già operante in sede terapeutica. In altri termini, come già abbiamo ricordato, qui non proponiamo che l’analisi esistenziale esprima una prassi terapeutica, ma che la terapia psicoanalitica riconosca nell’analisi esistenziale fenomenologicamente fondata una possibilità per chiarire il proprio statuto epistemologico e per eliminare quella contraddizione che non consente alla prassi psicoanalitica di riconoscersi nell’impianto teorico che ha ereditato dalle scienze naturali. Questa possibilità è stata intravista da Franco Fornari che in proposto scrive: “Il metodo fenomenologico non si contrappone alla psicoanalisi, ma piuttosto sembra auspicabile per la sua fondazione come scienza rigorosa”.29
Dal canto suo Medard Boss afferma:
L’analitica esistenziale non può offrire allo psicoanalista pratico quasi nessun concetto, termine o espressione, bensì soltanto una maniera di atteggiarsi e di comportarsi di fronte ai pazienti e al processo curativo, una maniera molto riservata e perciò tanto più fondata e consapevole.30
Rispetto a Boss, Danilo Cargnello si spinge oltre e dice:
La psicoanalisi è soprattutto un metodo di psicoterapia e ha dunque per scopo fondamentale la “salute” dei pazienti, mentre l’analisi esistenziale ha precipuamente lo scopo di approfondire l’essenza fenomenologica e antropologica dei sintomi, delle sindromi e dei quadri della psicopatologia e della clinica psichiatrica, senza per questo precludersi eventuali sviluppi verso una metodologia terapeutica che la sua stessa apertura verso l’“umano” sembrerebbe additare.31
Anche se la fenomenologia e l’esistenzialismo non sono ancora approdati a una clinica, in compenso offrono la possibilità di comprendere la struttura dell’essere umano e la sua esperienza in termini che siano propriamente “umani” e non “naturalistici”. In questo modo rivelano come l’uomo struttura il suo modo di essere-nel-mondo, senza limitarsi, come la psicoanalisi, a rilevare come a livello umano si manifestano delle realtà fisiologiche.
6. L’onnipotenza della spiegazione scientifica
e l’impotenza della comprensione
fenomenologica
A questo punto tornano utili le figure heideggeriane dell’onnipotenza (Almacht) e dell’impotenza (Ohnmacht). Si tratta infatti di verificare se è più terapeutica l’onnipotenza della spiegazione scientifica, che riduce le manifestazioni linguistico-gestuali del paziente all’impianto teorico che presuppone, o l’impotenza della comprensione fenomenologica che le lascia essere (frei-lassen) per quello che sono, cioè possibilità umane di essere-nel-mondo.
Con l’onnipotenza il terapeuta può trovare la conferma delle sue teorie, con l’impotenza può concedere al suo interlocutore, forse per la prima volta, uno spazio per esprimersi, un luogo in cui liberare le sue possibilità. Solo così l’interlocutore agisce e non viene agito, può lasciar essere un mondo e non essere incatenato a un mondo, che non è quello che, sia pure in modo fallimentare, ha cercato di comprendere. In questo senso Jacob Needleman può dire che “la fenomenologia è l’arte di lasciar essere i fenomeni e può essere chiamata a giusto titolo la ‘salute’ della spiegazione, la garanzia della sua libertà”.32
Se però la fenomenologia rimane pura prassi terapeutica e non diventa statuto teorico, se ci si limita ad agire fenomenologicamente, ma si evita di pensare fenomenologicamente, cioè di comprendere le modalità umane (e non biologiche) di essere-nelmondo, che sono poi quelle strutture trascendentali con cui l’uomo dischiude quel tempo e quello spazio, non geometrici ma vissuti, in cui prende corpo quel progetto (Entwurf), quel modo di essere-nel-mondo a partire da quella situazione che è l’umano già-trovarsi-nel-mondo, in esso gettato (geworfen) perché non scelto; se cioè la fenomenologia resta puro atteggiamento e non assurge a teoria, se non accetta quei limiti che sono propri di ogni statuto teorico, diventa pura sovrabbondanza di dati, resi insignificanti proprio dalla loro disarticolata sovrabbondanza.
Come l’esistenza nel suo progetto del mondo non può dimenticare il suo essere-già-nel mondo, per cui, di fronte al ventaglio delle possibilità che le si dischiudono, sa che per realizzarne una deve rinunciare a molte, altrimenti, come lo psicotico maniacale, non raggiunge mai se stessa, non approda mai alla propria identità, così la fenomenologia, per non essere una pura realtà enciclopedica di dati, deve darsi un criterio riduttivo, che però non cerca fuori dalla sfera umana come la psicoanalisi che lo media dalle scienze naturali, ma lo riconosce all’interno di quella sfera, anzi, per essere più rigorosi, all’interno della psicosi che esamina, e precisamente nella norma che presiede tutte le manifestazioni dello psicotico.
E come la disposizione a trascendere, che è il tratto tipico dell’esistenza, non è un trasvolare sul mondo, ma è a un tempo un limitarsi, perché altrimenti sarebbe impossibile appropriarsi di un mondo, se in un certo senso è l’impotenza (Ohnmacht) a conferire all’esistenza una certa potenza (Macht) sul mondo, allora la fenomenologia deve ridurre la totalità di ciò che appare alla norma che presiede l’apparire.
Senza questo lavoro teorico, l’atteggiamento fenomenologico, esercitato solo a livello pratico, se da un lato, come scrive Needleman, “evita l’autismo schizofrenico di chi è posseduto da un solo mondo”, dall’altro non può evitare “lo stato maniacale di chi non approda mai a uno statuto finale”.33 Per questo non basta essere terapeuticamente fenomenologici, ma bisogna esserlo anche a livello teorico.
Per compiere il primo passo in questa direzione occorre demitizzare il modello esplicativo proprio delle scienze naturali e cominciare a dubitare della sua applicabilità all’esistenza umana. Questa mitologia, infatti, o è ingenua o è sospetta. Bacone, che tra i primi ne subì il fascino, non si lasciò sfuggire che in qualche modo “sapere è potere”.34 Ma per la comprensione dell’uomo forse è più utile la disposizione all’ascolto, all’apparenza impotente, di quanto non lo sia la presunta potenza dell’interpretazione.
1 L. Binswanger, Ausgewählte Vorträge und Aufsätze. Zur phänomenologische Anthropologie (1947); tr. it. Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1970.
2 K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie (1913-1959); tr. it. Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 2000, p. 818.
3 Cfr. il capitolo 12, § 1: “Il presupposto dualistico della psicoanalisi e l’ideale esplicativo”.
4 W. Dilthey, Einleitung in die Geisteswissenschaften (1883); tr. it. Introduzione alle scienze dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1974.
5 L. Binswanger, Traum und Existenz (1930); tr. it. Sogno ed esistenza, in Per un’antropologia fenomenologica, cit., p. 67.
6 Id., Über die daseinsanalytische Forschungsrichtung in der Psychiatrie (1946); tr. it. L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, in Il caso Ellen West e altri saggi, Bompiani, Milano 1973, pp. 22-23.
7 Alla concezione psicoanalitica dell’uomo come homo natura, L. Binswanger ha dedicato il saggio: Freuds Auffasung der Menschen im Lichte der Anthropologie (1936); tr. it. La concezione dell’uomo in Freud alla luce dell’antropologia, in Per un’antropologia fenomenologica, cit.
8 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, § 18, p. 165.
9 Ivi, § 31, p. 237.
10 Ivi, § 31, pp. 236-243.
11 L. Binswanger, Der Fall Ellen West. Eine anthropologische-klinische Studie (1945); tr. it. Il caso Ellen West, in Il caso Ellen West e altri saggi, cit., p. 99.
12 Id., L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, cit., p. 25.
13 Id., Melancholie und Manie. Phänomenologische Studien (1960); tr. it. Melanconia e mania. Studi fenomenologici, Boringhieri, Torino 1971, pp. 20-21.
14 U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 1979, Parte III: “Fenomenologia dell’alienazione”.
15 E. Husserl, Cartesianische Meditationen (1931); tr. it. Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1969, p. 160.
16 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 10, pp. 114-116.
17 L. Binswanger, Heraklits Auffassung des Menschen (1935); tr. it. La concezione eraclitea dell’uomo, in Per un’antropologia fenomenologica, cit., p. 101.
18 Id., L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, cit., p. 20.
19 J.-P. Sartre, L’être et le néant (1943); tr. it. L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 1965, pp. 561-563.
20 Ivi, p. 562.
21 Ibidem.
22 M. Heidegger, Identität und Differenz (1957); tr. it. Identità e differenza, Parte I: “Il principio d’identità”, in “Teoresi”, 1966, pp. 8-22; Parte II: “La concezione onto-teo-logica della metafisica”, in “Teoresi”, 1967, pp. 215-235.
23 L. Binswanger, Lebensfunktion und innere Lebensgeschichte (1928); tr. it. Funzioni di vita e storia della vita interiore, in Per un’antropologia fenomenologica, cit., p. 54.
24 Id., Schizophrenie, Nescke, Pfullingen 1957, p. 646.
25 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., pp. 673-674.
26 Ivi, p. 690.
27 L. Binswanger, Erinnerungen an Sigmund Freud (1956); tr. it. Ricordi di Sigmund Freud, Astrolabio, Roma 1971, p. 78.
28 Cfr. il capitolo 12, § 3: “La contraddizione fra teoria psicoanalitica e prassi terapeutica”.
29 F. Fornari, La vita affettiva originaria del bambino, Feltrinelli, Milano 1971, p. 86.
30 M. Boss, Psychoanalyse und Daseinsanalytik (1957); tr. it. Psicoanalisi e analitica esistenziale, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1973, p. 86.
31 D. Cargnello, “Nota alla seconda edizione” (1975) di Alterità e alienità, Feltrinelli, Milano 1966, p. 19.
32 J. Needleman, Critical Introduction to Existenzial Psychoanalysis of Ludwig Binswanger, in L. Binswanger, Being in the World (1963); tr. it. Introduzione critica all’analisi esistenziale di Ludwig Binswanger, in L. Binswanger, Essere nel mondo, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1973, p. 141.
33 Ivi, p. 142.
34 F. Bacone, Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum (1620); tr. it. La grande instaurazione, Parte seconda: Nuovo organo, in Scritti filosofici, Utet, Torino 1986, I, 3, p. 552.