11. Il simbolismo in astrologia. Storia e destino
“Nel tuo petto sono le stelle del tuo destino”, dice Seni a Wallenstein, il che dovrebbe soddisfare ogni astrologo, solo che si sapesse qualcosa dei segreti del cuore. Ma finora se ne è avuta una comprensione limitata, né mi azzardo ad asserire che le cose siano oggi a un punto migliore.
C.G. JUNG, Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1934), p. 6.
Sebbene l’interpretazione psicologica dell’oroscopo sia una cosa alquanto insicura, oggi abbiamo tuttavia qualche speranza di una possibile spiegazione causale e quindi di una regolarità naturale. Di conseguenza non ha più alcuna giustificazione definire l’astrologia come un metodo mantico. L’astrologia è in procinto di diventare una scienza.
C.G. JUNG, La sincronicità come principio di nessi acausali (1952), p. 546.
1. Il disincanto del cielo
Un giorno anche le stelle si sono ammalate. Dopo aver vegliato su un mondo inferiore alle aspettative, alcune di loro si sono ritirate diventando stelle oziose, altre invece si sono mescolate troppo nelle vicende umane mettendo definitivamente a rischio la loro natura celeste, altre infine si sono date troppe determinazioni, diventando più rispondenti ai calcoli degli astronomi che agli dèi. Le stelle si sono ammalate.
Anche il cielo è malato. Gli antichi credevano nell’incorruttibilità delle sfere celesti, così come credevano nell’incorruttibilità divina. Ma il cannocchiale di Galileo venne a mostrare le imperfezioni della luna che i suoi contemporanei non volevano vedere. Oggi si è giunti a identificare delle malattie galattiche. Nel cosmo è nascosto un tarlo.
Anche la luce è malata. Goethe credeva ancora nella sua perfezione, e perciò protestava con Newton che la considerava una mescolanza di sette colori e quindi impura. Poi la luce venne misurata nella sua velocità di trasmissione e si scoprì che è fessurata internamente, essendo insieme corpuscolo e onda. Troppe malattie in un semplice raggio di luce.
Anche il tempo è malato. Il tempo assoluto, omogeneo, uniforme s’è rivelato meno maestoso dal momento che è divenuto semplice tempo locale, tempo solidale con lo spazio, che a sua volta si è ridotto a semplice coesistenza delle cose, talvolta a realtà regionale con limiti ai confini.
Anche la vita è malata con le approssimazioni e le incertezze segnalate dalla biologia contemporanea, per la quale la vita è una semplice tumefazione della materia, un caso trasformato in necessità.
Malato è anche il lógos spezzato in lingue regionali, quando dovrebbe portare con sé, come dice il suo nome, l’unità della ragione. Ma se tutte le grandi entità sono malate e se la cultura viene a mostrare le loro malattie come costituzionali, con che occhi possiamo guardare ancora il cielo?1
2. Il simbolo astrologico e il buon presagio
Le figure celesti ci hanno abbandonato e il mondo ha perso il suo incanto. Ma il disincanto del mondo offre fenditure tragiche guardate da un cielo che non redime, perché reso muto e a sua volta irredento. Forse le figure celesti sono state sempre impietose con gli uomini, ma la venerazione degli uomini le placava.
Gli oroscopi sono il precipitato storico di questa supplica dove un misto di invocazione e di terrore si addolciva nella figura del buon presagio. La primitiva angoscia si smorzava nell’andamento tranquillo della narrazione, dove il lavoro della ragione stemperava le tracce della follia che da sempre abita l’uomo e di cui il buon presagio è la prima parola.
Ora, resi esangui dalla nostra ragione, i rimandi astrologici continuano ad abitare i nostri sogni, le nostre passioni, le nostre angosce, in quegli itinerari incerti e bui della nostra anima, dove ognuno deve vedersela da solo con demoni e dèi, ma di loro abbiamo perso l’origine, il luogo e il nome. In questa condizione non possiamo conoscerli e non possiamo chiamarli. Altre mitologie avanzano e con esse un altro tipo di umanità, rispetto alla quale l’uomo storico, quello che noi conosciamo, sta diventando di giorno in giorno sempre più preistorico. Non c’è rimpianto in tutto questo, solo un invito alla consapevolezza.
All’interno di questa consapevolezza, Jung ha cercato di rintracciare il senso del simbolo astrologico in una cultura, la nostra di oggi, governata per intero dalle rigide forme della razionalità, che produce identità, ruoli, linguaggi confezionati da impiegare nei vari circuiti già predisposti della comunicazione. In questo contesto il simbolo astrologico produce una fuga di senso che va molto lontano dal codice, trascinando con sé l’attenzione inquieta di chi, percependolo, è trasportato da questa diversione di senso in tutt’altro ordine di significati, in tutt’altra verità.
Creando un senso adiacente rispetto al senso stabilito, il simbolo astrologico rivela quella potenza creativa che accompagna il mutamento inconsapevole della storia individuale e collettiva. Non si deve chiedere che cosa significano i simboli, perché i simboli non significano, i simboli operano. Quando, a distanza, ne avvertiamo il senso, i simboli si sono già allontanati e il loro posto è stato occupato dai codici che di volta in volta ordinano il nostro modo di vivere e di parlare. Ma già si preparano altre inconsapute verità, a cui è affidata ogni cadenza inconsueta della nostra vita.
3. Storia e metastoria
La lettura che Jung fa dei simboli astrologici, pur tra mille oscillazioni, è percorsa dall’ipotesi della traducibilità dei nessi casuali in nessi causali:
Sebbene non si sappia affatto con precisione su che cosa si basi la validità di un oroscopo di nascita, la possibilità di un rapporto causale tra aspetti planetari e disposizioni psicofisiologiche è diventata un’ipotesi pensabile. Sarà bene quindi intendere i risultati della concezione astrologica non come fenomeni sincronici, ma come effetti che possono essere dovuti a una causa.2
Sottratta all’irrazionale, l’astrologia di Jung dischiude quella che Ernesto De Martino chiamerebbe una “meta-storia”,3 dove il senso delle azioni è già descritto e anticipato nel suo buon fine. Questo fa sì che quando nella storia il negativo assale l’esistenza, l’individuo non naufraga nella negatività sopraggiunta, perché sospetta un ordine superiore, un ordine metastorico che l’astrologia descrive e in cui questa negatività viene riassorbita e risolta.
In questa prospettiva l’individuo affronta il negativo e le crisi d’esistenza che ogni evento negativo dischiude appoggiandosi a una sorta di “così-come” a cui l’oroscopo accenna. Come nel cielo una determinata serie di connessioni trova il suo esito positivo, così una serie analoga di eventi che sta succedendo a un individuo, in un certo frangente della sua esistenza, troverà la sua soluzione.
Da questo punto di vista, lo scenario astrologico svolge una duplice funzione che consiste nell’inaugurare un orizzonte rappresentativo stabile in cui ogni cosa ha già trovato la sua soluzione, e nel de-storicizzare il divenire storico, la cui drammaticità insorge quando non c’è più una metastoria, che contiene un senso ulteriore rispetto a quello che l’insorgenza del negativo fa apparire come senso ultimo.
Come orizzonte della crisi, il presagio astrologico circoscrive la negatività del negativo evitandole di espandersi; come luogo di de-storicizzazione del divenire la relativizza, consentendo di affrontare le prospettive incerte “come se” tutto fosse già deciso sul piano metastorico, secondo i modelli che esso esibisce. In questa saldatura fra astrologia e storia, e nel rapporto fra storia e metastoria che ogni lettura astrologica inaugura, è possibile cogliere l’essenza di quel che chiamiamo “oroscopo” e offrire una spiegazione del suo senso nascosto.
L’esistenza, infatti, è sempre esistenza precaria, che non potrebbe reggere senza quelle strutture protettive che l’astrologia, al pari della mitologia, della religione, della magia, della chiromanzia e della stessa ragione, si incaricano di inaugurare e sostenere. Il senso dell’astrologia non è dunque da ricercare tanto negli “archetipi”, questi “a priori” dell’esistenza che ne condizionerebbero il decorso, ma nel rapporto tra la precarietà, la contingenza, il disordine in cui ogni singola esistenza si dibatte, e le procedure di ordinamento e di assestamento che ogni comunità storica, per sopravvivere, è sempre stata costretta a inaugurare: o nelle forme eterne del cielo, scrutando il quale si cerca di presagire l’andamento delle cose sulla terra, o nelle forme della ragione, la cui efficacia è comunque nella fiducia che una determinata comunità storica accorda alle sue regole.
Se separiamo l’astrologia dalla determinatezza storica non capiamo nulla dell’astrologia e, inevitabilmente, neanche della storia, caratterizzata dalla precarietà e dalla contingenza, dove è possibile vivere solo se sullo sfondo c’è una fede in una metastoria. Che poi questo sfondo sia ordinato dalle stelle che sono in cielo o dalle regole dell’umana ragione non è importante, perché importante è quel vissuto soggettivo, persuaso che, seguendo un certo ordine, il negativo che minaccia di continuo l’esistenza dell’uomo può essere riassorbito e relativizzato. Nella sua relativizzazione c’è per l’uomo la possibilità di non perdersi e di proseguire oltre, cioè di continuare a fare storia.
4. Il linguaggio analogico dell’astrologia
Per accedere a un’ulteriorità di senso, l’astrologia si serve di un linguaggio che sfugge sia allo schema concettuale, che costituisce la violenza prima di ogni commento, sia al rapimento poetico che, anche quando va al di là dell’abuso retorico, non lascia mai alle sue spalle le scansioni determinanti del discorso.
Chiamiamo “linguaggio analogico” questo linguaggio che assomiglia all’insistenza infinita dell’onda sulla spiaggia, al ritorno e alla ripetizione della stessa onda sulla stessa riva, dove però ogni volta tutto il senso si rinnova e si arricchisce, riassumendosi in un’esperienza che, più è indescrivibile nella concettualità occidentale, più esige la nostra attenzione.
È un’attenzione che si rivolge allo spazio dell’interrogazione, dove però a interrogare non siamo noi, ma è il cielo che già ci ha sorpreso nel dialogo dell’interrogazione su di noi e con noi. È uno spazio che nessuno può avere l’ambizione di esplorare dall’esterno o di descrivere come solitamente si descrivono le cose, perché quando a promuovere l’interrogazione è il cielo, la domanda non è ancora abbastanza determinata perché l’ipocrisia di una risposta si sia già introdotta sotto la maschera dell’interrogazione.
Contro la logica della de-terminazione dei significati, legittima finché non pretende di porsi come unica, lavora, infatti, quel modo analogico di pensare che trasgredisce tutte le determinazioni, perché non c’è cosa che termini in un solo significato. Se infatti la luna fosse solo quel che l’astronomia ci dice, che senso avrebbe la domanda di Leopardi: “Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?”.4
Per accedere al linguaggio analogico, di cui l’astrologia si nutre, è dunque necessario oltrepassare le procedure logiche della nostra ragione, non per approdare alla follia, che è quel passar di cosa in cosa nel farsi deserto della ragione, ma per accedere a quell’ulteriorità a cui ogni cosa accenna come completamento del suo senso. “Ana-logia” significa infatti “pensare (légein) verso l’alto (ana)”, quindi oltre-passare la de-terminazione in cui la logica della ragione blocca, terminandoli, i significati delle cose.
Solo se non spegniamo il senso delle parole nel recinto del loro significato abituale, l’astrologia avrà ancora molto da dire anche nel tempo del disincanto del cielo, non tanto in ordine ai contenuti empirici, ma in ordine a quel modo di pensare che è un passare, un passare oltre, attraverso l’analogia, in quella regione aperta dove la potenza del simbolo, anche se non viene nominata, come quella del sole, è già in mezzo alle cose.
5. Il simbolo cosmologico
Si è soliti leggere nei simboli un destino a cui non ci si può sottrarre. Ma l’evocazione del destino chiama in gioco quel suo antagonista che in Occidente si chiama libero arbitrio, a cui siamo soliti affidare il senso della nostra storia, sia individuale sia collettiva. Le cose non sono andate subito così. Quando l’uomo era pensato come parte del Tutto, erano il cielo e il movimento delle stelle a raccontare la sua storia. Questa persuasione era comune tanto all’Oriente quanto all’Occidente, ed è bene espressa da un frammento di Eraclito:
Questo cosmo che, di fronte a noi, è il medesimo per tutti, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma fu sempre, è, e sarà fuoco sempre vivente che divampa secondo misure e si spegne secondo misure.5
Da questa visione cosmica non poteva nascere alcun progetto in ordine alla dominazione del mondo, perché come cosmo, il mondo non era creazione di un Dio, né opera dell’uomo, ma in sé perenne, custodito nelle sue misure, era per sé. Considerato il più perfetto esemplare d’ordine e nello stesso tempo la causa di ogni ordine riscontrabile nelle realtà particolari, che soltanto in gradi diversi si avvicinano a quello del Tutto, il cosmo non era pensato solo come un sistema fisico, ma come quell’ordine necessario a cui l’uomo, come parte, doveva assimilarsi. Nel riconoscimento e nell’accettazione del proprio esser-parte, l’uomo trovava la sua collocazione e il senso della sua esistenza, che era nell’adeguarsi, in quanto parte, all’ordine (kósmos) del Tutto.
Si trattava di una totalità che non nasceva dalla somma quantitativa delle parti, ma da quella nota qualitativa che faceva di quelle parti composte un ordine, un cosmo. Da quell’ordine, che era poi la ragione dell’universo, il suo lógos, nasceva quella pietà cosmica che non era tanto un sentimento religioso, quanto l’espressione antropologica di quella relazione universale che è la composizione delle parti con il Tutto.
Esempio vivente di questa relazione era la pólis, la città descritta nella Repubblica di Platone, dove la relazione tra i molti e l’Uno, preparata dalla pietà cosmica, trovava la sua espressione politica. Come nel cosmo, infatti, così nella città, le parti non solo dovevano essere dipendenti dal Tutto quanto al loro essere, ma anche mantenere quel Tutto con il loro essere. Come l’ordine del Tutto condizionava l’essere e la possibile perfezione delle parti, così la condotta delle parti condizionava l’essere e la perfezione del Tutto.
Qui la nascente filosofia greca presenta profonde analogie con la sapienza orientale, dove l’ordine storico-politico era pensato in funzione dell’ordine cosmico universale. In questo senso filosofi greci e sapienti orientali erano veramente cosmo-politici, perché pensavano l’ordine del cosmo come vero modello per l’ordine della pólis.
Platone per edificare la città guardava il Cosmo, Lao-Tzu, per dare ordinamenti agli uomini, guardava il Tao. Cosmo e Tao erano l’espressione di quella “misura” eraclitea che non era scandita dal progetto umano, ma dal calcolo cosmico. Scrive in proposito Platone:
Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell’universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica.6
Dal canto suo Lao-Tzu, come riferisce la tradizione orientale, dice:
Se principi e re fossero guardiani del Tao, allora tutti gli esseri si sottometterebbero spontaneamente a essi. Cielo e terra si unirebbero per lasciar cadere una benefica rugiada che il popolo riceverebbe spontaneamente in parti uguali senza che nessuno debba prendersene cura. [...] L’ordine della città, infatti, seguirebbe l’ordine del Tao, la cui rete si getta su vaste estensioni, si apre su di esse e, per quanto allentate siano le sue maglie, nulla sfugge a esse.7
6. Il simbolo antropologico
La distruzione di questo simbolo, in cui è custodito il senso vero e originario dell’astrologia, segna la nascita dell’Occidente,dove non è più l’ordine del cosmo a dettare legge alla città, ma è la città, come comunità dell’umano, a definire di volta in volta il cosmo. All’orizzonte cosmo-politico si sostituisce il disegno di una politica cosmica, dove il progetto dell’uomo cancella ogni ritmo del cielo, mentre le scansioni della sua storia cancellano quelle “misure” che, al dire di Eraclito, segnavano il “divampare” e lo “spegnersi” dei cicli cosmici.
Qui svanisce ogni possibilità di confronto, perché il progetto occidentale non è una variante del simbolo celeste, ma la sua antitesi. A mutare, infatti, non è solo il misurato, ma la misura, per cui, rispetto all’ordine del cosmo, l’uomo occidentale appare s-misurato, cioè fuori misura. Nel Tutto non “rappresenta la sua parte”, com’era nell’invito della legge antica, ma al Tutto “impartisce la parti”, e così capovolge quella gerarchia aristotelica per la quale l’economia, la politica e l’etica, avendo per oggetto l’uomo, non potevano essere le scienze più alte, perché ciò avrebbe significato pensare l’uomo come l’essere più alto nel Tutto-cosmico. Scrive infatti Aristotele:
Sarebbe assurdo pensare che la politica o la saggezza siano le forme più alte di conoscenza, a meno di non pensare che l’uomo sia la realtà di maggior valore nel cosmo. [...] Di fatto ci sono realtà di natura ben più divina dell’uomo, come, ad esempio, i corpi celesti di cui è costituito il cosmo.8
7. La norma del cielo e le sorti dell’anima
Fu così che la lettura del cielo, la sua regola, la sua norma, la sua misura sprofondò nell’inconscio degli uomini e si mescolò nelle trame confuse dell’irrazionale per riemergere come assillo quotidiano circa il senso del tempo e la sorte futura. Ma oggi non siamo più all’altezza dell’antico paesaggio, non ne individuiamo più i contorni, i pieni, i vuoti, i volumi di senso, perché non conosciamo più il cielo che le parole degli antichi descrivevano come una volta che abbraccia il mondo, e tanto meno l’anima universale nel suo dibattersi tra il cielo e la terra. Oggi conosciamo solo anime individuali rese asfittiche dall’incapacità di correlare la loro sofferenza quotidiana con il dolore del mondo.
Un volume di senso, quello che gli antichi riferivano alla volta celeste, è stato spazzato via dalle scienze psicologiche che, delimitando il campo alla semplice descrizione dei processi psichici individuali o alla problematica normalizzazione dei comportamenti, hanno eluso la domanda di fondo che percorreva l’anima del mondo nel suo dibattersi tra spirito e materia, dove restava indecidibile se l’uomo fosse l’autore di una storia con tutto il ventaglio delle sue creazioni, o semplicemente l’esecutore di un destino già scritto nello spessore della materia.
A questa domanda, che confusamente si aggira fra i dubbi più segreti di ogni anima, la psicologia e l’astrologia non possono rispondere se non sollevando di molto i loro impianti categoriali, fino a portarli alla densità dell’interrogazione che nella sapienza antica ha trovato lo spazio per dirsi.
Ma per questo è necessario che le macchine psicologiche e i calcoli astrologici mettano in gioco i loro strumenti non più sul terreno della sorte individuale, ma su quello più arduo dell’esistenza, che è capace di storia proprio perché rifiuta l’idea di destino. A meno che il destino, come sembra lasciar intendere Jung con la sua teoria degli archetipi, poi radicalizzata da Hillman, non ci abbia da sempre giocato, e la storia non sia altro che il nostro inganno per vivere. Goethe, in una riflessione del 1811 sulla sua vita, scrisse:
Venni al mondo a Francoforte sul Meno il 28 agosto 1749, al dodicesimo tocco di mezzogiorno. La costellazione era propizia. Il Sole si trovava nel segno della Vergine; Giove e Venere erano in buon aspetto con il Sole; Mercurio non era sfavorevole, Saturno e Marte neutri; solamente la Luna, piena quel giorno, esercitava la propria forza di riverbero, tanto più potente giacché la sua ora planetaria era iniziata. Si oppose dunque alla mia nascita fino a quando quest’ora non fu trascorsa. Questi buoni aspetti, molto apprezzati in seguito dagli astrologi, rappresenteranno senza dubbio il motivo per il quale sono rimasto in vita. Infatti, per l’inettitudine dell’ostetrica, pensarono che fossi morto venendo al mondo, e fu solo dopo numerosi sforzi che vidi la luce.9
Sappiamo che la luce ha parentela con il sole e con le stelle, ma è pur sempre nella storia che dobbiamo nascere, e la storia è piena di inciampi a cominciare dall’inettitudine di un’ostetrica. Che sia per questo che guardiamo le stelle? Se è così evitiamo di guardarle con quello sguardo obliquo che vuol piegare il loro corso alla buona riuscita dei nostri progetti, perché in questo caso avremmo perso la misura e l’innocenza del nostro sguardo, che si muove in uno spazio che non è garantito neppure dall’aristotelico “cielo delle stelle fisse”, perché anche questo cielo è tramontato per noi.
1 Le malattie, qui rapidamente accennate, trovano la loro ampia trattazione nel libro del filosofo rumeno C. Noica, Sase maladii ale spiritului contemporan (1978); tr. it. Sei malattie dello spirito contemporaneo, il Mulino, Bologna 1993.
2 C.G. Jung, Syncronizität als ein Prinzip akausaler Zusammenhänge (1952); tr. it. La sincronicità come principio di nessi acausali, in Opere, Boringhieri, Torino 1969-1993, vol. VIII, p. 487.
3 E. De Martino, Sud e magia (1959), Feltrinelli, Milano 1989, pp. 98-108.
4 G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante nell’Asia (1829), in Canti di Giacomo Leopardi commentati da lui stesso, Sandron Editore, Napoli 1917.
5 Eraclito, fr. B 30.
6 Platone, Leggi, Libro X, 903 c.
7 Lao-Tzu, Tao Tê Ching. Il libro della via e della virtù, Adelphi, Milano 1973, §§ XXXVII e LXXIII, pp. 97, 159.
8 Aristotele, Etica a Nicomaco, Libro VI, § 7, 1141 a-b.
9 J.W. Goethe, Aus meinen Leben. Dichtung und Wahrheit (1811-1831); tr. it. Dalla mia vita. Poesia e verità, Utet, Torino 1957, Libro I, p. 49.