3. Lacan e l’inconfessato ritorno della psicoanalisi a Nietzsche
Là dove era l’Es, deve venire
l’Io (Wo es war, soll Ich werden).
S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di
lezioni) (1932), Lezione 31, p. 190.
L’Io deve avvenire, là
dove era (Là où fut ça, il me faut
advenir).
J. LACAN, L’istanza della lettera dell’inconscio, o la ragione dopo
Freud (1957), p. 519.
Jacques Lacan, pur provenendo da una formazione medicopsichiatrica, a differenza della gran parte degli psicoanalisti, non si è trattenuto nell’ambito ristretto della clinica e della terapia, ma ha inscritto con forza e potenza quest’ambito nello scenario più vasto della filosofia dell’Occidente, prescindendo dal quale non è possibile comprendere l’uomo occidentale, la sua salute e la sua malattia.
È noto che gli psicoanalisti, qualunque sia la loro scuola di appartenenza, non amano molto la filosofia, anzi se ne tengono lontani, perché la leggono come una sorta di razionalizzazione posta a difesa della relazione con l’inconscio. Per una conferma basta leggere i loro libri o i programmi delle loro scuole di formazione dove non compare un solo insegnamento di filosofia.
Eppure gli psicoanalisti, qualunque sia la scuola di appartenenza, usano parole come “Io”, “inconscio”, “desiderio”, “realtà”, “immaginazione”, “simbolo”, che hanno avuto nella filosofia il loro atto di nascita, il loro sviluppo, l’orizzonte del loro significato. Per effetto di questa loro diffidenza nei confronti della filosofia, parlano di “anima” e ignorano Platone che questa parola ha inaugurato, parlano di “Io” e ignorano Cartesio che questa parola ha introdotto tre secoli fa, parlano di “pulsione” e ignorano Schopenhauer che questa parola ha coniato e a cui Freud concede un ampio riconoscimento:
Molti filosofi possono essere citati come precursori della psicoanalisi, e sopra tutti Schopenhauer, la cui “volontà” inconscia può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi.1
Fra i teorici della psiche, ultimo in ordine di tempo è James Hillman, che tanto piace a quanti non hanno il coraggio di arrivare alle vette vertiginose della poesia e quindi si fermano a metà strada (a James Hillman appunto) per sentirsi dire che “dopo cento anni di psicoterapia il mondo va sempre peggio”,2 coronando, con questa sua considerazione, l’opinione diffusa che la psicoanalisi è alla fine, e tra non molto assisteremo al suo crollo, non dissimile dal crollo dell’altra ideologia del Novecento che è il marxismo.
A crollare sarà invece la psicoanalisi che non pensa, quella che non esce dall’ambito ristretto di una clinica che tende al benessere di coloro che Nietzsche chiama gli “ultimi uomini”, le cui aspirazioni si risolvono in “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute”.3
Jacques Lacan esce da questo asfittico recinto e pensa la psicoanalisi in grande, in un fitto dialogo con le acquisizioni più avanzate della filosofia (Hegel, Kojève, Heidegger, Merleau-Ponty, Sartre, Foucault), della linguistica (de Saussure, Jakobson), dell’antropologia (Lévi-Strauss e lo strutturalismo), della logica (Gödel), della letteratura (il surrealismo e Joyce), della psichiatria fenomenologica (Clérambault, Jaspers, Binswanger). E allora la psicoanalisi riprende fiato e si fa orizzonte di grande respiro, dove in scena è l’uomo occidentale e il gioco fantasmagorico delle sue maschere.
Le linee principali della teoria di Lacan prendono le mosse da Freud in vista di un avanzamento teorico e critico del messaggio freudiano che, come “cura attraverso la parola”, è possibile solo se si prende alla lettera che “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, e come tale da trattare con gli strumenti che lo strutturalismo da un lato e la linguistica dall’altro hanno messo a disposizione. Qui di seguito le tappe percorse da questa indagine e gli esiti a cui perviene.
1. Il rifiuto della prospettiva egologica e logocentrica
Questa prospettiva è stata tramandata dalla tradizione filosofica che, a partire da Cartesio, ha collocato l’essenza dell’uomo nel cogito, quindi nella coscienza o Io. Accogliendo la lezione di Freud: “L’Io non è padrone in casa propria”,4 Lacan ritiene che l’individuo sia vissuto e abitato da una “x” loquente e profonda (l’Es), nei cui confronti si trova in uno stato di radicale assoggettamento, per cui non è possibile dire che l’uomo parla, ma piuttosto che “l’uomo è parlato”. Da questo atteggiamento anticartesiano, che porta a fondo l’attacco freudiano al narcisismo universale dell’umanità, Lacan può dire: “Penso dove non sono, dunque sono dove non penso”,5 e ancora: “L’Io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’interno del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo”.6
Qui Lacan dovrebbe riconoscere il suo debito nei confronti di Nietzsche, per il quale il “soggetto” non è un dato, ma un’interpretazione del nostro mondo interiore, qualcosa di immaginato, di posto sullo sfondo, una rappresentazione.7 Pensare il “soggetto”, infatti, significa per Nietzsche conferire sostanzialità a un fascio di sensazioni che abbiamo raggruppato sotto la categoria dell’uguaglianza, per cui:
“Soggetto” è la finzione derivante dall’immaginare che molti stati uguali in noi siano opera di un solo sostrato; ma siamo noi che abbiamo creato l’“uguaglianza” di questi stati; il dato di fatto è il nostro farli uguali e sistemarli, non l’uguaglianza (che anzi è da negare).8
Il “soggetto”, così come la “coscienza”, l’“Io”, è una categoria voluta, creduta. E come ogni credenza, anche questa, può essere una condizione di vita, ma ciò non la esonera dall’esser falsa. Del resto, si domanda Nietzsche, quale bisogno ha portato l’uomo a rappresentarsi il soggetto se non il desiderio di impadronirsi della realtà, onde evitare la sua imprevedibilità, attraverso la conoscenza che impone una regola e un’organizzazione al caos? La forma logica che dirime il caos porta ad affermare l’identità del soggetto, che però esiste solo per effetto delle procedure discorsive che parlano di lui. Infatti, scrive Nietzsche:
Una volta si credeva all’“anima”, come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale: si diceva: “Io” è condizione, “penso” è predicato e condizionato – il pensare è un’attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si cercò allora, con un’ostinazione e un’astuzia mirabili, se non fosse possibile districarsi da questa rete, ci si domandò se non fosse vero caso mai il contrario: “penso” condizione, “Io” condizionato; “Io” dunque soltanto una sintesi che viene fatta dal pensiero stesso.9
Questa riflessione, inaugurata da Nietzsche, porterà a sostituire al soggetto della rappresentazione l’ordine della rappresentazione, cioè l’insieme dei discorsi che comprendono anche il discorso che parla del soggetto, che a questo punto, come scrive Natoli, non è più un soggetto “reale”, ma un soggetto “legale”.10 Se nei suoi scritti Lacan può parlare del soggetto come “supposto soggetto” e del sapere come “supposto sapere”, non lo deve a Freud ma a Nietzsche, che di questa “supposizione”, o come Nietzsche preferisce dire “credenza”, ha fornito ampia e articolata dimostrazione.
2. L’ordine simbolico
La destituzione del soggetto e la conseguente impostazione anti-egologica, di chiara derivazione romantica, si accompagna in Lacan alla tesi del primato dell’ordine simbolico, ossia alla concezione, tipicamente strutturalista, secondo cui l’individuo è attraversato da un’impersonale trama di simboli e di significanti che lo costituiscono e che egli non ha creato, ma nella quale è piuttosto preso dentro come nel retaggio della propria storia e della propria cultura. In questo senso, scrive Lacan: “Se l’uomo arriva a pensare l’ordine simbolico è perché vi è anzitutto preso nel suo essere”.11 E ancora:
Tutti gli esseri umani partecipano all’universo dei simboli, vi sono inclusi e lo subiscono molto più che non lo costituiscano, ne sono molto più i supporti che gli agenti. In funzione dei simboli, della costituzione simbolica della sua storia, si producono quelle variazioni di cui il soggetto è suscettibile di prendere delle immagini di se stesso variabili, rotte, frammentarie, a volte anche infondate, regressive. Lo vediamo nelle Vorbilden normali della vita quotidiana del soggetto, come pure nell’analisi in modo più orientato.12
Ciò si spiega con il fatto che, siccome l’ordine simbolico è l’ordine del significante, il significante ha un’indubbia preminenza sul soggetto. Questo tratto avvicina Lacan a Lévi-Strauss e alla problematica svolta da quest’ultimo ne Le strutture elementari della parentela in cui l’individuo appare come l’effetto di un codice simbolico radicato nelle strutture inconsce della sua psiche.
Il principio sul quale Lévi-Strauss edifica il metodo strutturalista si fonda sulla possibilità di trasferire i modelli analitici della linguistica dal campo nel quale sono stati all’origine elaborati a quello dei fenomeni sociali. Il gradiente è offerto dall’omologia che Lévi-Strauss vede tra il fonema, atomo del sistema linguistico, e l’unità elementare della parentela, come sistema di atteggiamenti e di rapporti fra individui, fissato da regole, interpretabile e descrivibile in termini rigorosi come sono quelli che si possono ricavare dalla moderna linguistica strutturale. Scrive in proposito Lévi-Strauss:
Nello studio dei fenomeni di parentela (e forse anche nello studio di altri problemi), il sociologo si trova in una situazione formalmente simile a quella del linguista fonologo. Come i fonemi, i termini di parentela sono elementi di significato; anch’essi acquistano tale significato solo a condizione di integrarsi in sistemi. I “sistemi di parentela”, come i “sistemi fonologici”, sono elaborati dall’intelletto allo stadio di pensiero inconscio. Infine la ricorrenza, in regioni del mondo fra loro lontane e in società profondamente differenti, di forme di parentela, regole di matrimonio, atteggiamenti ugualmente prescritti tra certi tipi di parenti ecc., induce a credere che, in entrambi i casi, i fenomeni osservabili risultano dal gioco di leggi generali ma nascoste. Si può dunque formulare il problema nel modo seguente: in un altro ordine di realtà, i fenomeni di parentela sono fenomeni dello stesso tipo dei fenomeni linguistici. Utilizzando un metodo analogo per quanto riguarda la forma (se non per quanto riguarda il contenuto) a quello adottato dalla fonologia, il sociologo può far compiere alla sua scienza un progresso analogo a quello che da poco si è prodotto nelle scienze linguistiche?13
La risposta di Lévi-Strauss è positiva, come positiva è la risposta di Lacan che, seguendo il modello di Lévi-Strauss e rifacendosi agli stessi autori che sono per entrambi de Saussure e Jakobson, ipotizza la possibilità di associare i processi metaforici e metonimici del linguaggio rispettivamente alla condensazione e allo spostamento, segnalati da Freud come i meccanismi di funzionamento dell’inconscio nelle sue formazioni. In questo modo, scrive Lacan:
Sia il sogno sia il sintomo sono analizzabili supponendo una struttura identica alla struttura del linguaggio. Questo si riferisce al fondamento di tale struttura, cioè alla duplicità che sottomette a leggi distinte i due registri che vi si collegano: quello del significante e quello del significato. Qui la parola “registro” indica due concatenamenti presi nella loro globalità, e il mettere al primo posto la loro distinzione sottrae a priori all’esame ogni possibilità di far corrispondere termine a termine questi registri, quale che sia l’ampiezza cui li si arresta.14
Partendo da queste premesse Lacan può ipotizzare una corrispondenza fra la struttura dell’inconscio e quella del linguaggio che è identica nella sua dimensione sincronica, o disposta a piani all’interno di una medesima classe di elementi articolati in categorie e sottoinsiemi, secondo precise leggi di ordinamento, come aveva previsto Lévi-Strauss a cui Lacan riconosce il debito: “Crediamo che il nostro modo di usare il termine ‘struttura’ possa essere autorizzato dal modo introdotto da Claude Lévi-Strauss”.15
L’adozione di questo metodo, a parere di Lacan, non solo potrebbe emancipare la psicoanalisi dall’approssimazione delle scienze umane, ma addirittura eliminerebbe la distinzione tra scienze umane e scienze esatte, perché, scrive Lacan:
L’opposizione scienze esatte-scienze congetturali non può più reggere, a partire dal momento in cui la congettura è suscettibile di un calcolo esatto (probabilità), e in cui l’esattezza non si fonda che su un formalismo che separa assiomi e leggi di raggruppamento dei simboli.16
3. L’inconscio come linguaggio
Se “l’inconscio è linguaggio”,17 la psicoanalisi, per svolgere in modo adeguato il proprio compito di ermeneutica del profondo, deve rifarsi alla linguistica:
La linguistica qui ci può servire da guida, poiché è questo il suo ruolo all’apice dell’antropologia contemporanea, e non potremo rimanervi indifferenti.18
Come “x” loquente, l’inconscio, come “ciò che parla (ça parle)”, non può fare a meno di assumere la forma di un discorso o di un messaggio proveniente da “altrove”, il “discorso dell’Altro”. Col termine “Altro” Lacan intende l’ordine simbolico, l’intersoggettività, ma anche la Madre, il Padre. L’Altro coincide allora con la struttura dell’alterità che ha forme diverse a seconda dei contesti. Rispetto all’Io, l’Altro è tanto l’inconscio, quanto il simbolico che offre all’inconscio le leggi del discorso in cui esprimersi. Sottesa è la dialettica del desiderio che ha nell’“Altro” il suo punto d’approdo. Infatti, scrive Lacan:
Il desiderio dell’uomo trova il suo senso nel desiderio dell’altro, non tanto perché l’altro detenga le chiavi dell’oggetto desiderato, quanto perché il suo primo oggetto è di essere riconosciuto dall’altro.19
Il desiderio di essere riconosciuto dall’altro, che Lacan media dalla dialettica hegeliana,20 sottomette il desiderio alle condizioni dell’altro, che non è l’altro in carne e ossa, ma, innanzitutto, l’Altro con la “A” maiuscola, che rappresenta l’universo linguistico e simbolico in cui il desiderio, per esprimersi, si deve inserire:
Se il desiderio è presente nel soggetto a condizione, impostagli dall’esistenza del discorso, di far passare il suo bisogno attraverso le sfilate del significante; se d’altra parte bisogna fondare la nozione dell’Altro con un’A maiuscola, come il luogo del dispiegamento della parola, bisogna porre che, essendo quello di un animale in preda al linguaggio, il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro.21
Oltre al linguaggio, che preesiste al soggetto ed è al di là del soggetto, il quale non può esprimere il suo desiderio se non accedendo al linguaggio, anche l’inconscio è un’alterità da cui il singolo soggetto si sente dipendente, per cui conclude Lacan:
Noi insegniamo, seguendo Freud, che l’Altro è il legame di questa memoria che egli ha scoperto sotto il nome di inconscio, memoria che egli considera come l’oggetto di una domanda rimasta aperta, in quanto condiziona l’indistruttibilità di certi desideri.22
Queste due concezioni dell’Altro vengono così composte da Lacan: il soggetto si rivolge agli oggetti (nominati “altro” con la “a” minuscola) in una relazione immaginaria e costituisce un Io. Così facendo egli dimentica, per poi riacquisire, che la parola dell’Io si situa fra l’Altro che è l’inconscio freudiano e l’Altro che è l’ordine simbolico e linguistico, a cui deve accedere per esprimere il suo desiderio inconscio.
Ma nel simbolico, l’inconscio e il suo “oscuro parlare” possono solo “semi-dirsi” per cui “la verità dell’inconscio deve situarsi tra le righe”,23 perché, come vuole la metafora di Lacan, il discorso umano assomiglia a quei manoscritti che contengono due testi, uno dei quali è stato cancellato e ricoperto dall’altro, in modo tale che il primo può venir intravisto solo attraverso le falle del secondo, ovvero tramite i “buchi di senso” del discorso conscio:
L’inconscio, a partire da Freud, è una catena di significanti che da qualche parte (su un’altra scena, egli scrive) si ripete e insiste per interferire nei tagli offertigli dal discorso e dalla sua categorizzazione che informa.24
In questo modo Lacan assume il linguaggio come il fondamento costitutivo della globalità della vita psichica dell’uomo. Nei confronti della realtà e del soggetto umano, il linguaggio ha, infatti, una funzione formativa e regolativa. Esso impone nomi, distinzioni, differenze, e, nominando e distinguendo, delimita e specifica ruoli e funzioni non solo degli oggetti, ma anche dei soggetti umani.
La funzione nominativa e regolativa del linguaggio, in cui si esprime il patto originario da cui è nata la cultura umana, esercita una sorta di tradimento della natura biologica che si esprime nei bisogni. Questi, quando raggiungono la dimensione psicologica, divengono desideri, che hanno per oggetto non più qualcosa di concreto, biologicamente determinato, ma un suo rappresentante simbolico, che diviene il nuovo oggetto ricercato, ma non più in grado di garantire un completo soddisfacimento.
Le rappresentazioni psichiche, che Lacan equipara ai significati linguistici, non traducono fedelmente gli oggetti del mondo reale o i bisogni biologici dell’uomo, ma li tradiscono, chiudendo l’uomo in una dimensione simbolica invalicabile, e fondando la sua vita su un ineludibile scarto rispetto alla sua realtà biologica.
Risolta l’attività psichica dell’uomo nell’area del linguaggio, Lacan distingue le rappresentazioni psichiche consce, che appartengono a un codice socializzato e condiviso, da quelle inconsce dal carattere soggettivo e incomunicabile. Linguaggio e affettività trovano in Lacan un punto di unione e insieme di frattura, evidente nel passaggio dal desiderio dell’oggetto alla sua rappresentazione simbolica e idealizzata, accompagnata da un rimpianto dell’oggetto perduto da parte di un uomo prigioniero dei propri simboli linguistici.
Il desiderio irrealizzato, infatti, è continuamente rinviato nell’“Altro”, con cui Lacan nomina l’ordine linguistico e l’insieme dei suoi codici. Sottesa è la contrapposizione fra un pensiero-affettività libero e illimitato e un linguaggio che lo fa prigioniero e al tempo stesso adattato alla realtà.
4. La retorica dell’inconscio: sintomo, metafora e metonimia
La parola dell’inconscio si annuncia nel linguaggio dell’Altro che il soggetto riceve già codificato sotto forma di sintomo:
Il sintomo è il significante di un significato rimosso dalla coscienza del soggetto. Simbolo scritto sulla sabbia della carne e sul velo di Maya, esso partecipa del linguaggio attraverso l’ambiguità semantica da noi già posta in rilievo nella sua costituzione.25
Se “l’inconscio è quel capitolo della mia storia che è marcato da un bianco o occupato da una menzogna: se è il capitolo censurato”,26 allora, scrive Lacan:
La sua verità può essere ritrovata attraverso i sintomi che sono inscritti: nei monumenti: e questo è il mio corpo, cioè il nucleo isterico della nevrosi in cui il sintomo isterico mostra la struttura di un linguaggio e si decifra come un’iscrizione che, una volta raccolta, può essere distrutta senza grave perdita; nei documenti d’archivio: e sono i ricordi della mia infanzia, impenetrabili al pari di essi, quando non ne conosco la provenienza; nell’evoluzione semantica: e questo corrisponde allo stock e alle accezioni del vocabolario che mi è proprio, così come al mio stile e al mio carattere; nelle tradizioni, addirittura nelle leggende che in forma eroicizzata veicolano la mia storia; nelle tracce, infine, che di questa storia conservano inevitabilmente le distorsioni, rese necessarie dal ricordo del capitolo adulterato con i capitoli che l’inquadrano, e delle quali la mia esegesi ristabilirà il senso.27
Per decifrare la “retorica dell’inconscio” Lacan traduce i meccanismi inconsci illustrati da Freud nelle figure descritte dalla linguistica strutturale di Jakobson, e in particolare riconduce: a) la condensazione, attraverso cui diverse idee o immagini vengono espresse da una singola parola o immagine, alla metafora, dove un oggetto è indicato con il nome di un altro oggetto avente con il primo rapporti di somiglianza; b) lo spostamento, che sostituisce un’idea o immagine con un’altra a cui è associativamente connessa, alla metonimia, dove una cosa o una persona sono nominate con il nome di un’altra cosa o persona che ha con esse un rapporto di dipendenza o contiguità.
Questi due modi del funzionamento dei processi inconsci individuati da Freud sono particolarmente visibili nel sogno, nel sintomo e nel motto di spirito, dove un’immagine o una parola può rappresentare da sola varie catene associative di cui costituisce il punto di intersezione (condensazione), o dove il significato di una rappresentazione può essere trasferito su un particolare di questa, o su qualcosa che con la prima rappresentazione ha un qualche legame (spostamento).
Trattandosi di processi inconsci, non sempre il legame che sottende la metafora o la metonimia è sostenuto da un codice culturale condiviso; talvolta, come spesso si constata nel linguaggio schizofrenico, il legame è assolutamente individuale e privato (in greco, ídios) per cui non si parla più di metafora o di metonimia, ma di idiosincrasismo.
Lacan, che seguendo Jakobson ha evidenziato la corrispondenza tra metafora e condensazione, e tra metonimia e spostamento, sostiene che la metafora è intraducibile, non perché sarebbe più vicina alla significazione originaria, ma perché sostituisce un significante che manca:
La metafora si costituisce nel punto preciso in cui il senso si produce nel non-senso, per cui si può dire che è nella catena del significante che il senso insiste, ma che nessuno degli elementi della catena consiste nella significazione di cui è capace in quello stesso momento.28
Raffigurando il desiderio inconscio che è mancanza, la metafora, come catena significante, gira attorno alla mancanza di un significato originario, per cui non sostituisce un oggetto con un altro, ma pone un oggetto al posto di una mancanza d’oggetto, origine del desiderio.
Rispetto alla metafora, la metonimia offre la possibilità di raffigurare l’oggetto che soddisferebbe il desiderio inconscio, spostandolo senza fine lungo la trama delle allusioni a oggetti contigui. Ciò non significa che seguendo questa trama il desiderio trovi il suo oggetto, perché, per Lacan, è lo stesso desiderio a essere metonimico:
Di fatto è la proibizione dell’incesto che, privando il soggetto di ogni conoscenza possibile dell’oggetto primordiale, il quale si circonda della minaccia di castrazione, fonda il desiderio sulla mancanza, che si instaura così come desiderio metonimico, desiderio di qualcos’altro di ritrovato.29
5. Lo stadio dello specchio e la dimensione dell’immaginario
Con questa espressione Lacan si riferisce alla progressiva conquista dell’identità del soggetto che prende avvio tra i sei e i diciotto mesi quando il bambino, posto di fronte a uno specchio, reagisce prima come se l’immagine riflessa dallo specchio fosse una realtà che è possibile afferrare, poi si rende conto che non è una realtà, ma un’immagine, infine capisce che questa immagine è la sua, differente da quella dell’adulto che l’ha accompagnato davanti allo specchio. Scrive in proposito Lacan:
L’assunzione giubilatoria della propria immagine speculare da parte di quell’essere ancora immerso nell’impotenza motrice e nella dipendenza dal nutrimento che è il bambino in questo stadio infans, ci sembra manifestare in una situazione esemplare la matrice simbolica in cui l’io si precipita in una forma primordiale, prima di oggettivarsi nella dialettica dell’identificazione con l’altro, e prima che il linguaggio gli restituisca nell’universale la sua funzione di soggetto. Forma, del resto, che sarebbe da designare piuttosto come io-ideale, se volessimo farla rientrare in un registro noto, nel senso che sarà anche il ceppo delle identificazioni secondarie, di cui con questo termine riconosciamo le funzioni di normalizzazione libidica. Ma l’importante è che questa forma situa l’istanza dell’io, prima ancora della sua determinazione sociale, in una linea di finzione, per sempre irriducibile per il solo individuo, – o piuttosto, che raggiungerà solo asintoticamente il divenire del soggetto, quale che sia il successo delle sintesi dialettiche con cui deve risolvere, in quanto io, la sua discordanza con la propria realtà.30
Lo stadio dello specchio si configura quindi come un primo abbozzo dell’Io, un primo schizzo della soggettività attraverso l’immaginario. Infatti è attraverso l’immagine del simile che il soggetto, per un meccanismo di identificazione, si rapporta a sé. A partire da qui, osserva Lacan, si apre la strada al futuro di finzioni e alla “destinazione alienante”31 dell’Io, costretto in una dialettica incessante di identificazioni narcisistiche con immagini esteriori. Dalla dimensione dell’immaginario, che prende avvio con lo stadio dello specchio, si accede al simbolico percorrendo la vicenda del complesso edipico.
6. Lo stadio dell’Edipo e la dimensione simbolica
Anche qui abbiamo un’articolazione in tre tempi: nel primo il bambino desidera solo le cure della madre, vuol essere tutto per lei, ovvero il completamento di ciò che le manca: il fallo. Nel secondo abbiamo l’intervento del padre che priva il bambino dell’oggetto del suo desiderio e la madre del suo completamento fallico. In questa fase il bambino incontra la Legge-del-Padre e il suo “interdetto”. Nel terzo, se il bambino accede al “Nome-del-Padre” o “metafora paterna” che coincide con l’assunzione del padre a livello simbolico, il bambino si identifica con il padre, cessando di essere il fallo della madre, per divenire colui che ha il fallo.
Se invece l’interdizione paterna non viene riconosciuta, il bambino, oltre a rimanere identificato con il fallo e sottomesso alla madre, non raggiunge una compiuta autocostituzione della soggettività e un accesso al simbolico dove la Parola, la Legge, il Discorso e la Norma si manifestano a livello linguistico e a livello sociale, per cui Lacan può dire: “L’uomo parla, ma è perché è il simbolo che lo ha fatto uomo”.32
Ma il simbolo presuppone l’Edipo e il suo risolvimento nel riconoscimento della Legge-del-Padre in cui si esprime il simbolico. Con questa sequenza Lacan si ricollega a Lévi-Strauss, che vede nell’interdizione dell’incesto e nella conseguente esogamia la condizione stessa della vita sociale e dell’ordine simbolico su cui essa si regge.33
Alle stesse conclusioni era giunto Freud, che aveva preso in considerazione il padre a livello mitico-simbolico come padre dell’orda primitiva che interdice l’endogamia,34 e a livello reale come padre effettivo che interdice l’incesto nello scenario del complesso di Edipo.35
A questa seconda accezione fa riferimento anche Lacan che, con l’espressione “Nome-del-Padre”, sottolinea la funzione simbolica del padre, che in quanto rappresentante della Legge è più decisiva della sua funzione reale di genitore, per consentire al bambino il passaggio dal registro del bisogno a quello del desiderio, che trova la sua espressione nella domanda dell’Altro che è l’ordine simbolico. Il riconoscimento o il mancato riconoscimento del Nome-del-Padre assume per Lacan un’importanza così decisiva da costituire il discrimine tra nevrosi e psicosi:
La preclusione del Nome-del-Padre nel posto dell’Altro, lo scacco della metafora paterna è ciò che dà alla psicosi la sua condizione essenziale, insieme alla struttura che la separa dalla nevrosi.36
7. La scissione delle due reti del significante e del significato
L’accesso al simbolico comporta una scissione (Spaltung nella terminologia freudiana, Fente o Refente in quella lacaniana) che “fende” il soggetto, il quale, nel momento in cui si media attraverso il discorso messogli a disposizione dall’ordine simbolico, perde la relazione immediata di sé con sé che lo caratterizzava nella fase prelinguistica e presimbolica. Tra l’Io del discorso che nomina il soggetto e l’Io vissuto esiste una frattura: Ich-Spaltung, che da un lato separa il soggetto da sé, e dall’altro lo genera a se stesso. Scrive a questo proposito Lacan:
Separare (séparer), va a finire in se parere, generarsi da sé. Dispensiamoci dai sicuri favori che troviamo negli etimologi del latino per questo scivolamento del senso da un verbo all’altro. Si sappia soltanto che questo scivolamento è fondato sul loro comune accoppiamento alla funzione di pars.37
La separazione tra conscio e inconscio sottesa alla scissione del soggetto si lascia raffigurare in quello che Lacan chiama “l’algoritmo saussuriano
che si legge significante su significato, dove il su risponde alla sbarra che ne separa le due tappe”.38
Mentre de Saussure pone il significato sopra e il significante (l’elemento materiale del linguaggio che nomina il significato) sotto, racchiudendo il tutto in un’ellisse per indicare la corrispondenza tra significante e significato, Lacan inverte la posizione e legge la barra come una barriera che separa il significante (la lettera o il nome) dal significato (il senso della nostra esperienza trasmessa dal discorso), in quanto il significato, pur esteriorizzandosi nell’insieme dei significanti, non si colloca in nessun luogo del significante. E questo perché, scrive Lacan:
L’ordine del significante e l’ordine del significato
sono come due reti che non si coprono. La prima rete, quella del
significante, è la struttura sincronica del materiale del
linguaggio, in quanto ogni elemento vi assume il suo esatto impiego
per il fatto di essere differente dagli altri. Tale è il principio
di ripartizione che regola, esso solo, la funzione degli elementi
della lingua ai suoi diversi livelli, dalla coppia di opposizione
fonematica fino alle locuzioni composte, isolare le cui forme
stabili è il compito della più moderna ricerca.
La seconda rete, quella del significato, è l’insieme diacronico dei
discorsi concretamente pronunciati, che reagisce storicamente sul
primo, così come la struttura di questo ordina le vie del secondo.
A dominare qui è l’unità di significazione, che mostra di non
risolversi mai in una pura indicazione del reale, ma di rinviare
sempre a un’altra significazione. Cioè la significazione non si
realizza che a partire da una presa delle cose che è
d’insieme.39
Ne discende che: “È nella catena del significante che il senso insiste, ma che nessuno degli elementi della catena consiste nella significazione di cui è capace in quello stesso momento”.40
8. Natura e cultura: due serie parallele
Con l’ispessimento della linea saussuriana di frazione tra significante e significato, trasformata da Lacan in una barra per cui “si impone la nozione di uno scivolamento (glissement) incessante del significato sotto il significante”,41 Lacan reinterpreta la nozione freudiana di rimozione come “quella sorta di discordanza fra il significato e il significante determinata da ogni censura d’origine sociale”.42
La cultura, in cui il sociale e il simbolico che lo descrive si esprimono, appare come un ordine di significanti altro dalla matrice originaria che custodisce la natura dell’uomo, il quale nella cultura, dunque, è sempre alienato. Attestandosi al discorso, all’Io, al comportamento sociale, il soggetto prolifera in forme multiple che si dà o che gli vengono imposte, e che equivalgono ad altrettante maschere, sotto le quali si nasconde ciò che è stato rimosso, vale a dire la sua natura. Con l’accesso al linguaggio, scrive Lacan, “si sovrappone il regno della cultura a quello della natura”,43 e questa sovrapposizione si ripercuote a tutti i livelli che possono essere così rappresentati:
Esperienza rappresentativa della realtà | = | S (Significante conscio) = S (Significante inconscio) |
Realtà biologica, concreta, preconcettuale | = | s (significato perduto) = |
= | Lingua | = | Simbolico | = | Conscio | = | Domanda |
= | Parola | = | Immaginario | = | Inconscio | = | Desiderio |
= | Cosa | = | Reale | = | Biologico | = | Bisogno |
La non coincidenza irriducibile tra significante e significato fa sì che il linguaggio non riproduca la verità, ma la distorca, e d’altra parte che la verità non abbia altro modo di dirsi se non nella distorsione linguistica. Tra il linguaggio e il reale, infatti, c’è incommensurabilità, e la verità del reale non può che annunciarsi nel linguaggio, senza che il linguaggio possa adeguatamente esprimerla. In questo senso la verità è inconscio e si fa strada nel sintomo:
La verità si fonda sul fatto che parla, e non ha altro modo per farlo. Ecco pure perché l’inconscio, che dice il vero sul vero, è strutturato come un linguaggio, e perché io, quando insegno questo, dico il vero su Freud che ha saputo, sotto il nome di inconscio, lasciar parlare la verità.44
Ne consegue, scrive Lacan, che: “La verità in psicoanalisi è il sintomo. Là dove c’è sintomo, c’è una verità che si fa strada”.45 L’irraggiungibilità della verità da parte del linguaggio e del sapere inscrive Lacan in una prospettiva ermeneutica, per cui nessun sapere può vantare una presa esaustiva o un possesso ultimo della verità. Infatti, sostiene Lacan:
Si comprenda bene il nostro pensiero. Non stiamo
giocando al paradosso di negare che la scienza abbia di che
conoscere circa la verità. Ma noi non dimentichiamo che la verità è
un valore che risponde all’incertezza da cui l’esperienza vissuta
dell’uomo è fenomenologicamente segnata, e che la ricerca della
verità anima storicamente, sotto la voce dello spirituale, gli
slanci del mistico e le regole del moralista, le vie dell’asceta e
le trovate del mistagogo.
Questa ricerca, imponendo a tutta una cultura la preminenza della
verità nella testimonianza, ha creato un atteggiamento morale che è
stato e resta per la scienza una condizione d’esistenza. Ma la
verità nel suo valore specifico resta estranea all’ordine della
scienza. La scienza può onorarsi delle sue alleanze con la verità,
può proporsi come oggetto il suo fenomeno e il suo valore, ma non
può in alcun modo identificarla come il fine che le è
proprio.46
9. La mancanza
È il tratto distintivo che caratterizza ogni tappa dell’itinerario che dal “bisogno” conduce al “desiderio” e dal desiderio alla “domanda”. Il bisogno, infatti, nasce dal vissuto di incompletezza conseguente alla separazione dal corpo materno e al connesso tentativo di reintegrare l’unità perduta. Lacan chiama béance la mancanza-a-essere e il completamento materno.
Come l’androgino, descritto da Platone nel Simposio, è diviso, per ordine di Zeus, in due esseri sempre alla ricerca l’uno dell’altro, per cui ogni uomo è il “simbolo di un uomo”,47 cioè una parte sempre alla ricerca dell’altra parte che lo completa, così il neonato, con il taglio del cordone ombelicale, è strappato dal corpo della madre e separato dalla precedente e originaria unità. Avendo perso con la nascita il suo completamento anatomico, ogni individuo è una mancanza-a-essere la cui carenza si inscrive nel bisogno, nella pulsione, nel desiderio, nella domanda e nell’Altro.
Il bisogno è la trascrizione organica della béance, di questa mancanza, di questo vuoto che ognuno sperimenta con la sua nascita. La pulsione è l’energia alla ricerca del completamento che, trovando i limiti costituiti dal recinto del corpo, si canalizza verso le zone erogene, che sono tante aperture verso l’esterno alla ricerca dell’Altro.
Questa ricerca si esprime come desiderio che si indirizza sui molteplici oggetti sostitutivi del corpo materno, quindi nella domanda che si articola in parole attraverso cui è possibile accedere all’Altro, che è l’ordine simbolico a cui si rivolge quell’“animale in preda al linguaggio” che è l’uomo. Questa catena che conduce all’Altro, attraverso il bisogno, la pulsione, il desiderio, la domanda, è promossa da quella fondamentale mancanza-a-essere che è la béance.
L’interdizione del padre alla reintegrazione di detta unità traduce il bisogno in desiderio, che rincorre un’infinità di oggetti assai diversi da quelli primordiali a cui si rivolgeva il bisogno, ma comunque inabili a colmare la béance o mancanza iniziale, nonostante la fuga ininterrotta da un significante all’altro nel tentativo di reintegrare la pienezza perduta. Ma i significanti inseguiti dal desiderio, tutti metaforici o metonimici rispetto al vero significato, non consentono al desiderio di raggiungere la sua meta che è “al di qua della linea di partenza” da cui il desiderio prende le mosse. Perciò, scrive Lacan:
Il desiderio si produce nell’al di là della domanda perché, articolando la vita del soggetto alle sue condizioni, essa ne sfronda il bisogno. Ma il desiderio si scava anche nel suo al di qua perché, domanda incondizionata della presenza e dell’assenza, esso evoca la mancanzaa-essere sotto le tre figure del niente (rien) che costituisce il fondo della domanda d’amore, dell’odio che giunge a negare l’essere dell’altro, e dell’indicibile di quel che si ignora nella sua richiesta. In questa aporia incarnata, il desiderio si afferma come condizione assoluta.48
Attraverso la domanda, il desiderio sempre insoddisfatto e sempre risorgente si dispiega nella parola, e il luogo di questo dispiegamento è l’Altro, inteso non come la somma delle persone interlocutrici, ma come l’ordine stesso del linguaggio a cui ogni interlocutore deve sottostare.
Il desiderio è al di là della domanda perché la sua forza oltrepassa la sua formulazione linguistica, ma al contempo si scava al di qua della domanda perché il suo oggetto rinvia alla mancanza d’essere radicale, che originariamente si è espressa nel bisogno di pienezza rimosso dalla Legge (il Nome-del-Padre) nell’inconscio.
Se l’Es è il luogo dove l’Io deve ritornare per scoprire la matrice del proprio essere, non si dovrà tradurre l’aforisma freudiano: “Wo es war, soll Ich werden” come solitamente lo si traduce: “Là dove era l’Es, deve venire l’Io”, ma: “L’Io deve avvenire là dove era”, ossia deve percorrere a ritroso il sentiero che porta all’inconscio. In questo senso, conclude Lacan:
Il fine che la scoperta di Freud propone all’uomo è stato da lui definito all’apogeo del suo pensiero in termini commoventi: Wo es war, soll Ich werden. L’Io deve avvenire là dove era (Là où fut ça, il me faut advenir).49
10. L’inconfessato ritorno a Nietzsche
Lacan chiama “ça” (ça parle, esso parla) l’inconscio che Freud prese a chiamare “Es”, dopo aver desunto il termine da Nietzsche dietro suggerimento di Groddeck. In una lettera a quest’ultimo, infatti, Freud scrive:
Lei ricorda come già da tempo io abbia accettato da Lei l’Es? È accaduto assai prima che ci conoscessimo, in una delle prime lettere che le ho scritto. Vi avevo inserito uno schizzo che fra poco verrà pubblicato quasi identico. Io credo che l’Es (in senso letterario, non associativo) Lei l’abbia preso da Nietzsche. Posso affermarlo anche nel mio scritto?50
Nonostante questi precisi riferimenti, Freud dichiara di non aver mai letto Nietzsche:
Nello sforzo di capire un filosofo, ho sempre pensato che sarebbe stato inevitabile impegnarsi nelle sue idee e sottoporsi alla sua guida durante il proprio lavoro. Per questo ho rifiutato lo studio di Nietzsche, anche se mi era chiaro che potevano essere trovate in lui concezioni molto simili a quelle della psicoanalisi.51
Simili sì, ma assolutamente divaricanti. Infatti, una volta assunta l’ipotesi schopenhaueriana secondo cui noi, lungi dall’essere il soggetto della nostra vita, siamo vissuti dalla natura che, come “cieca pulsione”, dirige ciò che facciamo e ciò che accade, all’Io individuale, che la cultura occidentale ha edificato, restano due vie praticabili: o la rinuncia ad assecondare il gioco della natura, come vuole l’ascesi di Schopenhauer che, scoperto l’inganno, non vuole restare irretito nella sua trama, o l’accettazione del gioco della natura, con conseguente liberazione di tutte le illusioni e di tutti gli inganni: in termini nietzscheani, con liberazione del dionisiaco, perché: “Tutto ciò che è profondo ama la maschera”,52 e quindi: “Dammi, ti prego, una maschera ancora! una seconda maschera”.53
Qui si inserisce Lacan, che riconosce a Freud il merito di aver destituito l’Io e la sua ragione dalla centralità che ha sempre avuto in Occidente da Platone a Hegel e, dopo aver accolto la lezione freudiana secondo cui “l’Io non è padrone in casa propria”, capovolge l’intenzione di Freud: non più la colonizzazione dell’inconscio da parte dell’Io, come è sempre stato nel percorso culturale dell’Occidente, ma il ritorno dell’Io all’inconscio: “L’Io deve avvenire là dove era”.54
Anche se Nietzsche non è tra gli autori di riferimento di Lacan, l’itinerario da lui dischiuso a me pare profondamente nietzscheano. E ciò fa di Lacan, a differenza di Freud, un testimone della nostra epoca che non crede di poter dominare il mondo con la ragione filosofica e tanto meno con quella scientifica, per l’inconciliabilità, che Lacan denuncia, tra natura e cultura, in termini schopenhaueriani: tra la soggettività della specie (la natura), che inesorabile cadenza la vita degli individui, e la presunta soggettività dell’Io (la cultura), che per vivere produce le sue illusioni. In termini nietzscheani: l’essenza del tragico.
Ma quando Lacan traduce l’espressione di Freud: “Là dove era l’Es, deve venire l’Io”, con: “L’Io deve avvenire là dove era”, ossia deve percorrere a ritroso il sentiero che porta all’inconscio, Lacan, nonostante le sue splendide e seducenti acrobazie linguistiche, non invera Freud, non lo porta, come egli crede, alla sua verità. Per Freud, infatti, l’inconscio o Es non è avvenire, semplicemente perché è il passato prossimo o remoto. L’inconscio è avvenire per Nietzsche, che ne parla come dell’“elemento produttivo”, a cui la coscienza razionale, per affermarsi, “muove guerra”: “Con Socrate si fa strada il principio della scienza: ciò significa guerra all’inconscio e sua distruzione”.55
Certo, perché Socrate vuole salvare la grecità dalla visione tragica dell’esistenza, icasticamente espressa dal grido di Sileno56 che neppure la “montagna incantata dell’Olimpo” riesce a tacitare. Occorre qualcosa di più forte: “La luce diurna della ragione, perché ogni cedimento all’inconscio porta a fondo”.57 E perciò Nietzsche scrive:
La tragedia greca trovò in Socrate la sua distruzione. L’inconscio è più grande del non sapere di Socrate: il demone è l’inconscio, che però si oppone ogni tanto all’oggetto della coscienza al solo scopo di ostacolare: ciò non ha un effetto produttivo, ma soltanto critico. Stranissimo mondo alla rovescia! Di solito è sempre l’inconscio l’elemento produttivo e l’oggetto della coscienza quello critico. L’esclusione degli artisti e dei poeti da parte di Platone è conseguente. L’oracolo di Delfi assegna il premio alla salvezza secondo il grado di consapevolezza.58
In accordo con Freud, Nietzsche afferma che: “Ogni estensione della nostra coscienza sorge dal render cosciente ciò che è inconscio”,59 ma ritiene che questa operazione è inesorabilmente l’estinzione di ogni creatività e quindi di ogni avvenire perché: “L’inconscio, forza costitutiva di forme, si rivela nella procreazione: proprio qui è attivo un impulso artistico”.60 E ancora: “C’è una creatività che non si risolve del tutto nel pensiero cosciente”,61 perché “il pensiero inconscio sa prodursi senza concetti, e quindi con intuizioni”.62
Anticipando Lacan, Nietzsche sa che: “Tutta la nostra cosiddetta coscienza è un più o meno fantastico commento di un testo inconscio, forse inconoscibile, e tuttavia sentito”.63 E questo perché “la grande attività fondamentale è inconscia”.64
Anticipando la convinzione freudiana secondo la quale “l’Io non è padrone in casa propria”, nonché la metafora dell’Io come iceberg, la cui parte maggiore è sommersa, Nietzsche afferma che: “La massima parte delle nostre esperienze è inconscia e agisce”,65 perché “ogni fare perfetto è appunto inconscio e non più voluto, la coscienza esprime uno stato personale imperfetto e spesso morboso”.66
A partire da queste considerazioni Nietzsche taccia di “rudimentali” tutte le psicologie che affermano il primato della coscienza, o addirittura, come Freud, “il prosciugamento dell’inconscio”. E questo perché:
La psicologia rudimentale che prese in considerazione
solo i momenti coscienti dell’uomo come cause, che prese la
“coscienza” come attributo dell’anima, che cercò una volontà (ossia
un’intenzione) dietro ogni fare, aveva solo bisogno di
rispondere:
Primo: che cosa vuole l’uomo?
Risposta: la felicità (non era dato
dire la “potenza”: sarebbe stato immorale), e quindi in ogni azione dell’uomo c’è
l’intenzione di conseguire con essa la felicità.
Secondo: se in realtà l’uomo non consegue la felicità da che cosa
dipende? Dagli errori nella scelta dei mezzi. Qual è il mezzo infallibile per raggiungere la
felicità? Risposta: la
virtù.
Perché la virtù? Perché “è” la più alta razionalità, e perché la
razionalità rende impossibile l’errore che si commette sbagliando
nei mezzi. Come ragione, la virtù è la
via che porta alla felicità. La dialettica è il mestiere costante
della virtù, perché esclude ogni perturbazione dell’intelletto,
tutti gli affetti.
In realtà l’uomo non vuole la
“felicità”. Il piacere è un sentimento di potenza: se si escludono
gli affetti, si escludono anche gli stati che danno massimamente il
senso della potenza e quindi il piacere. La suprema razionalità è
uno stato freddo e chiaro che è lungi dal dare quel sentimento di
felicità che comporta l’ebbrezza in ogni forma.
I filosofi antichi combattevano tutto ciò che inebria, che
pregiudica l’assoluta freddezza e neutralità della coscienza. Essi
erano coerenti, in base al loro falso presupposto che la coscienza
fosse lo stato più alto, altissimo, il presupposto della perfezione, mentre
è vero il contrario.67
Se la ricerca della felicità è ciò che promuove l’avvenire, e se la felicità non dimora nelle adiacenze della razionalità e della coscienza, come ritenevano i filosofi antichi (che, al dire di Nietzsche: “Come filosofi della virtù, furono i più grandi incompetenti della pratica, perché si condannarono teoreticamente all’incompetenza”),68 e come ritiene Freud (che, al pari dei filosofi antichi, considera l’etica “il più grande esperimento terapeutico finora mai raggiunto attraverso nessun’altra opera di civiltà”),69 l’avvenire può essere dischiuso solo dalle forze dell’inconscio.
E quindi con ragione Lacan dice che “l’Io deve avvenire là dove era”, ma questa non è “la scoperta di Freud” come Lacan ritiene. Questa è la scoperta di Nietzsche, che giudica “rudimentale” ogni filosofia e ogni psicologia che, annodando la felicità con la virtù, a sua volta identificata dalla razionalità, rimuove le potenze dell’inconscio che, per questo e non per altro, diventa,come dice Freud, il luogo del rimosso: “È corretto dire che ogni rimosso è inconscio”.70
Nietzsche solleva la coltre della rimozione e scopre l’inconscio “come elemento produttivo”, da cui dipende non solo l’avvenire, ma forse anche la felicità se, sotto il regime della razionalità e della coscienza, non si contiene la felicità nel recinto stretto della virtù, che altro non vuole se non la rimozione delle passioni, e quindi dell’inconscio dove le passioni dimorano. Il che non significa tripudio del dionisiaco, ma, come scrive Nietzsche, “un salvar le ragioni di tutti gli impulsi, una specie di giustizia, affinché possano affermarsi nell’esistenza e aver ragione tutti insieme”.71
1 S. Freud, Eine Schwirigkeit der Psychoanalyse (1917); tr. it. Una difficoltà della psicoanalisi, in Opere, Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. VIII, p. 663.
2 J. Hillman, M. Ventura, We’ve Had a Hundred Years of Psychotherapy – And the World’s Getting Worse (1992); tr. it. Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, Raffaello Cortina, Milano 1998.
3 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, 1, Prefazione, § 5, p. 12.
4 S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, cit., p. 663.
5 J. Lacan, Instance de la lettre dans l’incoscient ou la raison depuis Freud (1957); tr. it. L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. I, p. 512.
6 Id., Le séminaire. Livre I: Les écrits techniques de Freud (1953-1954); tr. it. Il seminario. Libro I: Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino 1978, p. 20.
7 Per la critica nietzscheana alla figura del soggetto, condotta in stretta polemica con Cartesio, si veda K. Galimberti, Nietzsche. Una guida, Feltrinelli, Milano 2000, e in particolare il capitolo 1: “La volontà di potenza come conoscenza”.
8 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1887-1888; tr. it. Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, cit., 1971, vol. VIII, 2, fr. 10 (19), p. 116.
9 Id., Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft (1886); tr. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in Opere, cit., 1972, vol. VI, 2, § 54, p. 60.
10 S. Natoli, Soggetto e fondamento. Il sapere dell’origine e la scientificità della filosofia (1979), Bruno Mondadori, Milano1996, e in particolare il capitolo 3, § 1: “Soggetto reale e soggetto legale”, pp. 156-163.
11 J. Lacan, Le séminaire sur “La Lettre volée” (1955); tr. it. Il seminario su “La lettera rubata”, in Scritti, cit., vol. I, p. 49.
12 Id., Il seminario. Libro I: Gli scritti tecnici di Freud, cit., p. 198.
13 C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale (1958); tr. it. Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 1966, p. 48.
14 J. Lacan, La psychoanalyse et son enseignement (1957); tr. it. La psicoanalisi e il suo insegnamento, in Scritti, cit., vol. I, p. 437.
15 Id., La science et la vérité (1966); tr. it. La scienza e la verità, in Scritti, cit., vol. II, p. 865.
16 Ivi, p. 867.
17 Ivi, p. 871.
18 Id., Fonction et champ de la parole et du langage en psychoanalyse (1956); tr. it. Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, cit., vol. I, p. 277.
19 Ivi, p. 261.
20 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807); tr. it. Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1963, capitolo IV, A: “Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza: signoria e servitù”, pp. 153-164.
21 J. Lacan, La direction de la cure et les principes de son pouvoir (1961); tr. it. La direzione della cura e i principi del suo potere, in Scritti, cit., vol. II, p. 624.
22 Id., D’une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose (1975); tr. it. Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti, cit., vol. II, p. 571.
23 Id., La psicoanalisi e il suo insegnamento, cit., p. 429.
24 Id., Subversion du sujet et dialectique du désir dans l’incoscient freudien (1960); tr. it. Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, in Scritti, cit., vol. II, p. 795.
25 Id., Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., p. 274.
26 Ivi, p. 252.
27 Ivi, pp. 252-253.
28 J. Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, cit., p. 497.
29 Id., Scilicet. Revue de l’École freudienne de Paris (1968-1973); tr. it. Scilicet. Rivista della scuola freudiana di Parigi, Feltrinelli, Milano 1977, n. 1-4, p. 256.
30 Id., Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je (1937); tr. it. Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, cit., pp. 88-89.
31 Ivi, p. 89.
32 Id., Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., p. 269.
33 C. Lévi-Strauss, Les structures élémentaires de la parenté (1947); tr. it. Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 1967, e in particolare il capitolo 2: “Il problema dell’incesto” e il capitolo 4: “Endogamia ed esogamia”.
34 S. Freud, Totem und tabu (1912-1913); tr. it. Totem e tabù, in Opere, cit., vol. VII, pp. 145-147.
35 Id., Das Ich und Es (1922); tr. it. L’Io e l’Es, in Opere, cit., vol. IX, p. 494.
36 J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, cit., p. 571.
37 Id., Position de l’incoscient (1966); tr. it. Posizione dell’inconscio, in Scritti, cit., vol. II, p. 846.
38 Id., L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, cit., p. 491.
39 Id., La chose freudienne (1956); tr. it. La cosa freudiana, in Scritti, cit., vol. I, pp. 404-405.
40 Id., L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, cit., p. 497.
41 Ibidem.
42 Id., Introduction au commentaire de Jean Hyppolite sur la Verneinung de Freud (1956); tr. it. Introduzione al commento di Jean Hyppolite sulla Verneinung di Freud, in Scritti, cit., vol. I, p. 364.
43 Id., Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., p. 270.
44 Id., La scienza e la verità, cit., p. 872.
45 P. Caruso (a cura di), Conversazioni con C. Lévi-Strauss, M. Foucault, J. Lacan, Mursia, Milano 1969, p. 165.
46 J. Lacan, Au-delà du principe de réalité (1936); tr. it. Al di là del principio di realtà, in Scritti, cit., vol. I, p. 73.
47 Platone, Simposio, 191 d: “Ciascuno di noi è il simbolo di un uomo (hékastos oûn emôn estin anthrópou sýmbolon), la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente”.
48 J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, cit., p. 625.
49 Id., L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, cit., p. 519.
50 S. Freud, Lettera di Freud a Groddeck, datata Natale 1922, in S. Freud, G. Groddeck, Briefwechsel (1917-1934); tr. it. Carteggio, Adelphi, Milano 1973, pp. 72-73. Nietzsche usa correntemente questa espressione grammaticale per indicare quanto nel nostro essere vi è di impersonale e di naturalisticamente necessitato. G. Groddek, autore di Das Buch vom Es (1923); tr. it. Il libro dell’Es, Adelphi, Milano 1966, sembra abbia acquisito questo termine dal proprio maestro, Ernst Schweninger, rinomato medico tedesco, fervido ammiratore di Nietzsche. “Es”, che nella lingua tedesca è il pronome neutro di terza persona impiegato come soggetto dei verbi impersonali (corrispondente al latino “id”), è particolarmente idoneo a esprimere il carattere oggettivo e impersonale dei bisogni pulsionali, vissuti come estranei alla parte cosciente della personalità.
51 S. Freud, Lettera a Lothar Bickel, 26.6.1931, in S. Hessing, Freud’s Relation with Spinoza, Heley, Boston 1977, p. 224.
52 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, cit., § 40, p. 46.
53 Ivi, § 278, pp. 196-197.
54 J. Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, cit., p. 519.
55 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1869-1874; tr. it Frammenti postumi 1869-1874, in Opere, cit., 1989, vol. III, 3, Parte I, § 1 (27), p. 10.
56 Id., Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, cit., 1972, vol. III, 1, pp. 31-32: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto”.
57 Id., Götzendämmerung, oder: Wie man mit dem Hammer philosophiert (1889); tr. it. Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, in Opere, cit., 1970, vol. VI, 3, p. 67.
58 Id., Frammenti postumi 1869-1874, cit., Parte I, § 1 (43), p. 14.
59 Ivi, § 5 (89), p. 113.
60 Ivi, § 16 (13), p. 418.
61 Ivi, Parte II, § 19 (74), p. 28.
62 Ivi, § 19 (107), p. 39.
63 Id., Morgenröte. Gedanken über die moralischen Vorurteile (1881); tr. it. Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, in Opere, cit., vol. V, 1, § 119, p. 89.
64 Id., Nachgelassene Fragmente 1881-1882; tr. it. Frammenti postumi 1881-1882, in Opere, cit., 1975, vol. V, 2, § 11 (46), p. 296.
65 Id., Nachgelassene Fragmente 1884; tr. it. Frammenti postumi 1884, in Ope-re, cit., 1976, vol. VII, 2, § 25 (359), p. 94.
66 Id., Nachgelassene Fragmente 1888-1889; tr. it. Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, cit., 1974, vol. VIII, 3, § 14 (128), p. 100.
67 Ivi, § 14 (129), pp. 100-101.
68 Ivi, p. 101.
69 S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (1929); tr. it. Il disagio della civiltà, in Opere, cit., vol. X, pp. 627-628.
70 Id., Der Mann Moses und die monotheistische Religion: drei Abhandlungen (1937-1938); tr. it. L’uomo Mosè e la religione monoteista: tre saggi, in Opere, cit., vol. XI, p. 416.
71 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (1882); tr. it. La gaia scienza, in Opere, cit., 1965, vol. V, 2, § 333, p. 191.