Il capitano Helen Reid virò sopra l’aeroporto di Parigi Le Bourget poco dopo le cinque del mattino. Indirizzò il muso del Gulfstream verso la pista 25 mettendosi in coda dietro un altro jet privato, un Falcon 900EX. Il Falcon atterrò ed eseguì il rullaggio. Novanta secondi dopo il G550 fece altrettanto.
La Reid condusse il velivolo davanti a un enorme container giallo sistemato sulla pista e adibito a dogana. L’aereo proseguì lentamente con il portellone chiuso, come previsto dalla procedura doganale. Jack Junior sistemò i bagagli sui sedili per permettere all’ispettore di esaminarli. Adara aveva espressamente richiesto un agente doganale al loro arrivo, in modo da ridurre al minimo il tempo dei controlli, e infatti pochi secondi dopo qualcuno bussò al portellone. La donna andò ad aprire e salutò un uomo dall’aspetto visibilmente assonnato. L’agente salì a bordo, strinse la mano ai membri dell’equipaggio e a Jack, poi rivolse un’occhiata fugace ai suoi bagagli. Trascorse in tutto due minuti all’interno del velivolo, appose i timbri sui passaporti e controllò i documenti del jet, dando poi il via libera al capitano Reid a parcheggiare presso il vicino FBO.
L’agente ancora mezzo addormentato rivolse a tutti un bienvenu, un bounjour e un adieu e scese sulla pista avvolta dal buio.
Cinque minuti dopo, il capitano Reid e Country lasciarono il jet nel FBO, e Adara aprì di nuovo il portellone. Dominic Caruso, anche lui arrivato in Francia da poco, salutò la signorina Sherman e aiutò Jack a scaricare i quattro zaini pieni di attrezzatura per sistemarli sulla Ford Galaxy.
I membri dell’equipaggio si diressero verso la sala d’aspetto del FBO per predisporre il rifornimento di carburante e di ossigeno. Sarebbe stato tutto pronto al momento di ripartire, anche se nessuno sapeva quando: potevano passare tre ore come tre giorni.
Dominic e Jack lasciarono l’aeroporto a bordo della Galaxy senza essere fermati per alcun tipo di controllo né ai documenti né ai bagagli.
Quando si trasporta merce di contrabbando, l’unica soluzione è un aereo privato.
A quell’ora del mattino ci volevano soltanto quindici minuti per raggiungere la base operativa parigina dall’aeroporto. Era stato proprio Jack Junior ad affittare l’appartamento il giorno prima, subito dopo aver spostato Ding e John da Francoforte a Parigi. Non si sarebbe mai immaginato di doverci entrare lui stesso diciannove ore più tardi.
I due posteggiarono la monovolume di fronte al palazzo e presero a scaricare gli zaini. Driscoll e Chavez comparvero nel buio e li aiutarono senza dire una parola. Solo dopo essere entrati nel piccolo appartamento ammobiliato, aver appoggiato le borse a terra e chiuso la porta alle loro spalle, uno di loro accese la luce.
Illuminato da un semplice lampadario in acciaio, John Clark passò a Ryan una tazza di caffè. Clark annuì sorridendo. «Stai da schifo, amico. Sei passato sotto le grinfie del maggiore Buck?»
«Sì, mi sta insegnando un sacco di cose» rispose Jack accettando il caffè bollente.
«Bene. In frigo ci sono dei croissant di ieri e un vassoio con prosciutto e formaggio.»
«Sono a posto, per adesso.»
«Ti sei già rifocillato in aereo?»
«Sono i piccoli lussi di questo mestiere.»
«Hai proprio ragione. Va bene, allora cominciamo subito.» Clark si voltò verso il centro della stanza: «Sull’attenti, ragazzi!». Rimase in piedi di fronte al televisore, mentre i quattro colleghi si accomodavano nel soggiorno arredato in stile moderno.
Prese a parlare aiutandosi con un taccuino. «Tra un attimo penseremo all’attrezzatura, ma per ora dedichiamoci all’operazione. Per farla breve, il piano è strutturato come segue: ho prenotato la stanza del Four Seasons sopra quella di Rokki e quella accanto. Li colpiremo in modo duro, rapido e da diversi fronti. Non gli daremo neanche il tempo di finire la colazione.»
«Hai davvero prenotato due camere al Four Seasons George V? Gerry sarà felicissimo quando riceverà il conto» esclamò Ryan riuscendo a malapena a soffocare una risata.
Anche Clark si lasciò andare a un sorriso. «Lo sa già. Non siamo noi a pagare. Le stanze erano già prenotate per stanotte. Gavin Biery è entrato nel sistema dell’albergo e ha spostato gli ospiti in altre due camere. Per la nostra prenotazione ha usato il numero di una carta di credito intestata a un tizio di Islamabad. Pare si occupi di riciclare ingenti somme di denaro dai conti di alcuni ricconi dell’Arabia Saudita su altrettanti conti di Al-Qaeda. Secondo Gavin, sarà come se qualcuno avesse modificato la prenotazione da uno dei terminali della reception. Il Campus non lascerà alcuna traccia. Gli investigatori saranno in grado di trovare un unico, labile indizio: la carta di credito. Questo li porterà fino a un affarista affiliato ad Al-Qaeda in Medio Oriente. E a quel punto il nostro attacco all’URC sembrerà una specie di scaramuccia amorosa tra i due gruppi.»
«Ottimo» esclamò Dom piuttosto soddisfatto.
John gli rispose con un sorriso. «Siamo dei piantagrane di professione, signori miei.» Una serie di risate stanche riempì il soggiorno.
«Biery si preoccuperà anche di mettere fuori gioco le videocamere del Four Seasons nel momento in cui entreremo dalla porta principale. Sarà come se la spina venisse staccata dall’interno, dice.»
«Favoloso» commentò Jack.
«Sì, anche lui la pensa così.»
Poi Clark si fece di nuovo serio. «Tra un istante io e Ding vi spiegheremo ogni singolo dettaglio dell’operazione, ma prima c’è un problema di cui dobbiamo discutere.»
Gli altri tre tornarono a concentrarsi.
Chavez si alzò e prese la parola. «I servizi segreti francesi, la DCRI, hanno tenuto d’occhio il tizio conosciuto come Omar 8 fin dal momento in cui è atterrato a Parigi da Tunisi, ieri. Quando la scorsa notte ha lasciato il covo di Seine-Saint-Denis in compagnia dei suoi uomini, la squadra di sorveglianza è riuscita a stargli dietro fino in centro, ma poi ha avuto un contrattempo. Uno degli scagnozzi di Rokki lo seguiva a bordo di una moto per controllare se ci fosse qualcuno a pedinarli e crediamo abbia individuato almeno una delle macchine dei francesi.»
Jack fece una smorfia. «E quindi… sono bruciati.»
«Pare di sì, ma sembra non se ne siano accorti. Hanno continuato l’inseguimento fino al Four Seasons installando una squadra di sorveglianza fissa all’Hôtel de Sers, proprio dietro l’angolo rispetto alla camera di Rokki. Dalla loro stanza hanno un’ottima visuale sulla suite. Credo si siano dovuti sistemare così vicini perché utilizzano microfoni laser, non avendo avuto ancora modo di piazzare delle microspie.»
Sam abbassò lo sguardo su una mappa dell’VIII Arrondissement. «Wow, la DCRI non scherza. Sono davvero vicini.»
«Troppo, secondo noi» aggiunse Clark. «Se hanno la visuale sulla stanza di Rokki e lui sa di essere seguito… be’, con buona probabilità la cellula dell’URC è già al corrente della presenza degli agenti francesi nell’altro albergo.»
«Cosa sappiamo dei servizi francesi? Sono bravi?» domandò Sam.
Fu Clark a rispondere. «Maledettamente bravi. Hanno collaborato con Rainbow diverse volte. Ma sono un po’ come i nostri investigatori dell’FBI. Se cerchi dei detective, uomini perfetti per le operazioni di sorveglianza, gente in grado di dare la caccia a chiunque in qualsiasi posto della Francia, allora fanno al caso tuo. Ma se devi stanare una squadra di assassini nel centro di Parigi, la questione si complica… finita la fase della sorveglianza, quei tizi rivelano tutta la loro inutilità. Non sono nemmeno armati.»
Sam fece un’altra domanda. «E se l’URC decidesse di tagliare la corda? Di abbandonare i loro piani e lasciare la città? Pensate sia probabile?»
Stavolta fu Jack Ryan a rispondere. «In situazioni normali potrebbe anche succedere. Anzi, ci aspetteremmo proprio un comportamento del genere. Ma questi sono giorni difficili per l’URC. Sono disperati. Li abbiamo visti correre rischi piuttosto stupidi da quando è stata confermata la scomparsa dell’Emiro. Rokki è qui perché il suo capo, al Qahtani, ce l’ha con il governo francese per via di alcune politiche da lui ritenute antislamiche, di questo ne siamo convinti. Rokki non ha alcuna intenzione di deluderlo, quindi, sapendo di essere sorvegliato da un gruppetto di uomini della DCRI in una stanza d’albergo armati soltanto di microfoni e telecamere, be’, non credo si lascerà spaventare per così poco.»
«Abbiamo un’idea di cosa possa avere in mente?»
«Assolutamente no. Il suo obiettivo si trova in questa zona di Parigi e, se non interviene niente a fermarlo, sferrerà l’attacco oggi stesso. Queste sono le nostre uniche certezze.»
Dom prese la parola. «Mi conoscete bene. Non vedo l’ora di combattere contro quei bastardi. Ma perché non ci limitiamo ad allertare le autorità locali? Li avvertiamo della presenza dell’URC e del fatto che hanno già individuato la squadra di sorveglianza francese. Possiamo dare venti euro a un ragazzino perché vada dagli uomini della DCRI e li informi di essere stati scoperti.»
Clark gli ribatté: «Perché noi cinque abbiamo molte più probabilità di fermare Rokki e i suoi. Inoltre, dobbiamo prenderlo in custodia ancora vivo. È la nostra occasione per estorcere informazioni su Abdul bin Mohammed al Qahtani, l’ultimo vero leader dell’URC».
Tutti si limitarono ad annuire.
Clark continuò a parlare. «Okay. Passiamo ai dettagli dell’operazione. È trascorso quasi un anno dall’ultima volta in cui abbiamo sferrato un attacco come si deve.» Abbassò lo sguardo sull’orologio. «Tra meno di tre ore non sarà più così.»
Il cuore di Ryan batteva all’impazzata. Diede un’occhiata alla stanza chiedendosi cosa provassero gli altri. Dom sembrava su di giri, ma non in maniera esagerata. Driscoll, Chavez e Clark sembrava stessero prendendo un caffè da Starbucks, intenti a risolvere le parole crociate del «Sunday Times».
Nei venti minuti successivi Chavez spiegò a ognuno il proprio compito nell’operazione. Si aiutò con il taccuino sul quale erano riportate delle mappe scarabocchiate a mano. Lui e Caruso sarebbero entrati nella suite sopra a quella di Hosni Iheb Rokki al terzo piano e avrebbero ancorato tre lunghe corde a un punto di fissaggio piuttosto robusto: le tubature di ferro in bagno, con tutta probabilità. Dom e Ding avrebbero assicurato le estremità di due delle corde alle imbracature, lasciando scendere la terza oltre il balcone fino a raggiungere Sam appostato nella stanza accanto a quella di Rokki.
Clark avrebbe fatto il suo ingresso nell’albergo dopo aver mandato un messaggio a Gavin Biery, nel Maryland, con l’ordine di disattivare le telecamere. A quel punto sarebbe salito, accertandosi di non attirare l’attenzione, fino al corridoio davanti alla camera di Rokki. Quando tutti fossero stati pronti, Sam Driscoll avrebbe assicurato la corda a un’imbracatura di nylon e avrebbe raggiunto la finestra del bagno della suite. Se il bagno fosse stato libero, avrebbe cercato di entrare da lì, in caso contrario avrebbe proseguito lungo il muro fino al balcone della camera da letto. Avrebbe avuto con sé una Glock 23 con silenziatore, ma la sua missione era catturare Hosni Iheb Rokki vivo somministrandogli un sedativo in grado di stordirlo all’istante.
Quando Sam si fosse portato in posizione sospeso sopra il cortile, Chavez e Caruso si sarebbero calati dal loro balcone fino a quello del soggiorno di Rokki e avrebbero usato le mitragliatrici MP7A1 per far fuori i suoi complici. Nello stesso momento, John Clark avrebbe aperto il fuoco dalla porta di ingresso. Oltre a una pistola SIG Sauer con silenziatore, avrebbe avuto con sé anche un iniettore anestetico a CO2.
Ryan sarebbe rimasto al volante dell’auto pronta in strada, ma avrebbe avuto anche il compito di controllare la zona e assicurarsi che in giro non ci fossero poliziotti. Inoltre, se uno dei quattro brutti ceffi fosse riuscito a sfuggire all’imboscata, Junior avrebbe dovuto inseguirlo.
Una volta annientati gli scagnozzi e messo fuori gioco Rokki, lo avrebbero infilato in un trolley enorme e portato fino all’entrata principale dell’albergo. Ryan avrebbe caricato tutti in macchina facendo ritorno verso la loro base operativa. Con un po’ di fortuna sarebbero arrivati a Parigi Le Bourget novanta minuti dopo il via libera di Clark a iniziare l’operazione.
Terminata la spiegazione, John si alzò di nuovo in piedi. «Domande? Dubbi? Chiarimenti?»
Un particolare aveva lasciato Jack piuttosto perplesso. «Se quelli della DCRI hanno una buona visuale sulla suite, non ci vedranno all’opera?»
Chavez scosse la testa. «No, la camera fa angolo. Riescono a vedere soltanto la finestra esposta a sudovest, mentre noi attaccheremo dai balconi sopra il cortile, a nord. Io, Sam e Dom saremo nascosti alla loro vista, ma se i francesi utilizzano un microfono laser sentiranno un bel po’ di rumore. Quindi, dovremo comunicare a gesti una volta raggiunta la suite.»
Caruso si strinse nelle spalle. «Questo piano prevede tanti movimenti, quindi un sacco di cose potrebbero andare storte.»
Clark annuì assumendo un’espressione molto seria. «Lo so, amico. Ma purtroppo con questo tipo di operazioni urbane non si può fare altrimenti. Far fuori quei tipi sarà già difficile di per sé. Doverne prendere uno ancora vivo, poi, fa crescere le percentuali di rischio in maniera esponenziale. Qualcosa non ti convince?»
Dom scosse la testa. «No, il piano mi piace. Mettiamoci al lavoro!»
Clark annuì di nuovo. «Va bene, allora. Rokki e i suoi hanno chiesto un servizio in camera di tè e caffè alle otto e mezza. Noi attaccheremo alle 8:45. Partiamo tra un’ora.»
La riunione era terminata. Ognuno aveva tempo di organizzare l’attrezzatura a seconda del proprio ruolo. Sam e Ryan controllarono le Glock calibro .40 e i silenziatori; Dom e Ding fecero lo stesso con le mitragliatrici. Fissarono il silenziatore alla canna raddoppiandone quasi la lunghezza. Malgrado ciò, l’arma rimaneva comunque compatta, leggera e bilanciata.
Passarono in rassegna anche il resto dell’attrezzatura. Corde e cellulari criptati dotati di auricolari bluetooth con attivazione vocale, granate stordenti, fumogeni e alcune piccole cariche cave per crearsi un varco oppure ostruire il passaggio ai nemici, a seconda dei casi.
Nel piano non era affatto previsto l’utilizzo di granate, né di fumogeni e non avevano certo intenzione di aprirsi una breccia nelle pareti del Four Seasons. Chavez aveva chiesto a Ryan di portare dagli Stati Uniti una lista infinita di cose. L’aveva pensata tenendo ben chiara in mente l’operazione, ma Dom aveva deciso di aggiungere qualche altra diavoleria in caso qualcosa non fosse andato per il verso giusto.
Clark si spostò in cucina e tirò fuori alcune cose da un’altra delle borse portate da Ryan. Concesse a ognuno il tempo necessario per controllare l’attrezzatura e poi li richiamò tutti intorno a sé.
Aveva sistemato sul tavolo cinque pezzettini di gomma, simili a piccole spugne.
«Cosa sono?» chiese Sam. Si avvicinò e ne prese uno in mano. Al tatto sembrava quasi un grumo di colla secca.
Anche Clark ne sollevò uno. «Non abbiamo tempo per una spiegazione esaustiva. Passo subito alla dimostrazione.» Detto questo, uscì dalla stanza, trafficò con quegli oggetti misteriosi per un po’ e poi tornò dai suoi dando loro le spalle. Driscoll guardò i compagni seduti accanto a lui per cercare di capire cosa stesse succedendo. Nessuno disse una parola.
Clark si alzò in piedi e finalmente si voltò. Sam rimase senza fiato. I tratti del viso di John erano completamente cambiati. Gli zigomi erano più pronunciati, il naso sembrava avere un profilo più spigoloso, le mascelle si erano arrotondate e le rughe intorno alla bocca e agli occhi erano sparite. Dopo averlo fissato per alcuni secondi, Sam si rese conto di quanto quell’aspetto fosse innaturale. John sembrava quasi un alieno, ma se gli fosse passato accanto per strada non avrebbe notato niente e, soprattutto, non sarebbe stato in grado di riconoscerlo. Quella era la cosa più importante.
«Cristo!» esclamò Driscoll seguito dal coro stupito degli altri.
«Ce n’è uno per ciascuno di voi. Come potete sentire non altera la voce né vi impedisce di parlare. Va semplicemente a riempire le aree più superficiali e ristruttura i tessuti morbidi del viso rendendovi irriconoscibili. Ha la forma di un tubicino bucato alle due estremità, in modo da lasciare liberi i capelli. Anche le orecchie rimangono esposte, così si possono usare gli auricolari bluetooth. Avanti, provateli.»
Gli uomini cercarono di provarsi le maschere. Sembravano bambini alle prese con un giocattolo nuovo. Il difficile era orientare i fori per gli occhi e far passare il tubo per la testa. Clark, intanto, continuò a parlare. «Questi affari non sono perfetti. Sono scomodi e difficili da indossare, e, come vedete, vi danno un aspetto orribile. Qualcuno sembra venire da un altro pianeta, altri pare abbiano esagerato con la chirurgia estetica. Servono soprattutto a confondere i software per il riconoscimento facciale, a cambiare i tratti del viso in modo da renderci irriconoscibili dopo l’operazione e a depistare eventuali testimoni.» Clark diede uno sguardo ai compagni e trattenne a stento una risata. «Jack, sei bellissimo come sempre. Ding, amigo, mi dispiace dirtelo, ma questo coso non ti migliora nemmeno un po’.»
Si guardarono a vicenda e scoppiarono a ridere: un breve momento di leggerezza in quella che si prospettava una giornata piuttosto pesante. Si allinearono tutti lungo il muro di fronte a uno specchio.
«Funziona, ma avrò bisogno di fare molta pratica per imparare a mettermelo. Se per qualche ragione fossi costretto a farlo di fretta, il risultato non sarebbe così soddisfacente» osservò Dom.
Gli rispose Clark. «La stessa cosa vale per ciascuno di noi. Teniamo queste diavolerie a portata di mano, ma portiamoci dietro anche delle maschere da sci nel caso ci serva una soluzione sbrigativa. Se ci dovessimo trovare nei guai e ce la dovessimo svignare in modo furtivo, allora ce le applicheremo sulla faccia per agevolare l’esfiltrazione. E mi raccomando gli occhiali da sole. Molti algoritmi per il riconoscimento facciale usano la distanza tra gli occhi. Gli occhiali impediscono di calcolare questo valore più di qualunque altra cosa. Anzi, quando uscite di qui ognuno di voi ne indossi un paio. Vi metterete le maschere in seguito, quando ce ne sarà bisogno.»