12. Il paradigma esistenziale come superamento del dualismo antropologico
Occorre qui illustrare ed evitare gli errori seducenti in cui sono caduti Cartesio e i suoi successori.
E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane (1931), p. 6.
1. Il presupposto dualistico della psicoanalisi e l’ideale esplicativo
La crisi della psichiatria e i sospetti che avvolgono la psicoanalisi non sono del tutto infondati. Sia l’una che l’altra, infatti, derivano i loro modelli concettuali da quello schema che Cartesio ha introdotto e che la scienza ha fatto proprio quando, per i suoi scopi esplicativi, ha lacerato l’uomo in anima (res cogitans) e corpo (res extensa), producendo quello che, secondo Binswanger, è “il cancro di ogni psicologia”.1
Questa divisione così radicale non è qualcosa di originario che si offra all’evidenza fenomenologica, ma è un prodotto della metodologia della scienza la quale, consapevole che il suo potere e la sua efficacia si estendono esclusivamente nell’ordine quantitativo e misurabile della res extensa, è costretta a ridurre lo psichico a epifenomeno del fisiologico che in psichiatria Griesinger chiama “apparato cerebrale”2 e in psicoanalisi Freud chiama “ordine istintuale”.3 Ciò che ne nasce non è una psicologia che, direbbe Jaspers, “comprende (verstehen)” l’uomo per come si dà, ma una psico-fisiologia che lo “spiega (erklären)” come si spiega qualsiasi fenomeno della natura.
Ma per spiegare l’uomo come fenomeno della natura occorre oggettivarlo e considerare la psiche non come un atto intenzionale, ma come una cosa del mondo da trattare secondo le metodiche oggettivanti che sono proprie delle scienze naturali. Ora se la psicologia oggettiva lo psichico e, come fa la fisiologia con gli organi corporei, lo tratta come cosa in sé che non si trascende in altro, la psicologia, per allinearsi al modello delle scienze naturali, perde la specificità dell’umano e quindi ciò a cui essa è naturalmente ordinata.
Il primo a rendersi conto che la psicologia deve abbandonare l’ideale esplicativo perseguito nelle scienze naturali fu Jaspers che, nella sua Psicopatologia generale del 1913, denunciò il carattere riduttivo di ogni spiegazione, la quale, a differenza della comprensione che si accosta a ciò che ha da comprendere in modo da scorgere le strutture che emergono dal suo versante e non dal versante di chi indaga, riduce ciò che appare a ciò che essa considera le leggi ultime o la realtà ultima dei fenomeni che appaiono. Per questo, precisa Jaspers: “È possibile spiegare qualcosa senza comprenderlo”,4 perché ciò che viene spiegato è semplicemente ridotto a ciò che è anteriormente supposto.
Così dicendo, Jaspers non nega che la spiegazione comprenda qualcosa, ma siccome il valore della sua comprensione dipende dalla realtà e dalla verità di ciò che è stato supposto, e a cui ciò che appare viene correlato, ricondotto, ridotto, trasformato, i fenomeni spiegati sono “compresi come se (als ob)”. A questa comprensione “come se” Jaspers riconduce sia le spiegazioni della psichiatria classica che erano possibili solo supponendo il meccanicismo anatomico-fisiologico, sia la psicoanalisi di Freud il cui ordine di spiegazione è comprensibile solo supponendo, alle spalle dei fenomeni, la libido istintuale.
Nel tentativo di costruire una psicologia sul modello delle scienze naturali, perché convinto che solo la metodologia di queste scienze potesse offrire intorno all’uomo un sapere rigoroso analogo a quello raggiunto nell’ordine delle cose, Freud, sorretto da questa pre-cognizione che dall’inizio alla fine guiderà la sua analisi psicologica, scrive che:
Il compito consiste nello scoprire, dietro le proprietà o qualità dell’oggetto d’indagine che immediatamente si offrono alla nostra percezione, qualche altra cosa che sia più indipendente dalla particolare capacità recettiva dei nostri organi di senso e più si avvicini a quella che riteniamo essere la vera realtà delle cose.5
Assumendo l’ipotesi congetturata come più reale del fenomeno percepito, Freud mostra chiaramente di attenersi all’ideale esplicativo delle scienze naturali, dove la molteplicità fenomenica è ridotta allo schema anticipato come chiave interpretativa per la lettura dei fenomeni. Lo schema poi che lavora acriticamente alle spalle di Freud è la concezione filosofica cartesiana secondo cui la realtà ci è nota solo in due modi: sotto il profilo della res extensa e sotto il profilo della res cogitans. Sempre nel Compendio, si legge:
Di ciò che chiamiamo la nostra psiche (o vita psichica) ci sono note solo due cose: innanzitutto l’organo fisico e lo scenario in cui quest’ultimo svolge la sua attività, il cervello (o sistema nervoso), e in secondo luogo i nostri atti coscienti, che sono dati immediatamente e che nessuna descrizione potrebbe farci comprendere più da vicino.6
Da questi due dati ultimi Freud ricava le due ipotesi che sono alla base dell’intera teoria psicoanalitica. La prima consiste nell’assumere che “la vita psichica è la funzione di un apparato, al quale attribuiamo la proprietà di essere esteso nello spazio e composto di più parti”,7 la seconda consiste nell’inferire dalla constatata “lacunosità nella serie degli atti coscienti” che “lo psichico è in sé inconscio”.8
Ma qui tanto il giudizio che c’è una “lacunosità nella serie degli atti coscienti”, quanto l’inferenza che “lo psichico è in sé inconscio” poggiano sull’accettazione indiscussa del presupposto scientifico secondo il quale la realtà esiste sempre e soltanto nella forma di una causalità rigorosa e senza lacune, per cui, se non è dato di constatare questa causalità a livello di coscienza, bisognerà affermarla a livello inconscio.
Da queste premesse risulta evidente che l’inconscio non è una realtà psichica, ma è un prodotto del metodo con cui Freud ha affrontato questa realtà. Infatti, senza l’accettazione indiscussa dell’ipotesi causale, gli sarebbe stato impossibile “constatare” la lacunosità della vita cosciente e inferire l’esistenza di un altro livello dove poter reperire i supposti nessi privi di lacune.
Siccome l’inconscio, in quanto inconscio, è per definizione inverificabile, si possono supporre in esso tutti quei “nessi privi di lacune” richiesti dall’ipotesi causale, e questo non tanto per “comprendere” la vita psichica, quanto per “spiegarla” secondo l’ideale esplicativo delle scienze naturali.
Alla base poi della concezione che intende la vita psichica come “la funzione di un apparato” c’è l’accettazione acritica e inconsapevole del dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa che, distruggendo l’originaria unità dell’uomo, porta a concepire come entità in sé, appartenenti a un “apparato psichico” a sua volta chiuso in se stesso, quelle che in realtà sono modalità di relazione dell’originario rapporto dell’uomo con il mondo, che già Brentano9 e dopo di lui diffusamente Husserl10 avevano indicato come intenzionalità della coscienza.
Intesa la coscienza come una cosa (res cogitans)invece che come un atto intenzionale, si comprende come Freud possa trattare le qualità psichiche come se fossero oggetti fisici, fino a supporre ad esempio che i sentimenti possano essere spostati da una persona all’altra (transfert) come si spostano le cose. In effetti il concetto di transfert, così come quello di proiezione, ci sono divenuti a tal punto familiari che rischiamo di non vedere neppure le difficoltà teoriche implicite in essi. Come è possibile, infatti, che un’entità psichica, quale ad esempio un mio sentimento ostile, appartenente a uno spazio interiore, soggettivo e privato come è appunto l’“apparato psichico” possa uscire da me e fissarsi su uomini e cose, fino a fondersi con essi, al punto che gli elementi costitutivi della mia psiche vengano percepiti come realtà esteriori?
In un contesto dualistico dove la res cogitans non è un’originaria apertura sul mondo, ma un “apparato” chiuso in se stesso, perché costruito sui modelli fisici della res extensa, è impossibile spiegare il meccanismo della proiezione se non ricorrendo a quell’elemento inverificabile dell’apparato psichico che è l’inconscio, la cui realtà, ancora una volta, non si impone per la sua evidenza, ma per una richiesta della metodologia adottata.
Ora, siccome non esistono sentimenti in sé indipendenti dalle cose sentite o dagli uomini percepiti, i concetti di proiezione e di transfert o vengono riformulati all’interno dell’originaria apertura della coscienza all’essere, o altrimenti, se si mantiene l’ipotesi dualistica, hanno un significato chiaramente costruito sui modelli concettuali della fisica, per cui, finché mantengono questo legame, non sono concetti psicologici.
Lo stesso si può dire del concetto di conversione o somatizzazione, con cui si cerca di spiegare il trasferimento di una malattia psichica agli organi corporei. Anche alle spalle di questo concetto c’è il dualismo cartesiano di anima e corpo che Cartesio, dopo aver separato, ha cercato di unificare con l’ipotesi della ghiandola pineale che ancor oggi per molti versi è ritenuta un’ipotesi probabile.
Ora non si chiede a chi si occupa di scenari psichici di disporre di una competenza filosofica, ma solo di essere consapevole che quando parla di “conversione” o di “somatizzazione” egli considera risolti molti problemi in realtà oscuri, solo perché alle sue spalle funziona una teoria bell’e pronta secondo cui l’uomo ha un corpo e un’anima misteriosamente in rapporto tra loro. Quando la fenomenologia riuscirà a darci una più plausibile definizione dell’uomo, il concetto di “conversione”, come quello di “transfert” e di “proiezione” perderanno il loro significato.
2. La fenomenologia e il superamento del dualismo antropologico
A questo punto è necessario rivedere la concezione che fa dell’uomo un composto di anima e corpo. Il dualismo antropologico, infatti, non riproduce la modalità con cui l’uomo si è originariamente riconosciuto, ma è un modello concettuale inaugurato da Platone. Prima di lui, il mondo greco e la tradizione ebraica, le due grandi correnti di pensiero che hanno dato volto all’Occidente, non conoscevano questo dualismo. Il controllo del linguaggio omerico, della tradizione sciamanica, dei poeti lirici da un lato e l’esplorazione semantica dei termini biblici dall’altro ci hanno convinto che, prima di Platone, gli antichi non concepivano l’uomo come un’anima che ha un corpo, ma come un corpo che è in relazione con il mondo.11
Di questa relazione il corpo è espressione, simbolo, manifestazione nel linguaggio, nel riso, nel pianto, nel gesto, nel canto, nella danza, nella sofferenza, dove a esprimersi non è il corpo come parte dell’uomo, ma l’uomo nella sua totalità, che nel corpo vive il suo esser qui e non là, il suo ora e non allora, in una parola: la sua situazione, il “ci (da)” del suo “Esser-ci (Da-sein)”. Come esserci, per esprimerci nel linguaggio dell’esistenzialismo, l’uomo raccoglie nel corpo l’ordine della sua situazione ambientale (Um-welt) e la possibile estensione della sua convivenza (Mit-welt), per cui la relazione fondamentale non è quella che da Platone in poi si è pensato di riconoscere nel misterioso rapporto tra anima e corpo, ma in quella quotidianamente verificabile tra corpo e mondo.
Quando Husserl dice che: “Gli spiriti sono qui dove sono i corpi, nello spazio e nel tempo naturali, ogni volta e fintanto che i corpi sono corpi viventi”12 invita a un superamento del dualismo antropologico greco che, ribadito dalla scissione cartesiana dell’uomo in res cogitans e res extensa, si è rivelato fecondo per le discipline matematico-fisiche, ma disastroso per la psicologia che ancora non sa come connettere quelle due realtà, anima e corpo, che l’impostazione dualistica ha separato.
Il nuovo ordine concettuale che Husserl ha ricavato dalle sue pazienti analisi sul mondo della vita (Lebenswelt) è quindi fra i modelli antropologici il più antico e originario, se è vero che è reperibile e operante nelle prime espressioni del mondo greco e della tradizione biblica che hanno improntato dei loro sensi e dei loro significati l’intero Occidente.
Ora questa terra della sera (Abends-land), questa civiltà al tramonto per una sorta di infedeltà alle sue origini,13 è orgogliosa di un progresso che, in realtà, è cresciuto sulla lacerazione dell’uomo, sulla sua divisione in anima e corpo, spirito e materia, in stretta osservanza al modello dualistico di origine platonica, a cui forse è da ricondurre il senso ultimo di ogni lamentata alienazione.
3. La contraddizione fra teoria psicoanalitica e prassi terapeutica
Se infatti seguiamo da vicino i testi della psichiatria classica e della psicoanalisi freudiana e junghiana è possibile constatare come la teoria di queste scienze psicologiche, costruite sul modello dualistico che Platone ha introdotto e Cartesio ha radicalizzato, sia contraddetta dalla loro prassi terapeutica che non si ispira al modello “esplicativo” delle scienze naturali, ma a quello “comprensivo” delle scienze umane fenomenologicamente fondate. Lo riconosce lo stesso Freud là dove, parlando dei principi che presiedono la sua teoria psicoanalitica, dice:
Questi principi non costituiscono la base della scienza sulla quale poggia tutto il resto; solo all’osservazione spetta questa funzione. Essi non sono le fondamenta, ma piuttosto il tetto dell’intera costruzione e si possono sostituire e asportare senza correre il rischio di danneggiarla. È quel che sta accadendo anche alla fisica contemporanea, le cui vedute di fondo relative alla materia, ai centri di forza, all’attrazione e così via, sono poco meno dubbie delle corrispondenti vedute della dottrina psicoanalitica.14
Separata la teoria scientifica dalla prassi terapeutica, e trovata nella provvisorietà che accompagna ogni processo e ogni assestamento scientifico la ragione che rende opportuna questa separazione, Freud depone le vesti del naturalista, che procede secondo i modelli concettuali desunti dalla fisica e dalla biologia, per assumere quelle del fenomenologo che si dispone di fronte alla globalità dell’uomo quale si dà nella sua originaria e immediata presenza.
Nel rapporto terapeutico, infatti, ciò che Freud ha presente non è la libido del paziente che, dai suoi riferimenti biografici, viene trasferita sull’analista, ma il modo di essere al mondo del paziente, che con l’analista vive, senza bisogno di trasferire nulla, quell’unica modalità di rapportarsi all’altro che fin da piccolo ha appreso nei suoi precedenti rapporti senza riuscire a modificarla. Per lui il passato non è passato, ma sostanzia il presente, fino a decidere le modalità con cui ogni volta si rapporta al prossimo. Il passato non è reso presente perché il paziente lo rievoca, ma perché lo vive nella qualità dell’espressione, nel tratto del gesto, nella fisionomia del volto.
Tutto ciò è reso possibile non dalla libido, ma da quell’originario poter-essere-insieme l’uno con l’altro, da quel mutuo e reciproco esser-aperto che, come vedremo, è una delle modalità trascendentali della condizione umana che la fenomenologia di Husserl e l’analitica esistenziale di Heidegger hanno scoperto e illustrato.
Il transfert e il controtransfert, che Freud pone al centro del suo metodo terapeutico, non sono allora uno scambio di correnti pensate secondo i modelli concettuali della fisica, ma sono espressione di quella struttura trascendentale dell’umano, per cui ogni esistenza è originariamente una co-esistenza (Mit-dasein)che dischiude uno spazio psichico o vissuto (erlebt) che è poi il mondo che si ha in comune (Mit-welt).
Se questo è vero, il paziente non guarisce perché l’analista gli indica le “causalità inconsce” che hanno determinato le sue manifestazioni morbose. Infatti, che il paziente sappia qui è inessenziale, perché decisivo è che viva in quel mondo-ambiente (Um-welt) che incondizionatamente accetta il suo modo abituale di darsi il tempo (Zeitigung), di dispiegare intorno a sé lo spazio (Raumgebung), così che in questa verifica dei suoi a priori esistenziali possa constatare e, se crede, modificare il suo modo consueto di essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein).
Ma se questa è la prassi terapeutica non si vede come possa essere dedotta dal fisicalismo e dal biologismo che strutturano l’impianto teorico della psicoanalisi. Per cui delle due l’una: o non c’è connessione fra teoria e prassi, oppure, se si è convinti che la connessione esiste, bisogna chiarire qual è la posizione epistemologica della psicoanalisi, in che cosa consiste il suo deuten, il suo interpretare, che cosa la rende idonea a un trattamento umano nonostante i suoi principi teorici riducano l’uomo a natura.
La risposta è che la nozione di uomo implicita nella terapia psicoanalitica non ha nulla a che fare con la nozione di uomo che la teoria psicoanalitica ha ottenuto per derivazione diretta dalle scienze naturali cartesianamente impostate, ma se mai ha a che fare con la costituzione umana quale è deducibile dalla fenomenologia trascendentale di Husserl e dall’analitica heideggeriana dell’esserci (Dasein), per cui la Daseins-analyse è il corretto piano teorico da cui è deducibile il trattamento terapeutico della Psycho-analyse. Evidentemente una conclusione del genere è comprensibile solo se si abbandona il dualismo cartesiano che, dopo aver diviso l’uomo in res cogitans e res extensa, è incapace di ricomporlo, e si accede a quella visione fenomenologica per cui l’uomo non è un ente del mondo, espressione come tutti gli enti di anonime forze della natura, ma è quell’essere originariamente aperto alla comprensione del mondo (In-der-Welt-sein), senza di cui è impossibile la nascita dell’esperienza e quindi l’accadere di un senso e di un significato di natura “psicologica”.
4. L’analisi esistenziale fenomenologicamente fondata
“Si tenga ben fermo che cosa significa essere un uomo.”15 Questo è il compito che Binswanger, amico di Freud e profondo conoscitore di Husserl e di Heidegger, assegna alla psicologia che voglia riscattarsi dal dualismo di anima e corpo introdotto da Platone e che, nella forma della res cogitans e della res extensa, Cartesio riprese e pose a fondamento di ogni costruzione scientifica.
Il suo punto di partenza è l’esistenza (Dasein) nel suo originario essere nel mondo (In-der-Welt-sein), senza distinzione tra “sano di mente” e “alienato”, perché sia l’uno che l’altro appartengono allo stesso “mondo”, anche se l’alienato vi appartiene in un modo diverso, per il differente strutturarsi, nel suo rapporto col mondo, dei modelli percettivi, comprensivi e comportamentali.
Una volta intesa l’alienazione come l’estremo tentativo di un’esistenza di realizzare nonostante tutto se stessa, l’alienato non è più colui che vive “fuori dal mondo”, ma colui che, nell’alienazione, ha trovato l’unico modo per lui possibile di esserenel-mondo.
Evitando di sovraccaricare l’esistenza di una struttura teorica a essa estranea, per lasciare che si imponga all’evidenza così come essa è, ciò che appare non saranno le sue “carenze” o i suoi “eccessi”, ma i suoi modi d’essere che, là dove l’esistenza non è pre-codificata, non si riveleranno come dis-funzioni, ma semplicemente come funzioni di una certa strutturazione dell’esistenza, ossia di un certo modo di essere-nel-mondo e di progettare un mondo.
In questo modo si può rinunciare a privilegiare un mondo rispetto a un altro, il mondo del “sano” rispetto al mondo del “malato”, e per distinguere nel loro specifico costituirsi i “mondi” delle diverse forme dell’alienazione mentale sarà sufficiente, senza ricorrere ad alcuna visione del mondo precostitutivamente assunta a norma o modello, scoprire le incrinature presenti nelle strutture trascendentali che presiedono la formazione di un mondo. Tali sono le strutture con cui l’esistenza (Dasein) si temporalizza (zeitigt), si spazializza (raumgibt), si mondanizza (weltlicht), co-esiste (Mit-da).
Le figure dell’analitica esistenziale di Heidegger consentono a Binswanger di esprimere il concetto di alienazione mentale non più in rapporto a uno schema metaindividuale, magari di natura biologica come la libido freudiana, né in riferimento a un concetto base di “salute” nosograficamente determinata, se non addirittura moralisticamente o politicamente caratterizzata, ma in base a quell’elemento normativo, comune sia al “sano” sia al “malato”, che è il modo propriamente umano di essere-nel-mondo come e-sistenza, come progetto trascendente.
Limitandoci a cogliere senza alcuna pre-cognizione il modo di rivelarsi dell’esistenza, si constata che là dove l’esistenza non assume più le cose nel progetto (Entwurf) che la definisce, ma si abbandona alla propria fatticità (Faktizität), considerandosi come gettata tra le cose (Geworfenheit), allora il mondo della cosa (Dingswelt) realizza, negandola, la possibilità in cui si esprime l’umana esistenza.
La vita non scorre più perché la possibilità di trascendere è rimasta ancorata alla presenza costituitasi. Nel rapporto col mondo (Verweltlichung)l’esistenza nega se stessa come autentica possibilità di sé (Selbstseinkönnen), per cadere in un determinato progetto di mondo in cui si sente deietta (verfallen) o, come dice Binswanger:
In luogo della libertà di far sì che il mondo accada (Freiheit von Geschehenlassens von Welt), subentra la non libertà di essere dominati da un determinato progetto di mondo.16
Da queste premesse si deduce che il malato non ha una malattia, ma è al mondo in una modalità che l’esistenza conosce come suo limite, quando non riesce a esprimersi come esistenza che si trascende in un pro-getto (Ent-wurf), ma solo come esistenza gettata (Ge-worfen).
5. Il
capovolgimento metodologico e il recupero
della soggettività umana dall’oggettivazione
psicoanalitica
Abbandonato il presupposto naturalistico che considera l’uomo non per quella sua specificità che è la comprensione del mondo, ma per ciò che ha di comune con gli altri enti di natura che sono al mondo senza comprenderlo, la fenomenologia di Husserl e l’analitica esistenziale di Heidegger sono in grado di additare alla psicologia quel capovolgimento metodologico che la fa nascere come scienza umana e la riscatta da quel livello psicofisiologico in cui s’erano trattenute sia la psichiatria classica sia la teoria psicoanalitica le quali, accogliendo acriticamente il dualismo cartesiano di anima e corpo e la scissione io e mondo, si sono trovate nell’impossibilità di comprendere le modalità con cui l’io è al mondo e quindi di esprimere l’essenza dello psichico. Per questo Husserl può dire che:
La fenomenologia ha quindi anche per la psicologia il significato di un cambiamento di costituzione. D’altronde la parte di gran lunga più notevole delle ricerche fenomenologiche appartiene a una psicologia intenzionale pura e a priori (ossia purificata da ogni carattere psicofisico). È questa la stessa psicologia che noi abbiamo ripetutamente indicato, in quanto permette, per il cambiamento dell’atteggiamento naturale in quello trascendentale, una rivoluzione copernicana, per cui assume il nuovo senso di una considerazione radicalmente trascendentale del mondo e informa di sé tutte le analisi fenomenologico-psicologiche.17
Interpretando la “rivoluzione copernicana” di Husserl, Binswanger osserva che se non si accede al livello trascendentale indicato dal metodo fenomenologico, il dualismo psicofisico e la scissione soggetto-oggetto non consentono alla psicologia di costituirsi perché:
La psicologia non ha a che fare con un soggetto privo del suo mondo (weltloses Subjekt) perché un simile soggetto non sarebbe altro che un oggetto, né tanto meno con la scissione soggetto-oggetto (Subjekt-Objekt-Spaltung) perché tale scissione non la si potrebbe intendere se non come avente alla base l’umana esistenza. La psicologia inizia quando comprende l’esistenza umana come originario essere-nel-mondo e considera i determinati modi fondamentali (bestimmte Grundweisen) in cui l’esistenza di fatto esiste (faktisch existiert).18
I rapporti tra psicoanalisi (Psycho-analyse) e analisi esistenziale (Daseins-analyse) sono stati finora di neutralità reciproca. Quello che in queste pagine proponiamo non è che l’analisi esistenziale esprima una prassi terapeutica, ma che la terapia psicoanalitica riconosca nell’analisi esistenziale fenomenologicamente fondata una possibilità per chiarire il proprio statuto epistemologico e per eliminare quella contraddizione che non consente alla prassi psicoanalitica di riconoscersi nell’impianto teorico che ha ereditato dalle scienze naturali.
E questo perché sia la fenomenologia sia l’esistenzialismo, sia pure tradotti su quel piano che Binswanger chiama “ontico”, non sono un metodo terapeutico, ma un tentativo di comprendere la struttura dell’essere umano (Dasein)e la sua esperienza (Daseinserfahrung) in termini che siano propriamente “umani” e non “naturalistici”, che rivelino cioè come l’uomo struttura il suo modo di essere-nel-mondo, e non come a livello umano si manifestano delle realtà fisiologiche.
Perseguendo questo itinerario, non solo si riscatta la psicologia dalla psicofisiologia, ma si fornisce anche un adeguato fondamento alle tecniche psicoterapeutiche, evitando il rischio tanto frequente dell’oggettivazione dell’uomo, implicito in ogni metodo che si ispira a modelli concettuali di stampo naturalistico.
In questo senso non è paradossale dire che ogni psicoterapeuta è fenomenologo nella misura in cui è buon terapeuta, ma per evitare i pericoli di ogni atteggiamento inconsapevole che, dietro le spalle, senza saperlo, lascia lo spazio alle più disparate teorie, lo si statuisca teoricamente, anche se l’adozione del metodo fenomenologico non concede più alla psicoanalisi di spiegare la totalità dell’umano, ma semplicemente di comprendere qualcosa a livello umano.
L’adozione del metodo fenomenologico comporta la destituzione dei modelli concettuali offerti dalle scienze naturali, soprattutto per quanto riguarda la loro applicabilità al mondo umano. Insistervi è ingenuo o sospetto. Non si dimentichi, infatti, che l’entusiasmo di Bacone per il nuovo metodo della scienza non era disgiunto dall’intuizione che in qualche modo “sapere è potere”.19
Se non vogliamo “sospettare” la psicoanalisi, ma vogliamo riconoscerle l’“innocenza”, dobbiamo chiederle di sacrificare, a livello teorico, l’ideale esplicativo e riduttivo delle scienze naturali, altrimenti assisteremmo a quello spettacolo paradossale della nostra storia, che Husserl denuncia là dove dice che l’uomo, dopo aver ideato le scienze naturali, ha finito con l’intendere se stesso a partire da quell’ideazione, cioè dallo schema che s’era fatto per interpretare la natura.20
Se “alienazione” significa allontanamento (Ent-fremdung)dell’uomo da sé, forse non c’è alienazione più grande di quella che oggi l’uomo patisce sotto il potere incontrastato della scienza. Sembra infatti che la crisi del nostro tempo, a cui la fenomenologia e l’esistenzialismo tentano di reagire, consista proprio nel pericolo che l’uomo appartenga alla scienza più di quanto la scienza non appartenga all’uomo, e, da metodo escogitato dall’uomo per l’interpretazione della natura, la scienza assurga al livello di indiscusso a priori esistenziale in grado di decidere il modo umano di vivere e di pensare, e quindi, in un senso profondo e crudamente letterale, che l’uomo “perda la sua mente”.
6. Il recupero del corpo e il mondo della vita
Per non “perdere la mente” non è necessario ritornare all’antico concetto di “anima” perché, ce lo ricorda Husserl:
L’anima è il residuo di un’astrazione preliminare del puro corpo. Dopo questa astrazione essa non è, almeno apparentemente, che un elemento integrativo del puro corpo.21
Si tratta allora di approfondire quell’immagine del corpo che la fenomenologia è in grado di offrire in netta antitesi con l’immagine costruita dalla scienza, dove non ci è dato di incontrare il corpo come noi lo viviamo, ma solo una sua definizione riduttiva e limitata a ciò che è compatibile con le ipotesi e i metodi che la scienza riconosce come suoi. Questa differenza è a più riprese ribadita da Husserl, per il quale “tra i corpi di questa natura trovo il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico (Körper), ma corpo vivente (Leib)”.22
Se Leib deriva dall’antico leiben, da cui leben, cioè vivere, non possiamo pensare che il corpo assuma rilevanza psicologica se lo conosciamo cartesianamente come “pura estensione e movimento” e non come quell’intenzionalità, dalla scienza mai tematizzata, che ha nel mondo il suo correlato e il suo indispensabile ambiente.
Inteso come un edificio chimico o biologico, il corpo è infatti il risultato che si ottiene, in modo riduttivo, dal pensiero oggettivante che conosce solo gli oggetti che costruisce in base ai metodi di cui dispone; per cui se i metodi sono quelli della scienza chimica o della scienza biologica, il corpo che si otterrà sarà una composizione chimica o una struttura biologica.
Accade però che l’esperienza originaria che noi abbiamo del nostro corpo, il nostro modo di sentirlo e di viverlo non sia né di ordine chimico né di ordine biologico, ma appartenga all’ordine di quell’esperienza per la quale noi sentiamo il nostro corpo come una certa potenza sul mondo e il mondo come il punto d’appoggio del nostro corpo, in quell’implicanza reale per cui ho la posizione degli oggetti tramite quella del mio corpo e la posizione del mio corpo tramite quella degli oggetti del mondo.
Fare di questa implicanza reale un prodotto della coscienza, che, come unica soggettività, riduce il corpo e il mondo a suoi oggetti, significa far passare per originaria una sua rielaborazione astratta, e ipocrita per giunta, perché, senza menzionarlo, sottintende, al suo punto di vista che riduce il mio corpo a oggetto del mondo, il punto di vista del mio corpo, senza il quale un mondo non si disporrebbe intorno a me e nulla comincerebbe a esistere.23
L’enunciato di Sartre, “lo psichico è il corpo”,24 a questo punto diventa comprensibile, a condizione però che il corpo non sia inteso platonicamente come una materia inerte a disposizione dell’anima, o come un mero segno fisico di trascendenti significati psichici, ma come ci invita a pensarlo la fenomenologia quando, al dualismo anima e corpo, sostituisce quell’originaria correlazione corpo-mondo, per cui noi ci sentiamo al mondo non come corpi estesi (Körper), ma come corpi viventi (Leib) che si immettono in quella corrente di desiderio che produce l’azione e fa del corpo non l’ostacolo da superare, ma il veicolo nel mondo.
Forse l’essenza dell’alienazione è da ricercarsi proprio là dove il corpo non rinvia ma trattiene, dove è vissuto come l’impedimento da superare per essere al mondo, quell’impedimento che ciascuno può diventare a se stesso nel momento in cui si nega come apertura originaria.
1 L. Binswanger, Über die daseinsanalytische Forschungsrichtung in der Psychiatrie (1946); tr. it. L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, in Il caso Ellen West e altri saggi, Bompiani, Milano 1973, p. 22.
2 W. Griesinger, Leherbuch der Pathologie und Therapie der Psychischen Krankheiten (1845), Braunschweig, Stuttgart 1845, p. 9: “Le malattie mentali sono malattie del cervello”.
3 S. Freud, Jenseits des Lustprinzips (1920); tr. it. Al di là del principio di piacere, in Opere, Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. IX, p. 200: “L’elemento più importante e più oscuro della ricerca psicologica è costituito dagli istinti dell’organismo”.
4 K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie (1913-1959); tr. it. Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 2000, p. 30.
5 S. Freud, Abriss der Psychoanalyse (1938-1940); tr. it. Compendio di psicoanalisi, in Opere, cit., vol. XI, p. 623.
6 Ivi, p. 572.
7 Ibidem.
8 Ivi, p. 585.
9 F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt, Leipzig 1874.
10 E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (1912-1928); tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965.
11 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 1979, e in particolare il capitolo 1: “Il mondo greco e la follia del corpo”, e il capitolo 2: “La religione biblica e la maledizione della carne”.
12 E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie (1934-1937, pubblicata nel 1954); tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1972, Appendice XXII, p. 503.
13 Si veda U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers (1975-1984), Feltrinelli, Milano 2005.
14 S. Freud, Zur Einführung des Narzissmus (1914); tr. it. Introduzione al narcisismo, in Opere, cit., vol. VII, p. 447.
15 L. Binswanger, Traum und Existenz (1930); tr. it. Sogno ed esistenza, in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1970, p. 67.
16 Id., L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, cit., p. 25.
17 E. Husserl, Cartesianische Meditationen (1931); tr. it. Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1969, p. 160.
18 L. Binswanger, Heraklits Auffassung des Menschen (1935); tr. it. La concezione eraclitea dell’uomo, in Per un’antropologia fenomenologica, cit., p. 101.
19 F. Bacone, Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum (1620); tr. it. La grande instaurazione, Parte seconda: Nuovo organo, in Scritti filosofici, Utet, Torino 1986, I, 3, p. 552.
20 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 326.
21 Ivi, p. 108.
22 Ivi, p. 107.
23 Per un approfondimento di questa tematica si veda U. Galimberti, Il corpo (1983), Feltrinelli, Milano 2003, e in particolare la Parte II: “Fenomenologia del corpo: l’ingenuità”.
24 J.-P. Sartre, L’être et le néant (1943); tr. it. L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 1965, p. 429.