L’auto a noleggio della sessantunenne Judith Cochrane era dotata di un navigatore, ma la donna non lo usò per il viaggio di ottanta chilometri da Colorado Springs alla sua destinazione. Conosceva la strada che conduceva al numero 5880 della statale 67: c’era stata molte volte per incontrare alcuni clienti.
La Chrysler rallentò su South Robinson Avenue e si fermò al primo cancello dell’ADX Florence. Le guardie la conoscevano di vista, ma le controllarono comunque i documenti prima di lasciarla passare.
Per un avvocato non era facile fare visita a un cliente nel penitenziario; lo era ancora di meno se era relegato nell’Unità Z, e incontrare faccia a faccia un detenuto della Range 13 era pressoché impossibile. La Cochrane e la Progressive Constitution Initiative stavano lavorando per intentare una causa contro questa norma, ma per il momento avrebbe dovuto giocare secondo le regole.
Essendo un’assidua frequentatrice dell’ADX Florence, Judith era preparata. Nella sua borsa non c’era alcun oggetto di valore poiché sapeva di doverla lasciare in un armadietto; non avrebbe nemmeno provato a entrare con un laptop o un cellulare, perché le sarebbero stati requisiti all’istante se l’avessero vista. Indossava scarpe comode perché avrebbe dovuto camminare dall’amministrazione fino alla cella del suo prigioniero, centinaia di metri di corridoi e passaggi esterni coperti. Aveva scelto un tailleur pantaloni particolarmente castigato di modo che le guardie non le avrebbero negato l’accesso con l’illogica accusa di indossare abiti provocanti.
Sapeva anche di dover passare attraverso metal detector e scanner total body, per cui seguì le regole della prigione: aveva indossato un reggiseno senza ferretto.
Oltrepassò con l’auto la guardiola dei sorveglianti, oltre un muro lungo e alto. Curvò verso sud e attraversò altri cancelli. Mentre guidava piano incontrò più torri di guardia, armi, fucili d’assalto, pastori tedeschi e telecamere di sicurezza di quanti riuscisse a contarne. Infine accostò in un parcheggio grande e semivuoto fuori dall’ala dell’amministrazione. Dietro di lei, all’ingresso, una fila di spuntoni giallo acceso azionati da un meccanismo idraulico si alzarono da buchi scavati nel cemento. Non sarebbe potuta uscire finché non glielo avessero permesso le guardie.
Una poliziotta andò incontro a Judith Cochrane alla portiera dell’auto; attraversarono insieme una serie di porte sicure e corridoi dell’ala amministrativa della prigione. Non si rivolsero nemmeno una parola, e la guardia non si offrì di aiutare la donna molto più anziana con la valigetta.
«Bella giornata» osservò Judith mentre attraversavano un corridoio bianco e pulito.
La guardia ignorò il commento ma continuò a mostrarle la strada con professionalità.
La maggior parte delle guardie dell’ADX Florence non avevano un’ottima opinione dei legali che difendevano i prigionieri incarcerati nel penitenziario.
Alla Cochrane non importava, poteva portare da sé le sue borse, e da molto tempo aveva deciso che preferiva di gran lunga la compagnia dei detenuti del carcere di massima sicurezza a quella delle forze dell’ordine. Li reputava dei mercenari ottusi.
La sua visione del mondo era tanto rigida e crudele quanto semplice. Le guardie carcerarie erano come i soldati, la polizia e qualsiasi agente federale armato di una pistola erano i cattivi.
Dopo la laurea e l’abilitazione ottenute in California, Judith Cochrane era stata assunta al Center for Constitutional Rights, un gruppo di legali specializzati in cause riguardanti i diritti civili. Dopo alcuni anni era diventata una libera professionista e aveva lavorato su casi di alto profilo, inclusa l’assistenza come tirocinante nella squadra legale che aveva difeso Patty Hearst, accusata di una rapina in banca.
In seguito, aveva lavorato circa dodici anni per l’ACLU, e poi a lungo per la Human Rights Watch. Quando Paul Laska aveva fondato la Progressive Constitution Initiative, l’aveva contattata personalmente perché entrasse a far parte del suo studio legale. Non aveva dovuto insistere molto per convincerla: la Cochrane era entusiasta di un lavoro che le permettesse di scegliere i casi da seguire. Quasi subito dopo la nascita dell’organizzazione, ci furono gli attacchi dell’11 settembre 2001 e a Judith e ai suoi colleghi fu subito chiaro che all’orizzonte si sarebbe profilata una caccia alle streghe da parte del governo americano: cristiani ed ebrei contro musulmani.
Per più di cinque anni le venne chiesto di comparire in centinaia di programmi televisivi per parlare delle malefatte del governo statunitense. Lei accettò ogni volta che le fu possibile, continuando a difendere i suoi clienti.
Ma quando Ed Kealty venne eletto presidente, Judith Cochrane d’improvviso si ritrovò sulla lista nera dei programmi televisivi. Si sorprese del fatto che le emittenti sembrassero infischiarsene dei diritti civili quando Kealty e i suoi uomini gestivano l’FBI, la CIA e il Pentagono, come avevano fatto Ryan e il suo entourage.
In quel periodo, con Kealty alla Casa Bianca, la Cochrane aveva tutto il tempo che voleva per dedicarsi ai suoi casi. Non era sposata e non aveva figli: il lavoro era la sua vita. Con molti dei suoi clienti aveva intrecciato relazioni personali. Relazioni che dovevano limitarsi per forza di cose alla sola vicinanza emotiva, poiché in pratica tutti i suoi assistiti erano separati da lei da una finestra di plexiglas o da sbarre di ferro.
Era sposata anche, in senso figurato, con le sue convinzioni: una storia d’amore lunga una vita con tutto ciò in cui credeva.
E furono quelle convinzioni a portarla nel carcere di massima sicurezza per incontrare Saif Yasin.
Fu condotta nell’ufficio del direttore, dove l’uomo le strinse la mano e le presentò un poliziotto di colore, alto, con un’uniforme blu inamidata. «Questo è il comandante dell’Unità Z. La porterà alla Range 13, dove incontrerà l’agente dell’FBI incaricato del suo prigioniero. In effetti la custodia di 09341-000 non è di nostra competenza. L’ADX Florence è soltanto il luogo in cui è detenuto.»
«Sì, capisco. La ringrazio» rispose Judith Cochrane stringendo la mano dell’uomo in uniforme. «Ci vedremo spesso.»
Il comandante dell’unità le rispose in tono professionale: «Signora Cochrane, è soltanto una formalità, ma devo attenermi al regolamento. Posso visionare il suo tesserino di riconoscimento?».
Lei frugò nella borsa e glielo porse. Il comandante diede un’occhiata al documento e lo restituì.
Il direttore aggiunse: «Questo prigioniero necessita di un trattamento particolare, immagino lei abbia una copia delle Misure Amministrative Speciali e delle direttive che regoleranno i suoi incontri con lui».
«Possiedo entrambi i documenti. In realtà, c’è una squadra di avvocati che sta preparando la nostra risposta a quelle carte.»
«La vostra risposta?»
«Sì. A breve vi faremo causa, ma suppongo ne sia già stato informato.»
«Be’… io…»
La Cochrane esibì un debole sorriso. «Non si preoccupi, per oggi le prometto di attenermi alle vostre misure illegittime.»
Il comandante dell’unità fu colto alla sprovvista, ma il direttore intervenne. Conosceva Judith Cochrane abbastanza per non restare turbato da ciò che diceva o di cui li accusava. «Lo apprezziamo. In principio avevamo pianificato di farvi incontrare in “videoconferenza”, così come accade per gli altri sorvegliati speciali dell’unità, ma il procuratore generale ci ha comunicato che rifiutate categoricamente questa opzione.»
«Esatto. Quell’uomo è in gabbia, e lo capisco. Ma devo avere un qualche rapporto con lui per fare il mio lavoro. Non posso comunicare attraverso uno schermo televisivo.»
«La porteremo alla cella. Parlerà con il prigioniero tramite una linea telefonica diretta. Non è monitorata, come stabilito dal procuratore generale in persona» rispose il comandante.
«Molto bene.»
«Potrà usare una scrivania fuori dalla cella. C’è un divisorio di vetro antiproiettile; quello spazio servirà come luogo per incontrare il suo cliente, proprio come se si trovasse in una normale sala visite.»
Judith Cochrane firmò i documenti nell’ufficio del direttore, apponendo il suo nome sotto gli accordi elaborati dal Dipartimento di Giustizia e dal Bureau of Prisons su cosa lei poteva e non poteva dire al prigioniero e ciò che lui poteva e non poteva riferire a lei. Per quanto la riguardava erano tutte sciocchezze, tuttavia le firmò rapidamente per potersi subito occupare della difesa di quell’uomo.
Se ne sarebbe preoccupata in seguito; avrebbe violato gli accordi se fosse stato nell’interesse del suo cliente. In fondo, al diavolo, aveva già citato il Bureau of Prisons molte volte prima di allora. Non avrebbe permesso che le dicessero come doveva rappresentare il suo cliente.
Lasciò l’edificio dell’amministrazione insieme al comandante dell’unità, camminando sotto a un passaggio coperto fino a un’altra ala della prigione. Fu condotta attraverso altre porte chiuse a chiave e dall’altro lato attraversò un body scanner come quelli della sicurezza aeroportuale. Oltre lo scanner si apriva una fila di porte. Le vennero incontro due uomini con giubbotti antiproiettile e passamontagna neri, con i fucili spianati.
«Oh, mio Dio» esclamò. «È proprio necessario?»
Il comandante dell’unità si fermò davanti alla porta. Spiegò: «Le mie responsabilità finiscono qui, sulla soglia della Range 13. Ora sarà cura dell’FBI accompagnarla; si occupano loro della struttura annessa che ospita il suo prigioniero». Il comandante le tese la mano con educazione e lei la strinse senza guardarlo. Poi si voltò, pronta a seguire gli agenti federali.
L’FBI la scortò all’interno; misero la sua borsa in un armadietto sulla parete della stanza di un bianco immacolato, poi le fecero attraversare uno scanner total body. Dall’altra parte, le consegnarono un taccuino e una penna, poi le fecero superare due serie di porte di sicurezza monitorate da telecamere a circuito chiuso. La Cochrane si ritrovò infine in un’anticamera fuori dalla cella modificata di recente. Di fronte a lei c’erano altri quattro agenti armati.
Il capo degli SWAT dell’FBI le parlò con un forte accento di Brooklyn: «Conosce le regole, signora Cochrane. Si siederà sulla sedia dietro la scrivania e parlerà al telefono con il suo cliente. La conversazione resterà riservata. Noi saremo fuori da quella porta e vi guarderemo tramite le telecamere, ma né in questa stanza né nella cella ci sono microfoni». Le porse un piccolo telecomando che sembrava quello della saracinesca del suo garage. «Pulsante antipanico» spiegò. «Il prigioniero non potrebbe rompere la parete divisoria neanche con una mitragliatrice Gatling, per cui non c’è nulla di cui preoccuparsi, ma se in qualsiasi modo la farà sentire a disagio, prema quel pulsante.»
La Cochrane annuì. Odiava quegli uomini arroganti e le loro regole inumane, le loro terribili armi di odio e le maschere da codardi. Tuttavia era abbastanza professionale da fingersi gentile. «Fantastico. Grazie per l’aiuto. Sono sicura che andrà tutto bene.»
Si voltò e si guardò intorno. Vide la finestra che si apriva sulla cella; dalla sua parte era stata sistemata per lei una scrivania con le ruote, su cui c’era un telefono. Ma non era soddisfatta. «Agenti, dovrebbe esserci un’apertura nel plexiglas, nel caso avessi bisogno di fargli ispezionare dei documenti o firmare qualcosa.»
Il responsabile scosse la testa. «Mi dispiace, signora. C’è uno sportello attraverso il quale possiamo passargli cibo e vestiti, ma durante la sua visita resterà chiuso a chiave. Dovrà parlarne con il direttore, la prossima volta.»
Gli uomini dell’antiterrorismo, tutti e quattro, si ritirarono fuori dalla porta e la chiusero rumorosamente.
Judith Cochrane si avvicinò al piccolo tavolo di fronte al vetro e si sedette. Appoggiò il taccuino e la penna sulle ginocchia; solo allora guardò nella cella.
Saif Rahman Yasin sedeva sul suo letto di cemento, con il viso rivolto verso la porta. Stava leggendo il Corano che appoggiò con devozione sulla scrivania ai piedi del letto. Quando la Cochrane lo guardò, lui si tolse gli occhiali forniti dalla prigione e si strofinò gli occhi. A Judith ricordò subito un Omar Sharif più giovane. L’uomo si alzò e fece i pochi passi per attraversare la piccola cella e avvicinarsi a lei. Sedette su uno sgabello a tre gambe posto accanto a un telefono sul pavimento. L’apparecchio rosso non aveva pulsanti né numeri: era connesso soltanto al telefono che l’avvocato teneva in mano. Yasin sollevò il ricevitore e lo tenne vicino all’orecchio. Il suo volto era impassibile. Guardò la donna negli occhi, come se attendesse che iniziasse a parlare.
«Buongiorno, signor Yasin. Mi chiamo Judith Cochrane. Mi è stato riferito che il suo inglese è eccellente, è esatto?»
Il prigioniero non rispose, ma aveva capito. Lei aveva lavorato quasi esclusivamente con clienti stranieri; si accorgeva subito se comprendevano ciò che diceva o se erano confusi. Proseguì: «Sono un legale della Progressive Constitution Initiative. Il procuratore generale Michael Brannigan ha deciso che il suo caso sarà trattato nella corte distrettuale della Virginia occidentale. L’ufficio del procuratore preparerà le accuse a suo carico, mentre la mia organizzazione è stata incaricata della sua difesa. Fin qui le è tutto chiaro?».
Attese una risposta per un momento, ma il detenuto 09341-000 si limitò a fissarla negli occhi.
«Possiamo aspettarci che sia un processo lungo, di certo andrà avanti per più di un anno, due probabilmente. Ma prima di cominciare, ci sono molti passi preliminari che dobbiamo…»
«Vorrei parlare con qualcuno di Amnesty International per denunciare il mio arresto illegale.»
La Cochrane annuì solidale, ma rispose: «Temo di non poter accogliere la sua richiesta. Le assicuro che lavorerò nel suo interesse e la prima cosa di cui ci occuperemo saranno le condizioni della sua detenzione, affinché le venga concesso un trattamento adeguato».
L’Emiro ripeté quanto aveva appena detto. «Vorrei parlare con qualcuno di Amnesty International per denunciare il mio arresto illegale.»
«Mi ascolti, è già fortunato che le permettano di parlare con me.»
«Vorrei parlare con qualcuno di Amnesty International per denunciare…»
La Cochrane sospirò. «Signor Yasin, conosco i suoi metodi. Uno dei suoi manuali è stato ritrovato dai soldati delle Forze Speciali americane qualche anno fa a Kandahar. Espone nei minimi dettagli le istruzioni per affrontare la cattura e la prigionia. Sapevo che avrebbe richiesto di parlare con Amnesty International. Io non ne faccio parte, è vero, ma la mia organizzazione a lungo termine le porterà benefici molto maggiori.»
Yasin la scrutò per un lungo istante, tenendo il ricevitore accanto all’orecchio. Poi parlò ancora, cambiando il copione. «Ha già fatto questo discorso prima d’ora.»
«Certo. Ho rappresentato molti uomini e un paio di donne etichettati dagli Stati Uniti come nemici. Ognuno aveva letto quel manuale. Lei potrebbe essere il primo dei probabili autori di quel documento con cui ho l’onore di parlare.» Sorrise.
Yasin non rispose.
La donna proseguì: «Capisco come deve sentirsi. Non risponda, per il momento si limiti ad ascoltarmi. Il presidente degli Stati Uniti d’America e il procuratore generale hanno parlato di persona con il direttore del Bureau of Prisons per sottolineare quanto sia importante che lei possa avere conversazioni riservate con la sua squadra di avvocati».
«La mia… cosa?»
«La sua squadra di legali. Io e altri avvocati della PCI, la Progressive Constitution Initiative, che incontrerà nei prossimi mesi.»
L’Emiro tacque.
«Mi scusi. Riesce a capire cosa le dico? Se vuole posso richiedere un interprete.»
L’Emiro la capiva benissimo. Non era l’inglese a rallentare la sua comprensione della conversazione; era piuttosto lo stupore nell’apprendere che gli americani, dopo tutto quel tempo, lo avrebbero processato. Guardò la donna grassa con i grigi capelli corti. Gli sembrava un uomo, un uomo molto brutto con indosso abiti da donna.
Le sorrise appena. Saif Rahman Yasin sapeva da molto tempo che gli Stati Uniti d’America erano sopravvissuti più di duecento anni su questa terra soltanto per la loro fortunata collocazione geografica. Se quegli imbecilli fossero vissuti in una nazione fuori dal loro emisfero, magari nel cuore del Medio Oriente, con la loro infantile arrendevolezza verso quanti potevano danneggiarli, non sarebbero rimasti in piedi neanche un anno.
«Signora, mi sta per caso dicendo che nessuno può ascoltarci?»
«Nessuno, signor Yasin.»
L’Emiro scosse la testa borbottando. «È assurdo.»
«Glielo assicuro, può parlarmi senza problemi.»
«Sarebbe una follia.»
«La nostra Costituzione le concede dei diritti, signor Yasin. È questo a rendere grande il mio Paese. Per sfortuna, il clima politico al momento non avvantaggia le persone di colore, di altre razze e credenze religiose. Per questa ragione, non le vengono concessi tutti i benefici previsti dalla legge. Tuttavia… ne ha alcuni. E tra questi c’è il diritto a un colloquio privato con i suoi legali.»
Ora capì che la donna stava dicendo la verità. Si sforzò di non ridere.
Sì… è questo a rendere grande il tuo Paese.
È popolato da sciocchi come te.
«Molto bene» rispose. «Di cosa vuole parlarmi?»
«Per oggi, soltanto delle condizioni della sua detenzione. Il direttore e gli agenti dell’FBI responsabili della sua custodia mi hanno mostrato le Misure Amministrative Speciali a cui è sottoposto. Mi hanno detto di averle spiegato il regolamento al suo arrivo.»
L’Emiro replicò: «Ho visto luoghi peggiori».
La Cochrane alzò una piccola mano rugosa. «Bene, allora passerò a spiegarle alcune delle nostre regole generali. Potrò entrare più nel dettaglio quando inizieremo a lavorare sul suo caso, ma per adesso le dirò soltanto che non sono autorizzata a registrare alcun dettaglio relativo alla sua cattura o alla detenzione prima del suo arrivo all’ADX Florence tre mesi fa. In realtà, devo anche informarla che non può raccontarmi nulla di quanto è accaduto prima che fosse trasferito nella prigione federale da…» la donna scelse con attenzione le parole, «dal luogo in cui si trovava prima di allora.»
«Non posso?»
«Temo di no.»
Yasin scosse la testa con lentezza, incredulo. «E quale sarà la mia punizione se non rispetto l’accordo?» Ammiccò alla donna di fronte a lui. «Mi metteranno in prigione?»
Judith Cochrane rise. Si ricompose in fretta. «Capisco che si tratti di una situazione particolare. Il governo sta agendo con la massima cautela. Stanno avendo… serie difficoltà nel decidere come gestire la sua situazione. Ma ci sono stati altri casi di processi a cosiddetti combattenti nemici nelle corti federali; e posso assicurarle una cosa: la mia organizzazione farà in modo che l’ufficio del procuratore generale rispetti standard elevati durante il processo.»
«ADX Florence? È così che si chiama questo posto?»
«Sì, mi scusi: dovevo immaginare che non lo sapesse. Si trova in una prigione federale in Colorado. A ogni modo… mi parli di come la trattano qui.»
Lui la fissò negli occhi mentre diceva: «Molto meglio di quanto mi abbiano trattato altrove».
L’avvocato annuì di nuovo con solidarietà, un gesto ripetuto un milione di volte nella sua lunga carriera in cui aveva difeso gli indifendibili. «Mi dispiace, signor Yasin. Quella parte delle sue disavventure non sarà mai oggetto delle nostre discussioni.»
«E per quale motivo?»
«Abbiamo dovuto accettare questa condizione per ottenere il permesso di parlarle. Il suo periodo di detenzione negli Stati Uniti è diviso in due: il punto di svolta è il momento in cui è arrivato qui, entrando nel sistema federale. Quanto è accaduto prima, suppongo, ha coinvolto l’esercito e i servizi segreti americani: tutto questo non sarà materia trattata nel processo. Se insistiamo su questo punto, il Dipartimento di Giustizia la riconsegnerà alla custodia dei militari, e loro la trasferiranno a Guantánamo… Dio solo sa cosa potrebbe accaderle laggiù.»
L’Emiro rifletté per qualche momento, poi assentì. «Molto bene.»
«Proseguiamo, allora. Quanto spesso le permettono di fare il bagno?»
«Di fare… il bagno?» Che assurdità è questa?, pensò l’Emiro. Se una donna gli avesse rivolto la stessa domanda nelle aree tribali del Pakistan dove aveva trascorso gran parte degli ultimi anni, sarebbe stata frustata a morte, circondata da una folla indignata.
«Sì. Ho bisogno di sapere quali sono le sue condizioni igieniche. Se le sue necessità fisiche vengono rispettate. Ritiene accettabile le condizioni in cui può occuparsi della sua igiene personale?»
«Nella mia cultura, Judith Cochrane, non è appropriato che un uomo discuta di questi argomenti con una donna.»
Lei annuì. «Lo capisco. Non si sente a suo agio. Per me è lo stesso. Ma glielo assicuro, signor Yasin, sto lavorando nel suo interesse.»
«Non c’è ragione per cui debba interessarsi alla mia igiene personale. Voglio sapere cosa farete per il mio processo.»
La Cochrane sorrise. «Come le dicevo, le cose andranno per le lunghe. Faremo subito istanza di habeas corpus. Intendiamo portarla davanti al giudice, che determinerà se il sistema carcerario abbia l’autorità di trattenerla. L’ordinanza verrà negata, la richiesta non ha mai successo, ma fa capire al sistema che il suo caso sarà gestito con vigore.»
«Signora Cochrane, se la sua difesa possedesse un po’ di vigore ascolterebbe il racconto della mia cattura. È stata del tutto illegale.»
«Gliel’ho già spiegato. Non posso, è negli accordi con il Dipartimento di Giustizia.»
«Perché mai dovrebbero fare un accordo del genere? Hanno qualcosa da nascondere?»
«Di questo sono assolutamente certa. Non ci sono giustificazioni legali per il suo rapimento da parte degli Stati Uniti. Lo so io e lo sa anche lei. Ma questo è quanto.» Sospirò. «Se devo rappresentarla, lei dovrà fidarsi di me. Riuscirà a farlo?»
L’Emiro osservò il viso della donna. Era implorante, sincero, onesto. Ridicolo. Per ora l’avrebbe assecondata. «Vorrei avere un foglio e una matita. Mi piacerebbe fare qualche schizzo.»
«Come mai?»
«Per passare il tempo.»
Lei annuì, guardandosi intorno. «Penso di poter persuadere il Dipartimento di Giustizia che si tratta di una richiesta ragionevole. Ci lavorerò non appena tornerò al mio hotel.»
«La ringrazio.»
«Si figuri. Ora… lo svago. Mi piacerebbe sapere in cosa consistono i suoi momenti di svago. Vorrebbe parlarmene?»
«Preferirei parlare della tortura subita da parte delle spie americane.»
La Cochrane ripose il suo taccuino con un altro lungo sospiro. «Tornerò tra tre giorni. Spero che per quel momento avrà qualche matita e della carta; dovrei potergliele garantire con una lettera al procuratore generale. Nel frattempo, pensi a quanto le ho detto oggi. Pensi alle nostre regole, ma rifletta per favore anche su come potrà trarre beneficio da un processo. Deve considerare tutto questo come un’opportunità per sé e per… la sua causa. Con il mio aiuto, potrà infilare una spina nel fianco del governo americano. Non le piacerebbe?»
«Ha aiutato qualcun altro a infilare una spina nel fianco dell’America?»
L’avvocato sorrise orgogliosa. «Molte volte, signor Yasin. Le ho raccontato di avere molta esperienza in questo campo.»
«Mi ha detto di avere molti clienti in prigione. Non è un curriculum di forte impatto per un avvocato.»
La Cochrane sentì di doversi difendere. «I miei assistiti sono in carcere, ma non nel braccio della morte. E non si trovano nemmeno in una prigione militare, a differenza di molti altri. Il penitenziario di massima sicurezza non è il destino peggiore.»
«È preferibile il martirio.»
«Be’, per quello non posso aiutarla. Se il suo obiettivo è essere trascinato in un angolo oscuro di questo posto, dove le somministreranno un’iniezione letale, dovrà cavarsela da solo. Ma conosco gli uomini come lei, signor Yasin. Non è quello che volete.»
L’Emiro mantenne un lieve sorriso sulle labbra, ma era soltanto una facciata. No, Judith Cochrane. Non conosci nessun uomo come me.
Quando parlò però disse: «Mi dispiace di non essere stato amichevole. Ho dimenticato l’educazione nei molti mesi trascorsi dalla mia ultima conversazione con un’anima buona».
La sessantunenne americana si sciolse di fronte a lui. Si chinò persino verso il divisorio in plexiglas, accorciando la distanza tra loro. «Migliorerò la sua situazione, Saif Rahman Yasin. Si fidi di me. Lasci che richieda carta e penna; magari posso ottenere un po’ di privacy per lei, o un po’ più di spazio. Come dico di solito ai miei clienti, questa sarà sempre una prigione, non il paradiso, ma io la renderò un posto più vivibile.»
«Lo capisco. Il paradiso mi aspetta; questa è soltanto una sala d’attesa. Preferirei fosse più lussuosa, ma la sofferenza che sopporto adesso verrà ricompensata nell’Aldilà.»
«È un buon punto di vista. Ci vediamo tra tre giorni.» Judith Cochrane sorrise.
«La ringrazio, signora Cochrane.» L’Emiro sollevò la testa e sorrise. «Mi dispiace, sono davvero scortese. Signora o signorina?»
«Non sono sposata» rispose Judith, mentre le sue guance rotonde arrossivano.
Yasin sorrise ancora. «Capisco.»