9. Il linguaggio simbolico nella pratica analitica
Che cos’è il “conoscere”? Il riportare qualcosa di estraneo a qualcosa di noto, di familiare. Prima proposizione: ciò a cui siamo abituati non viene più da noi considerato un enigma, un problema. Smussamento del sentimento del nuovo e dello strano: tutto ciò che accade regolarmente non ci sembra più problematico. Perciò quello di “cercar la regola” è il primo istinto di chi conosce, mentre naturalmente e per il fatto che sia trovata la regola niente ancora è “conosciuto”! – Di qui la superstizione dei fisici: dove possono perseverare, cioè dove la regolarità dei fenomeni consente di applicare formule abbreviate, credono che sia conosciuto. Sentono “sicurezza”, ma dietro questa sicurezza intellettuale sta l’acquietamento della paura: vogliono la regola, perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso. La paura dell’incalcolabile come istinto segreto della scienza.
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-1887, fr. 5 (10).
Nietzsche esplicita la persuasione, ormai diffusa nel nostro tempo, secondo cui non c’è verità nei saperi, ma sono le procedure dei saperi a produrre quelle che poi chiamiamo “verità”. In altre parole le verità si costruiscono. Si tratta allora di conoscere e soprattutto di diventar consapevoli delle procedure che presiedono questa costruzione. Da questo punto di vista è possibile pensare la storia del linguaggio occidentale come una progressiva fissazione delle basi discorsive, in vista di una determinazione sempre più univoca dei significati. Schematicamente sono individuabili tre tappe di questa progressione.
1. Il linguaggio simbolico
Prima che il linguaggio parlasse per identità e differenza, percorrendo quella logica disgiuntiva, in greco dia-bállein, secondo cui una parola significa una cosa e non altro, sussisteva un linguaggio simbolico, in greco sym-bállein, dove una parola significa una cosa ma anche altro. In questo linguaggio l’identità, e quindi l’identificazione era debole, l’oscillazione dei significati era frequente, l’ambivalenza linguistica, se non addirittura la polivalenza, determinava quelle “fluttuazioni di significato”, come le chiama Lévi-Strauss, per cui c’erano dei sensi ovunque disponibili e in nessun modo identificabili.1 Quando, come ci ricorda Jung:
I Wachandi, nelle loro feste di primavera, scavano una fossa di forma oblunga, la circondano di cespugli a imitazione del genitale femminile, e poi vi danzano intorno con le loro lance che ricordano il pene in erezione, gridando “Pulli nira, pulli nira, watakà! (Non è una fossa, non è una fossa, ma una vulva!)”,2
i Wachandi parlano un linguaggio simbolico perché, incuranti del principio di non contraddizione, compongono (sym-bállein) dei significati che per sé non sono immediatamente e necessariamente componibili. Negano l’identità di una cosa con se stessa (la fossa non è una fossa), per procedere alla sua identificazione con altro (la fossa è una vulva). Questa identificazione è rivelativa non di una connessione necessaria tra due significati, ma di una volontà collettiva che li mette assieme, a partire dalla condivisione di un mito che, attraverso analogie e relazioni di somiglianza, è in grado di saldare a tal punto l’immagine della donna con quella della terra, da produrre una saldatura di significati.
Stante l’arbitrarietà delle connessioni, il linguaggio simbolico consente la comunicazione solo all’interno del gruppo, della tribù, o del popolo che condivide quella particolare decisione collettiva che fissa per tutti le connessioni dei significati. Qui non ci può essere un pensiero individuale o individuato che procede a una propria determinazione dei significati, perché il linguaggio che lo enunciasse sarebbe incomprensibile.
Forse per questo il linguaggio simbolico si esprime nell’epopea, dove il singolo, per parlare di sé, parla del suo popolo, cioè di quell’ambito dove circola quella connessione simbolica che rende comprensibile il suo linguaggio. E forse per lo stesso motivo, presso i popoli primitivi, come a più riprese ci ricorda Frazer,3 era proibito al singolo specchiarsi nell’acqua. Narciso, per quante proiezioni negative abbia attirato su di sé, contestualizzato nella collettività del linguaggio simbolico, rappresenta pur sempre un principio d’individuazione, un tentativo di narrare di sé, senza dover narrare del suo popolo, una progettazione di sé che spezza la composizione simbolica vigente, un pro-bállein, come direbbe Mario Trevi4 che tenta un superamento del sym-ballein collettivamente convenuto e condiviso.
2. Il linguaggio filosofico
Con l’avvento della filosofia si ha il primo blocco delle basi discorsive, e quindi il superamento delle oscillazioni semantiche che sono proprie del linguaggio simbolico. A regolare il linguaggio è il principio di non contraddizione, per cui una cosa è se stessa e non altro. Il significato è ciò che scaturisce da questa esclusione che, annullando ogni virtualità di senso che ecceda la mera identità di una cosa con se stessa, struttura per esclusione quell’equivalenza dove è soppressa ogni ambivalenza simbolica, e dove il significante e il significato sono affidati a un sistema di reciproco controllo.
Il controllo è rafforzato dalla struttura dell’“in quanto”, per cui, come ci ricorda Aristotele, la stessa cosa in quanto è, appartiene alla metafisica; in quanto diviene, appartiene alla fisica; in quanto bianca, lignea ecc., appartiene alle diverse regioni a cui si applica il sapere empirico.
La domanda platonica che chiede il ti ésti, il che cos’è una cosa, la sua essenza, è una domanda che può ottenere risposta, perché, delimitati i campi e configurati i significati con quella procedura d’esclusione messa in atto dal principio di non contraddizione, non è più possibile confondere una fossa con una vulva.
Le cose finalmente significano se stesse e non altro, le parole che le nominano ribadiscono la loro identità, le oscillazioni o le eccedenze di significato che ogni simbolo porta con sé sono ridotte all’insignificanza. Non più il mio popolo che parla, non più io che parlo, ma il linguaggio parla, de-terminando il significato delle cose che risultano così concluse nella loro terminazione concettuale. Scrive a questo proposito Salvatore Natoli:
Le idee platoniche sono la prima grande macchina convenzionale che regola il linguaggio e lo organizza. Certo Platone era quanto mai lontano dal ritenersi convenzionalista, caso mai vale l’opposto. Ma convenzionale è ciò che mette in opera, ossia quelle regole che presiedono i modi dell’identificazione e pertanto la possibilità di porre identità e differenze. La dottrina dei generi, la loro distinzione e l’elaborazione delle possibilità logiche di inclusione e di esclusione dell’uno nell’altro divengono i criteri attraverso cui si organizza un sistema semantico e si pongono le basi per l’elaborazione delle regole di inferenza. [...] Se c’è errore esso risiede: o nell’indeterminatezza del genere e quindi in un deficit di identità, o nella combinazione di generi incompatibili.5
Questa grande costruzione platonica che, come avverte Nietzsche, ha inaugurato per l’Occidente una grammatica e una lingua logica,6 consente alle cose di guadagnare un’identità in quanto lette da una macchina logica. E ciò vuol dire che l’identità non è data, ma costruita dalle regole che consentono da un lato di controllare e calcolare il reale, e dall’altro di eliminare quella polivalenza di significato che il linguaggio simbolico consentiva.
Sotto il controllo della logica si costruisce un ordine universalmente valido di pensiero, neutrale per quanto riguarda il contenuto materiale. I concetti, definiti dal principio di identità e non contraddizione, diventano strumenti di predicazione e di controllo di quella molteplicità che, senza il vincolo logico, resterebbe irrelata e al limite incomprensibile, perché disponibile a tutte le predicazioni. Ogni notte, con il suo corredo di sogni, racconta questa disponibilità che la chiarezza diurna cancella.
3. Il linguaggio scientifico
Con l’avvento della scienza, il blocco delle basi discorsive diventa definitivo. La convenzione di volta in volta adottata dall’“Io penso” intersoggettivo (ego cogito) anticipa ogni possibile significato, tralasciando tutti i possibili sensi non contemplati dalle anticipazioni matematiche.7 A questo proposito Kant è chiarissimo là dove scrive che:
Galilei e Torricelli compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con i princìpi dei suoi giudizi secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande, senza lasciarsi guidare da lei, per così dire, con le redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno. È necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i princìpi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbiano valore di legge, e nell’altra l’esperimento, che essa ha immaginato secondo questi princìpi: per venire, bensì, istruita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sebbene di giudice, che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge.8
In questo modo la ragione matematica diventa legislatrice, detta cioè le leggi della rappresentazione del mondo, le cui forme decidono le modalità con cui le cose devono apparire per essere riconosciute nella loro oggettività. “Oggetto” è lo star-di-contro (ob-jectum) delle cose all’ego intersoggettivo che ha disposto l’ordine di presentazione, in modo che sia possibile, seguendo lo stesso metodo, ritrovarle allo stesso posto, onde poterne sempre disporre.
In questa procedura “soggetto” di riferimento non sarà l’io empirico condizionato psicologicamente, ma quell’io intersoggettivo che articola il proprio discorso attenendosi rigorosamente alle anticipazioni matematiche adottate. Nell’orizzonte oggettivo così dischiuso dal linguaggio scientifico, i dicenti diventano i funzionari di un linguaggio che li trascende e che si recita da solo.
Che ne è a questo punto del simbolo in un linguaggio codificato dai segni convenuti, e per di più in una società che crede incondizionatamente in questo codice? Del simbolo ne è nulla. Non per ragioni storiche, non perché rappresenta una tappa linguistica superata, ma perché il linguaggio che ci ospita non può tollerare oscillazioni di senso, né fluttuazioni di significati, essendo la scienza nata proprio per bloccare nel modo più rigoroso possibile le basi discorsive, attraverso l’equivalenza di un significato con se stesso, che sopprime l’ambivalenza intrinseca in ogni espressione simbolica.
4. Il linguaggio della pratica analitica
A questo punto la pratica analitica, in quanto sguardo sulla follia, sulla nevrosi, sul disagio, può proporsi come scienza, cioè come linguaggio codificato che si dispone ad ascoltare ciò che oscilla tra i codici, ne frantuma le regole, o comunque vi deroga? Che cos’è il suo interpretare e comprendere se l’oggetto delle sue interpretazioni, la follia, è definito proprio dal suo esser fuori dal sistema di convenzioni su cui si edifica il linguaggio della scienza? Consapevole di questo problema, Jung non ha dubbi:
La psicologia deve abolirsi come scienza, e proprio abolendosi come scienza raggiunge il suo scopo scientifico. Ogni altra scienza ha un “al di fuori” di se stessa; ma non la psicologia, il cui oggetto è il soggetto di ogni scienza in generale.9
Se questo è vero, l’atteggiamento da assumere non sarà la pratica di un linguaggio simbolico in opposizione al linguaggio codificato, perché non c’è simbolo allo stato puro che non si risolva nell’insignificanza, e non c’è segno codificato che possa percepire qualcosa di quel volume di senso che eccede il codice dei segni.
Se la civiltà occidentale ha instaurato se stessa promuovendo una progressiva fissazione delle basi linguistiche, prodursi in un puro linguaggio simbolico significherebbe perdere la propria storicità, nel senso jaspersiano della parola,10 e quindi la prima condizione per una comunicazione possibile. D’altro lato, restare all’interno delle convenzioni che regolano le possibilità espressive del linguaggio scientifico significa lasciare l’alienato, colui che abita altrove, nella sua definitiva lontananza.
Qui il problema sta nel mettere in circolazione simbolo e segno, sta nel trasgredire la scienza, nel senso letterale di “procedere oltre” i suoi segni codificati, e nel pro-vocare il simbolo, ossia nel “chiamarlo” il più possibile alla produzione di un senso. In questo luogo, che il linguaggio scientifico non protegge e quello simbolico non invade, può iniziare quel dialogo tra segni e simboli, dove i segni arrischiano sì un’eccedenza di senso, ma dove anche i simboli possono confluire nella produzione di un senso.
La produzione di un senso da parte del simbolo non è l’interpretazione del simbolo. Qui l’ermeneutica è impotente, perché il suo campo di espressione è tra i segni, e non tra segno e simbolo, in quella terra non protetta (dai segni) e non invasa (dai simboli) che qui indichiamo come luogo terapeutico o della comunicazione tra i distanti.
L’ermeneutica interroga l’ordine simbolico a partire dall’ordine semantico, per cui chiede che cosa significa un simbolo, o come lo si può interpretare. Queste domande sono improprie perché i simboli non significano e non si interpretano, perché non rispondono al ti ésti platonico, alla domanda che chiede “che cos’è una cosa”, o “che cosa significa”. Per questo il capo dei Pueblos Taos, a cui Jung chiede “che cosa pensa”, risponde: “nulla”.11 Questa risposta non è la prova, come impropriamente ritiene Jung, che il pensiero del primitivo presenta caratteristiche “crepuscolari come il pensiero del demente”,12 ma se mai che l’ordine simbolico non risponde a interrogazioni promosse dall’ordine semantico.
Se i simboli non significano e non si interpretano, è però vero che i simboli agiscono. Per questo la pratica analitica, come dimensione che entra in funzione quando fallisce il dispositivo concettuale, evoca il simbolo per poter giungere a un’ulteriorità di senso rispetto ai significati codificati, e così, prima del segno e dopo il segno, supplisce a un’insufficienza e assicura una progressione, quella progressione che, a dispetto della previsione di Hegel e di Freud, l’ordine simbolico continua ad avere rispetto all’assestamento semantico.
Hegel, infatti, era persuaso che “il progresso del sapere avrebbe esaurito il serbatoio dei simboli”, perché: “La chiarezza priva di enigmi dello spirito, che si dà da sé forma adeguata, è la meta dell’arte simbolica”.13
Dello stesso avviso era Freud, convinto che il progresso dell’analisi avrebbe esaurito l’inconscio. Scrive infatti Freud:
L’intenzione degli sforzi terapeutici della psicoanalisi è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione,così che possa annettersi nuove zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. È un’opera della civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee.14
In realtà il “serbatoio dei simboli”, come lo chiama Hegel, o l’“inconscio” come lo chiama Freud, non sembrano né “esauribili” né “prosciugabili”; ne consegue che dovremo collocare il futuro del dialogo psicologico nella sua fedeltà al passato, ossia al modo in cui in Occidente si è sviluppata la comunicazione, attraverso quei volumi di senso che i simboli racchiudono senza dispiegare e i segni dispiegano senza esaurire.
Qui non c’è conflittualità, ma tensione tra due poli, che è impossibile evitare, a meno di non confinare il linguaggio psicologico tra segni che nulla sanno dell’eccedenza simbolica, o tra simboli che, sottratti a ogni possibile approccio semantico, restano privi di senso.
Custode di questa polarità non può essere una psicologia scientifica, ma solo una psicologia che ha il coraggio di trasgredire la scienza per provocare il simbolo, senza cedere alla sua violenza e alla sua potenza devastante. E questo finché l’uomo, come storicamente l’abbiamo conosciuto, continuerà a destare interesse e senso.15
1 C. Lévi-Strauss, Introduction à l’œuvre de Marcel Mauss (1950), in M. Mauss, Sociologie et anthropologie (1950); tr. it. Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, p. LII.
2 C.G. Jung, Über die Energetik der Seele (1928); tr. it. Energetica psichica, in Opere, Boringhieri, Torino 1969-1993, vol. VIII, pp. 51-52.
3 J.G. Frazer, The golden bough. A study in magic and religion (1911-1915); tr. it. Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 1973, pp. 301 sgg.
4 M. Trevi, Simbolo, progetto, utopia (1974), in Metafore del simbolo, Raffaello Cortina, Milano 1986, p. 21.
5 S. Natoli, Identità e differenza (1983), in Teatro filosofico, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 172-173.
6 F. Nietzsche, Plato amicus sed. Einleitung in das Studium der platonischen Dialoge (1871-1876); tr. it. Plato amicus sed. Introduzione ai dialoghi platonici, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
7 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers (1975-1984), Feltrinelli, Milano 2005, Libro II: “Il pensiero occidentale”, Parte VIII: “La matematicità del pensiero moderno e la fondazione dell’umanismo” e Parte IX: “L’anticipazione della ragione e l’assicurazione dell’ente”.
8 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781, 1787); tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1959, Prefazione alla seconda edizione (1787), pp. 18-19 (corsivo mio)
9 C.G. Jung, Theoretische Überlegungen zum Wesen des Psychischen (1947-1954); tr. it. Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in Opere, cit., vol. VIII, p. 240.
10 K. Jaspers, Philosophie (1932-1955): II Existenzerhellung; tr. it. Filosofia, Libro II: Chiarificazione dell’esistenza, Utet, Torino 1978, capitolo 5: “Storicità”, pp. 590-621.
11 C.G. Jung, Erinnerungen, Träume, Gedanken von C.G. Jung (raccolti ed editi da Aniela Jaffé, 1961); tr. it. Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung, il Saggiatore, Milano 1965, p. 280.
12 Id., Zur Psychologie des Kinderarchetypus (1940); tr. it. Psicologia dell’archetipo del fanciullo, in Opere, cit., vol. IX, pp. 147-148. Recita il testo: “Dato il cronico stato crepuscolare della coscienza del primitivo, spesso è quasi impossibile stabilire se egli ha soltanto sognato una cosa o se l’ha realmente vissuta”.
13 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik (1836-1838); tr. it. Estetica, Feltrinelli, Milano 1963, p. 478.
14 S. Freud, Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psichoanalyse (1932); tr. it. Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), in Opere, Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. XI, p. 190.
15 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, e in particolare: Parte VII: “Antropologia della tecnica: i segni del futuro”.