21. Filosofia e psicoterapia

CORO: Nei doni concessi non sei magari andato oltre?
PROMETEO: Sì, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale.
CORO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?
PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze.

ESCHILO, Prometeo incatenato, vv. 247-250.

La domanda potrebbe essere formulata in questo modo: che relazione esiste tra filosofia e psicoterapia? Che cosa significa per un filosofo “guarire” e per uno psicologo “pensare”?

1. La meraviglia del dolore

La filosofia non sta nelle maglie strette dell’anima come gli psicologi la descrivono, eppure quelle maglie strette guariscono l’anima dal suo soffrire quando il dolore la abita fino a renderla estranea a se stessa (alienazione), o senza memoria di sé (follia).

La filosofia, guardando le cose da altrove rispetto ai luoghi dove solitamente si svolge la vita, disorientando sguardi abituali e abituati, sporgendo all’ascolto di voci estranee, non teme l’alienazione, non avverte il dolore, perché ama lo spaesamento e il disorientamento più dell’oriente da cui nasce il giorno e le opere che nel giorno ritmicamente si compiono.

La filosofia non teme neppure la follia, di cui può amare con vera passione le figure, perché ne ignora il dolore. Sa che la parola è terapeutica, e questo qualche millennio prima che nascesse la psicologia. Come è suo costume è alla ricerca di parole inaudite, quelle che non capita di udire ogni giorno, quelle insolite, inabituali, non corrotte ancora dal logorio dell’abitudine.

Ma la filosofia non conosce il dolore. Certo “è nata dal dolore e dalla meraviglia” come dice Aristotele, 1 anzi dalla meraviglia del dolore, quella meraviglia che un giorno l’uomo provò, come vuole il racconto di Nietzsche, interrogando l’animale:

L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L’animale, dal canto suo, voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito ciò che volevo dire – ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena.2

Ogni anello di questa catena insegna all’uomo la sua mortalità. Questo incide terribilmente sul suo desiderio che, guardando gli anelli della catena, sa di non poter essere desiderio infinito.

2. Il desiderio infinito

Freud, che gli psicoanalisti potrebbero cessare di monopolizzare per cederlo un po’ alla lettura dei filosofi, è il più grande teorico del desiderio, colui che ha visto più a fondo, fino a perdersi in quel fondo e scoprirvi un attributo di Dio: l’onnipotenza. Animato da un desiderio che è onnipotenza, l’uomo lo inscrive nel suo destino di morte che dice impotenza. Da questa condizione non si può guarire. E molte figure di sofferenza sono inscritte in questa condizione.

Troppi si concedono alle psicoterapie per questo o per quello, ma questo o quello, quando sono scavati, si rivelano quello che sono: figure di un desiderio infinito. Gli uomini sono spesso ammalati di desideri infiniti, ma siccome sono mortali, e il loro corpo ogni giorno racconta questo destino, si fanno curare per le ragioni più diverse, con l’unico scopo di non vedere quella verità che la memoria, inanellando la catena del passato, ricorda come sottofondo depresso in ogni biografia.

Ma accettare la morte è accettare l’implosione di ogni senso, e, come ci ricorda Nietzsche, l’uomo è l’unico fra gli animali aperto al senso:

Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa che cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così, dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato, cioè al piuolo dell’istante, e perciò né triste, né tediato. Il veder ciò fa male all’uomo, perché al confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia, guarda con invidia alla felicità di quello: giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale, né tediato, né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale. 3

3. Il luogo del tragico

Questa piccola differenza, questo modo della felicità, che distingue l’uomo dall’animale, è il luogo di ogni soffrire, che la filosofia conosce da tempo come luogo del tragico e la psicologia conosce come luogo della cura.

Ma si può curare la condizione umana, ciò per cui l’uomo è uomo? Chi ci autorizza a separare la vita dal dolore, dalla sua fine che, come un incendio, prima di distruggere definitivamente, scaraventa le sue scintille su tutti i progetti, su tutte le idee, su tutti i desideri, traducendoli in progetti mancati, in idee monche, in desideri incompiuti? Non è davvero il desiderio di essere Dio la vera causa del soffrire umano? Non è davvero da prendersi alla lettera la formulazione del serpente quando induce al primo peccato dell’uomo: “Se mangerete di questo frutto sarete come Dio”?4

Penso assolutamente di sì, e penso quindi che tante cure psicoterapiche, invece di inventare soluzioni ai più svariati problemi dell’esistenza, dovrebbero educare all’accettazione di quell’unica esistenza che abbiamo: l’esistenza di noi mortali.

“Diventa ciò che sei”5 dice Nietzsche. E in questo invito c’è il ritmo dell’educazione, il guadagno quotidiano della nostra condizione mortale, al di qua del progetto cosmico, dell’idea vera, del desiderio infinito.

4. La ricerca del senso

Ma la morte, lo abbiamo visto, è tragica perché fa implodere tutto il senso costruito da una biografia, che in quel senso ha trovato la descrizione di sé, la sua identità, il suo nome. Per questo sulle tombe, accanto al nome e alle date, c’è una frase che tenta la pietrificazione del senso. Ma il senso non si lascia riassumere né dire concisamente sulla pietra, perché il senso è apertura totale, alimentata dal desiderio infinito di cui i mortali soffrono.

Ma proprio qui, dove la contraddizione è più esplosiva, la filosofia può ancora dire qualche parola nuova rispetto alle formulazioni psicologiche escogitate per salvare l’anima? “Non custodite!” “Non preservate!” “Non mantenete!” “Liberate!” Perché tanta cautela nell’esprimersi? Perché tanta opacità nello sguardo? Perché ridurre le pulsioni a istinti? Perché non riconoscere loro intenzionalità e quindi la loro apertura al senso? Certo sarà un senso che implode. Ma cos’è questa economia politica del desiderio e delle passioni ispirata da quel prudente equilibrio, da quei toni modesti della vita che, come ci ricorda Nietzsche, consegnano l’uomo a “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute”?6

La consapevolezza della morte ha portato l’uomo a salvare la vita come prolungamento biologico e a fare del medico il guardiano di una “salvezza” che, per i toni modesti con cui sempre più andiamo organizzando i nostri pensieri, è diventata semplicemente la “salute”. Per la conservazione della salute ci consegniamo a tutti quei limiti che sono altrettante anticipazioni della morte e che l’anima sente come catene che non le consentono di esprimere quella totalità di senso a cui è destinata.

5. La cognizione del limite

Non accettando il destino, non lo esprimiamo. E nella non espressione di sé c’è il fondo di molte sofferenze, percorse da un sapore di infedeltà alla vita, che sentiamo pulsare e insieme tratteniamo per sicurezza, per prudenza, per scaramanzia.

Qui la filosofia viene a dirci che la vita è della natura e non dell’individuo. È della “Grande Danzatrice” come diceva Goethe, 7 che nella sua danza crea e perde piante, animali, uomini e dèi. Il desiderio infinito, causa di tanto soffrire, ma insieme di tanto creare, è anche desiderio individuale, punto di vista da economia privata che ignora le relazioni totali, miserevole sguardo di Giobbe che, dopo aver perso la moglie e i figli, gli amici e i beni, dal letame dov’era disteso il suo corpo ricoperto di lebbra, rivolge a Dio quella domanda che chiede “Perché?”. Conosciamo la risposta di Dio:

Dov’eri quando poggiavo la terra su solide basi?
Dov’eri tu quando giubilavano in coro le stelle del mattino?
Hai tu additato all’aurora il suo posto?
Sei tu giunto fino alle sorgenti del mare e nelle profondità dell’abisso?
Hai tu contemplato l’ampiezza della terra?
Parla, se conosci tutto questo!8

Non lasciamoci ingannare. Non è la solita tracotanza del Dio biblico, ma è la risposta a una domanda che aveva perso la sua misura. Non si interroga il tutto a partire dal proprio individuale soffrire. Non si cambia il proprio dolore con il senso della terra. Questa sproporzione, che i Greci chiamavano hýbris, tracotanza, una volta conosciuta ci rappacifica con il nostro destino, la cui bontà si offre solo a chi si è conciliato con la sua condizione di mortale, consegnando il suo desiderio al limite, e il limite all’espressione del desiderio.

In quest’equilibrio di forze contrapposte abita l’essenza dell’uomo. Concedersi incondizionatamente al desiderio o rassegnarsi perdutamente al limite significa disabitare la condizione umana, e quindi soffrire quell’eccesso o quel difetto di misura che, con vari nomi la psicologia descrive, a seconda dei gradi, come “nevrosi” o come “psicosi”. Ma prima di queste parole c’è da capire l’essenza dell’uomo e la sua condizione mortale. Solo da lì lo spettacolo acquista luce, quella luce che rende possibile la conciliazione con il dolore.

1 Aristotele, Metafisica, Libro I, 982 b, 12-15.

2 F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen. Zweite Stück: Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben (1874); tr. it. Considerazioni inattuali II: Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Opere, Adelphi, Milano 1964, vol. III, 1, p. 262.

3 Ibidem.

4 Genesi, 3, 4.

5 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (1882); tr. it. La gaia scienza, in Opere, cit., 1965, vol. V, 2, Libro III, § 270, p. 158.

6 Id., Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 1, “Prefazione di Zarathustra”, p. 12.

7 G.W. Goethe, Natur (1783); tr. it. La natura, in Teoria della natura, Boringhieri, Torino 1969, pp. 138-141.

8 Giobbe, 38, 1-18. Si veda in proposito il bellissimo saggio di A. Poma, Parole vane. Pazienza, giustizia, saggezza: una lettura del libro di Giobbe, Apogeo, Milano 2005.