Israpil Nabiyev scese dall’elicottero, portandosi sotto i riflettori. Di fronte a lui l’enorme edificio si ergeva nella neve. Il trentacinquenne leader della Jamaat Shariat socchiuse gli occhi e avanzò di un passo sulla neve ghiacciata, poi di un altro. Ogni movimento lo portava più vicino alla libertà agognata nei lunghi mesi in cui era stato tenuto prigioniero.
Il calcio di un fucile si abbatté sulla sua nuca, facendolo inciampare. Il colpo l’aveva stordito, ma si rimise in ginocchio, provando a rialzarsi e a riprendere a camminare, ma due delle guardie dell’elicottero lo afferrarono alle spalle e gli legarono i polsi con le manette metalliche. Lo fecero voltare e lo spinsero di nuovo nell’elicottero.
«Non oggi, Nabiyev» disse uno degli uomini sopra al rumore dei motori dell’elicottero. «Il LCC del Rokot somiglia molto a quello del sistema Dnepr, non è vero?»
Israpil Nabiyev non capiva cosa stesse succedendo. Non sapeva di trovarsi ventiquattro chilometri a ovest dell’impianto di Dnepr; gli avevano fatto credere che lo avrebbero consegnato a Safronov e alla Jamaat Shariat. L’elicottero si sollevò di nuovo, iniziò a volteggiare, poi volò via, lontano dalle luci abbaglianti.
Georgij Safronov ripose la sua Makarov e fece cenno di mandare i prigionieri verso l’elicottero dell’aeronautica russa, in attesa. Gli uomini e le donne americani, inglesi e giapponesi, tutti avvolti in cappotti pesanti, sfilarono davanti a lui, sotto la luce. Di fronte a loro, l’uomo con la barba venne avanti; ora si trovava ad appena trenta metri di distanza. Georgij vide il sorriso sul suo volto e gli venne da sorridere a sua volta.
Safronov notò che i prigionieri si muovevano più veloci di Nabiyev; fece un cenno al suo connazionale perché allungasse il passo. Georgij avrebbe voluto gridare, ma il motore dell’elicottero era troppo forte, persino in quel punto.
Agitò la mano un’altra volta, ma Nabiyev non lo ascoltò. Non sembrava ferito; Georgij non riusciva a capire cosa non andasse.
D’improvviso l’uomo si fermò nel parcheggio. Rimase lì, di fronte all’edificio.
In un momento, Safronov passò dall’entusiasmo al sospetto. Subodorò il pericolo. I suoi occhi esaminarono il parcheggio, l’elicottero dietro di esso, i prigionieri che si affrettavano a salire.
Non vide nulla, ma non sapeva quale minaccia fosse in agguato nel buio oltre le luci. Fece un passo indietro per tornare nel corridoio, nascondendosi dietro la porta.
Guardò Nabiyev: aveva ricominciato a muoversi. Safronov era ancora sospettoso. Si sforzò di mettere a fuoco la scena sotto la luce abbagliante, fissando il viso dell’uomo per un lungo istante.
No.
Non era Israpil Nabiyev.
Georgij Safronov gridò furioso sfoderando la Makarov e tenendola bassa dietro la schiena.
La mano sinistra di Chavez, avvolta dal guanto, si aggrappò al palo di ferro che sosteneva il faro. Le dita gli facevano male e bruciavano, il suo corpo sporgeva dall’edificio. Con la mano destra teneva i pantaloni di un terrorista morto appena sopra la caviglia. I settanta chili del cadavere rischiavano di slogargli la spalla.
Sapeva di non potersi ritrarre sul tetto e continuare la missione senza lasciar andare il corpo, e non avrebbe potuto lasciare il corpo senza rischiare di compromettere la missione.
Non poteva immaginare una situazione peggiore, ma quando vide che l’agente del FSB mascherato da Nabiyev era rimasto impietrito a guardare lo spettacolo sei metri sopra Safronov e le guardie davanti alla porta centrale, Chavez scosse la testa più volte, sperando di costringere l’uomo ad avanzare. Per fortuna l’agente ricominciò a muoversi, perciò Ding tornò a concentrarsi per non far cadere il corpo e non perdere la presa.
Proprio allora, sopra di lui nel cielo nevoso, vide comparire diverse forme.
E sotto di lui, a sei metri dalla punta dei suoi stivali sospesi nel vuoto, sentì gli spari.
Safronov ordinò a uno dei suoi uomini di andare da Nabiyev e di perquisirlo per cercare esplosivi. La guardia daghestana obbedì senza obiettare: corse sotto le luci e la neve con il fucile in mano.
Non aveva percorso neanche tre metri, quando cadde morto sull’asfalto. Georgij aveva visto il lampo di un colpo sparato da un cecchino nell’oscurità, dall’altra parte dell’elicottero.
«È una trappola!» gridò Georgij sollevando la Makarov e sparando all’impostore, solo al centro del parcheggio. Svuotò il caricatore dotato di sette proiettili in meno di due secondi.
Anche l’uomo barbuto in mezzo alla neve estrasse la pistola, ma fu colpito più volte al petto, allo stomaco e alle gambe dai proiettili calibro .380 della Makarov, vacillò e cadde.
Georgij si allontanò dalla porta. Iniziò a correre verso il LCC, con la pistola ancora in mano.
I due che Safronov aveva lasciato sulla porta alzarono gli AK per finire l’impostore che si contorceva, ma non appena si prepararono a sparare un corpo cadde dal tetto impedendo loro di prendere la mira. Era uno dei cecchini che si erano posizionati sull’edificio. Si schiantò sui gradini dell’ingresso centrale, proprio di fronte a loro, distraendoli in un momento critico. Entrambi diedero una rapida occhiata al corpo, poi riaggiustarono le armi in spalla mirando all’impostore ferito, a venticinque metri di distanza.
La pallottola di un cecchino colpì la guardia sulla destra nel torace superiore, facendolo cadere all’indietro nell’atrio del LCC. Una frazione di secondo più tardi un altro proiettile, sparato da un secondo cecchino, prese l’altra guardia sul collo, facendolo volteggiare e poi cadere sopra al suo compagno.
Una volta lasciato cadere il cecchino oltre il cornicione, Chavez si riportò sulla superficie del tetto riposizionandosi in ginocchio. Non aveva tempo di controllare se fosse ferito; poteva soltanto sollevare l’arma e correre verso le scale. Il piano originale elaborato da lui e Clark era di irrompere nel bunker del LCC tramite i condotti di ventilazione. Erano larghi quasi un metro e accessibili dal tetto. Da lì sarebbe potuto scendere direttamente, calarsi nella stanza del generatore generale, spegnerlo e fermare così il lancio.
Ma il piano, come spesso accadeva in una carriera militare lunga come quella di Ding Chavez, era fallito prima ancora di cominciare. Ora poteva soltanto irrompere da solo nel LCC, scendendo di sotto e sperando che tutto andasse bene.
Venti agenti di Rainbow si erano paracadutati da un enorme elicottero Mi-26 da un’altezza di millecinquecento metri; il punto d’atterraggio sarebbe stato il parcheggio sul retro del LCC. Il loro lancio era stato programmato in modo che Chavez avesse il tempo di abbattere tutte le sentinelle sul tetto dell’edificio, ma non potevano essere certi che avrebbe avuto successo. Per questo motivo, quando ancora stavano scendendo, si prepararono a usare gli MP7 silenziati e pronti ad affrontare eventuali minacce, in caso avessero dovuto combattere.
Dei venti paracadutisti che combattevano contro il vento e la scarsa visibilità, diciotto centrarono il punto d’atterraggio, un’impresa non facile. Gli altri due ebbero problemi con l’equipaggiamento mentre scendevano e finirono lontano dal LCC e dal luogo della battaglia.
I diciotto uomini di Rainbow si divisero in due squadre e piombarono all’interno attraverso l’ingresso laterale per lo scarico dei materiali e quello sul retro, facendo saltare entrambe le serie di porte d’acciaio con cariche cave. Lanciarono bombe fumogene nei corridoi e poi granate a frammentazione più lontano, uccidendo e ferendo una gran quantità di daghestani.
Gli ex ostaggi entrarono dal portellone laterale dell’elicottero ma poi furono condotti fuori immediatamente dal lato opposto. Erano confusi, alcuni non volevano scendere, gridarono al pilota di portarli via, imprecarono, ma gli agenti delle Specnaz e di Rainbow li fecero muovere, talvolta strattonandoli. Oltrepassarono i soldati che si erano già schierati dall’altro lato dell’elicottero quando era atterrato e ora erano acquattati, pronti a sparare, nell’oscurità dall’altra parte del parcheggio.
I civili furono condotti di corsa con l’aiuto di torce rosse attraverso la steppa innevata; mentre correvano gli agenti li seguivano, distribuendo pesanti giubbotti antiproiettile. I soldati li aiutarono a indossarli, mentre si inoltravano ulteriormente nel paesaggio desolato.
A cento metri dal retro dell’elicottero c’era una piccola depressione nel terreno. Lì fu ordinato ai civili di nascondersi nella neve, tenendo giù la testa. Alcuni uomini delle Specnaz con i fucili li sorvegliavano; mentre la sparatoria al LCC impazzava, continuarono a ordinare ai civili di stringersi gli uni agli altri e restare in silenzio il più possibile.
Safronov era tornato nella sala di controllo. Sentì le esplosioni e i colpi d’arma da fuoco circondare il livello inferiore del LCC. Tenne con sé solo due guardie; aveva mandato gli altri a consolidare la sicurezza sul tetto e alle tre entrate dell’edificio.
Ordinò ai due uomini di posizionarsi su un lato della stanza, vicino ai monitor, e di puntare le armi contro il personale. Lui stesso si muoveva tra i tavoli, per supervisionare il lavoro. I venti ingegneri e tecnici russi lo guardavano.
«Sequenza di lancio per avvio immediato!»
«Quale silo?»
«Entrambi!»
Non c’era un sistema capace di inviare i due Dnepr contemporaneamente, così avrebbero dovuto procedere manualmente. Al momento avevano i collegamenti pronti del 104, perciò Georgij ordinò di preparare quello per primo. Poi esortò una seconda squadra di uomini a finalizzare le preparazioni di lancio del secondo silo, per poter spedire il missile verso il cielo a poca distanza dal primo.
Puntò la Makarov contro il vicedirettore di lancio, l’ingegnere di rango più alto nella stanza.
«Il 104 deve partire tra sessanta secondi, o Maxim muore!»
Nessuno replicò. Quelli che non dovevano svolgere alcun compito sedettero in silenzio, terrorizzati all’idea di essere uccisi perché non più di alcuna utilità. Quelli incaricati di preparare il lancio lavoravano freneticamente, armando il generatore di potenza e controllando il carburante di tutti e tre gli stadi del veicolo di lancio per una lettura corretta. Georgij e la sua pistola rimasero dietro di loro per l’intera procedura; tutti gli ingegneri di lancio sapevano che Safronov avrebbe potuto sedersi al loro posto e sbrigarsela da solo. Nessuno osò provare a ostacolare il lancio. Se avessero provato a ingannarlo, Georgij se ne sarebbe accorto.
«Quanto ci vuole?» gridò Safronov, precipitandosi verso il pannello di controllo con le due chiavi di lancio. Ne girò una, poi mise la mano sinistra sull’altra.
«Ancora venticinque secondi!» urlò il vicedirettore di lancio, quasi in iperventilazione per il panico.
Una violenta esplosione risuonò nel corridoio fuori dalla sala. Via radio uno dei daghestani comunicò: «Sono dentro!».
Georgij prese il walkie-talkie dalla cintura. «Tornate tutti nella sala di controllo. Bloccate il corridoio e le scale del retro! Dobbiamo trattenerli solo per qualche altro istante!»