Chavez, Ryan e Caruso incontrarono Mohammed al Darkur poco dopo essere atterrati all’aeroporto internazionale Allama Iqbal di Lahore, la capitale della regione del Punjab. Gli americani furono lieti di vedere che la ferita alla spalla del maggiore dell’ISI era quasi completamente guarita, sebbene dai suoi movimenti rigidi era evidente che avesse ancora qualche problema.
«Come sta Sam?» chiese Mohammed a Chavez mentre salivano su un furgone dell’ISI.
«È tutto a posto. L’infezione sta guarendo e le ferite si stanno rimarginando. Dice di star bene al cento per cento, ma i nostri capi non hanno voluto sentire ragioni e gli hanno impedito di tornare in Pakistan così presto.»
«In Pakistan non è un buon momento per nessuno. In particolare a Lahore.»
«Com’è la situazione?»
Il furgone si diresse verso l’uscita dell’aeroporto. Oltre al guidatore, Mohammed aveva una guardia del corpo sul sedile anteriore, che passò pistole Beretta 9 millimetri cariche agli americani mentre lui parlava. «Peggiora di ora in ora. Qui ci sono quasi dieci milioni di persone. Chiunque possa lasciare la città lo sta facendo. Siamo a soli quindici chilometri dal confine; la popolazione si aspetta ormai un’invasione da parte dell’India. Si riportano già scontri armati in entrambe le direzioni.
«I militari pattugliano la città, lo vedrete con i vostri occhi. Ci sono posti di blocco della polizia e dell’esercito, poiché si dice che ci siano agenti stranieri in città, ma noi non avremo problemi a passare.»
«Potrebbe trattarsi di spie indiane?»
«Forse. L’India è in agitazione. Comprensibilmente, in questo caso. La Joint Intelligence Miscellaneous ha fomentato una vera e propria crisi internazionale; non so come riusciremo a uscire dal baratro.»
«Il vostro governo cadrà, ora che si sa che le bombe sono nelle mani dei terroristi daghestani?» chiese Caruso.
«Direi di sì, Dominic. Magari non oggi o questa settimana, ma succederà molto presto. Tanto per cominciare, il nostro primo ministro non ha avuto polso. Mi aspetto che l’esercito lo deponga per, come diranno, “salvare il Pakistan”.»
«Dove si trova Rehan adesso?» chiese Chavez.
«È in un appartamento nella città vecchia di Lahore, vicino alla moschea Sunehri. Non ha molti uomini con sé, forse soltanto il suo vice, il colonnello Saddiq Khan, e un paio di guardie del corpo.»
«Avete idea di cosa sia venuto a fare?»
«Nessuna, ma potrebbe essere qui per incontrare i terroristi di Lashkar. Questa città è una roccaforte di LeT, e lui si è servito di loro per le operazioni oltre il confine. A ben guardare, però, Lahore sembra l’ultima città in cui Rehan dovrebbe essere in questo momento. Non è un presidio fondamentalista come Quetta, Karachi o Peshawar. Ho messo un paio di uomini a piantonare il suo appartamento; se uscirà per qualunque motivo, potremo provare a seguirlo.»
Al Darkur accompagnò gli americani in un appartamento nelle vicinanze. Erano appena arrivati, quando il cellulare di Chavez squillò.
«Qui Ding.»
«Ehi.» Era John Clark.
«John! Stai bene?»
«Non mi lamento. Ricordi di aver detto che se avessi avuto bisogno di te saresti arrivato in un batter d’occhio?»
«Sì, maledizione.»
«Allora metti subito il culo su un aereo.»
Chavez guardò i due agenti più giovani dall’altra parte della stanza. Non avrebbe voluto lasciarli soli, ma per nessun motivo al mondo avrebbe negato il suo aiuto a Clark. «Dove devo andare?»
«Al centro del palcoscenico.»
Merda, pensò Chavez. «Il cosmodromo?»
«Temo proprio di sì.»
John Clark aveva indossato una tuta mimetica russa e un cappotto pesante quando scese dall’elicottero nel parcheggio dello Sputnik Hotel. Aveva ricevuto le migliori cure possibili; Birjukov si era prodigato per avere a bordo un ortopedico che si occupasse delle ferite dell’americano.
Gli facevano incredibilmente male. John sapeva che la mano l’avrebbe tormentato fino alla fine dei suoi giorni, anche dopo tutte le operazioni necessarie a rimettere a posto le ossa, ma preferiva non pensarci in quel momento.
Al suo arrivo, la neve cadeva fitta.
Erano le otto del mattino, ora locale, e a Clark l’albergo parve immerso nel caos. Uomini di diverse organizzazioni, sia in divisa sia in abiti civili, avevano dato vita a piccoli avamposti, ma sembravano assolutamente privi di coordinamento.
Mentre John camminava verso l’hotel, tutti quelli che incontrava si fermarono a guardarlo. Alcuni sapevano che era l’ex comandante di Rainbow, arrivato per prendere il controllo della situazione. Altri lo conoscevano come il fuggitivo internazionale ricercato in tutti gli Stati Uniti perché considerato un plurice omicida. Molti si limitarono a prendere atto della presenza di quell’uomo che camminava a passo deciso e autorevole.
Ma tutti si accorsero dei lividi sulla sua faccia, della mascella viola scuro e degli occhi neri, nonché della mano destra vistosamente bendata.
Stanislav Birjukov era al suo fianco, insieme a una decina di uomini del FSB e del gruppo Alfa, che li seguirono mentre entravano nell’hotel e attraversavano la hall. Nel corridoio che conduceva alla sala conferenze principale, ufficiali militari, diplomatici e scienziati spaziali si fecero da parte per lasciar passare il corteo.
Birjukov non bussò prima di entrare nel centro di comando. Aveva parlato con il presidente Ryčkov qualche istante prima di atterrare a Jubilejnyj e questi aveva conferito a John Clark tutta l’autorità per fare quello che voleva.
Il centro di comando aveva ricevuto notizia dell’arrivo dell’americano e del direttore del FSB; tutti i presenti erano lì riuniti ad attenderlo. Clark e Birjukov furono invitati a sedersi, ma entrambi rimasero in piedi.
Il capo dell’agenzia di intelligence russa fu il primo a parlare. «Il presidente mi ha riferito personalmente di aver conferito con i vertici della NATO riguardo a Rainbow.»
L’ambasciatore russo in Kazakistan annuì. «Anch’io ho parlato con il presidente, Stanislav Dmitrievič. Voglio assicurare a lei e al signor Clark che comprendiamo la situazione e siamo a vostra completa disposizione.»
«Lo stesso vale per me.» Il generale Lars Gummesson entrò nella stanza. Clark l’aveva già incontrato quando era un colonnello delle forze speciali svedesi, ma non sapeva molto di lui, a parte il fatto che era l’attuale capo di Rainbow. Si sarebbe aspettato qualche resistenza da parte dell’ufficiale – sarebbe stato naturale per qualcuno costretto ad abbandonare il comando – ma l’alto svedese accolse Clark con calore, pur guardando con curiosità il suo volto pieno di lividi e la mano ferita. Si ricompose e spiegò: «La NATO mi ha comunicato che per questa operazione lei sarà al comando di Rainbow».
Clark annuì. «Se non ha nulla in contrario.»
«Assolutamente no, signore. Sono al servizio del mio governo e della NATO. È una loro decisione quella di sostituirmi. La sua reputazione la precede; mi aspetto di imparare molto nelle prossime ventiquattr’ore. Quando Rainbow era ancora impiegata in azioni sul campo, vale a dire quando al comando c’era lei, di sicuro avrà appreso molte cose che ci torneranno utili nelle prossime ore. Sono a sua completa disposizione per l’operazione di questa notte. Signor Clark, finché la crisi non sarà superata, Rainbow è sua» concluse Gummesson.
Clark annuì. Assumersi quella responsabilità, per lui, non era in realtà il motivo di gioia che il generale svedese immaginava. Ma non aveva tempo di preoccuparsi della sua situazione. Iniziò subito a lavorare alla missione. «Ho bisogno della planimetria del centro di controllo dei lanci e dei silos in cui si trovano i missili.»
«Subito, signore.»
«Dovrò inviare unità di ricognizione per ottenere una descrizione accurata delle aree che colpiremo.»
«Lo immaginavo. Prima dell’alba abbiamo mandato due squadre di due uomini ciascuna nel raggio di mille metri da ogni posizione. Abbiamo comunicazioni affidabili e video in tempo reale.»
«Eccellente. Quanti uomini della Jamaat Shariat ci sono in ogni sito?»
«Dopo il lancio del 109, hanno consolidato le difese. Sembra ci siano da otto a dieci guardie intorno a ogni silos di lancio. Ce ne sono altri quattro in un bunker vicino alla strada d’accesso che conduce all’area predisposta per i Dnepr. Non abbiamo idea di quanti siano nella sala di controllo. Da lontano abbiamo avvistato un tiratore sul tetto, ma non abbiamo modo di sapere molto altro. L’impianto è un vero e proprio bunker, è praticamente impossibile sbirciare al suo interno. Se attacchiamo, dovremo farlo alla cieca.»
«Perché non usiamo missili aria-terra per abbattere i razzi una volta che li avranno lanciati?»
Gummesson scosse la testa. «Quando sono ancora molto vicini al suolo è possibile, ma siamo troppo lontani per riuscire ad abbatterli prima che inizino a prendere velocità uscendo dal raggio d’azione dei missili. Il discorso è lo stesso con gli aerei.»
Clark fece un cenno d’assenso. «Immaginavo che non sarebbe stato facile. Okay. Abbiamo bisogno anche della nostra centrale operativa. Dove sono gli altri uomini?»
«All’esterno abbiamo una grossa tenda per il CCC.» Comando, controllo e comunicazioni sarebbero stati la centrale operativa di Rainbow. «C’è un’altra tenda per l’equipaggiamento e una terza per alloggiare gli uomini.»
Clark annuì. «Andiamoci subito.»
Clark e Gummesson parlavano, camminando con Birjukov e diversi agenti del gruppo Alfa, dirigendosi verso il parcheggio. Erano giunti nella hall dello Sputnik Hotel quando Domingo Chavez entrò dalla porta principale. Ding indossava una camicia di cotone marrone e blue jeans, non un cappotto o un cappello, sebbene la temperatura fosse ben sotto allo zero.
Chavez vide suo suocero dall’altra parte della hall. Mentre si avvicinava, il sorriso scomparve. Diede all’uomo più anziano un abbraccio delicato. Quando si scostò, sulla faccia di Ding era dipinta una furia incontenibile. «Cristo santo, John! Cosa diavolo ti hanno fatto?»
«Sto bene.»
«Stai bene un cavolo!» Chavez guardò Birjukov e gli altri russi, ma continuò a rivolgersi a John. «Cosa ne pensi se diciamo a questi russi di andare a farsi fottere, torniamo a casa e ce ne stiamo sul divano a guardare Mosca e San Pietroburgo polverizzarsi?»
Uno degli uomini delle Specnaz russe, che parlava inglese, si mosse verso Chavez, ma il messicano-americano lo guardò con aria di sfida. «Va’ all’inferno.»
Clark si ritrovò a dover fare da paciere. «Ding, va tutto bene. Non sono stati loro. È stato un tipo del SVR sfuggito al controllo con i suoi uomini.»
Chavez non si ritrasse dal grosso slavo che lo sovrastava, ma infine fece un cenno d’assenso. «Okay, allora. Cosa facciamo adesso? Dobbiamo salvargli il culo, giusto?»