16

Novanta secondi più tardi, Domingo Chavez diresse una scarica della sua HK MP7 sui cardini di una porta metallica chiusa a chiave, che conduceva al tetto dell’hotel. I tre uomini uscirono nel cielo azzurro; intorno a loro, tra gli edifici circostanti, riecheggiavano le sirene. Per tornare all’ingresso principale dell’hotel dovettero dirigersi verso nordovest, attraversando due grandi palazzi in stile settecentesco. In quel punto, i tetti degli edifici adiacenti erano ripidi, con la muratura in mattoni greificati. I tetti avevano tutti altezze e pendenze diverse, con pochi, angusti accessi pedonali. L’edificio davanti a loro era di ben un piano più alto di quello su cui si trovavano, per cui furono costretti a scalare gli stretti gradini di muratura per proseguire la fuga dalla polizia.

Che non era lontana. Chavez guidava il gruppo; ordinò a Dom e a John di indossare i passamontagna neri. Ora non sarebbero bastate le maschere che distorcevano parzialmente i tratti somatici: avevano bisogno di nascondere anche il colore della loro pelle.

Mentre correvano, scalavano e sfrecciavano a cinque o sei piani dalle strade di Parigi, sentirono gridare dietro di loro, dal tetto dell’Hôtel de Sers. Dal tono delle urla, capirono di essere stati individuati.

Clark si voltò per chiamare Caruso: «Lancia un fumogeno per coprirci».

Dom prese una granata dalla borsa che portava in spalla, togliendo la spoletta. Da un’estremità uscì un fumo rosso e intenso; Dom la posò accanto alla parete di vetro verticale di un tetto con la copertura a dente di sega. Continuò a correre. La nuvola di fumo si ingrossò nella brezza, coprendo la ritirata degli americani.

Dopo essere scivolati sulla schiena lungo la superficie ripida di una mansarda che confinava con l’edificio adiacente, scavalcarono il muretto e si ritrovarono cinque piani sopra il bellissimo cortile interno di un edificio di pietra Art Nouveau, occupato da lussuosi uffici. Le facce alle finestre fissarono gli uomini con i volti coperti dai passamontagna. Alcuni si voltarono in fretta e si allontanarono dai vetri; altri continuarono a guardare, con gli occhi spalancati, come se si trattasse di un telefilm poliziesco.

Chavez, Clark e Caruso continuarono a correre in direzione nordovest. Dopo altri trenta secondi, iniziarono a sentire il rumore sordo e persistente di un elicottero. Non sollevarono le teste. Che fosse della polizia o della televisione, non importava. Dovevano scendere dal tetto.

Infine, si precipitarono all’estremità di una mansarda spiovente. Sotto di loro, cinque piani più in basso, c’era Rue Quentin Bauchart, una strada a due corsie che correva fino in fondo all’isolato. Non c’era un modo facile per scendere a terra: nessuna grondaia e nessuna decorazione architettonica della facciata. C’era soltanto un grande erker tre metri sotto di loro che sporgeva dal ripido tetto.

Erano in trappola. Le grida dietro di loro divennero più forti.

I tre si inginocchiarono sul bordo del tetto. Il lamento delle sirene in Avenue George V pareva irreale. Nella zona ormai dovevano esserci una cinquantina di veicoli del pronto intervento. Nella strada sotto di loro non sembrava esserci polizia. Non ancora almeno, ma solo perché Rue Quentin Bauchart non era esattamente sul retro dell’hotel, e loro erano riusciti a raggiungere quel punto saltando da un edificio all’altro e percorrendo i muretti di servizio tra i palazzi dell’isolato. Tuttavia, con un tale spiegamento di forze, la polizia francese non avrebbe impiegato molto tempo a sparpagliarsi anche su quel lato; quando ciò fosse accaduto, anche quella strada sarebbe stata sbarrata dalle autorità.

«Cosa c’è sotto di noi, Ding?» chiese John. Chavez aveva la visuale migliore sulla strada sottostante.

«Sembrano edifici residenziali. All’interno però potrebbero esserci dei civili, non possiamo saperlo.»

Caruso e Clark capirono a cosa si stava riferendo. Nella borsa di Dom c’erano piccoli esplosivi. Avrebbero potuto aprire un varco nel tetto, calarsi nell’edificio e usare le scale per uscire. Ma non lo avrebbero fatto senza essere certi che lì sotto non ci fosse un appartamento abitato, una nursery o la casa di qualche anziano. C’era soltanto un modo per scoprirlo.

Dom si alzò in fretta. «Vado. John, posizionati dietro quel camino.» Caruso si tolse l’HK dal collo e sganciò la cinghia di nylon balistico. La srotolò in tutta la sua lunghezza, poi se la avvolse intorno alla mano destra diverse volte, infine diede l’altra estremità a Ding. Chavez la strinse saldamente, poi si aggrappò alla ringhiera di ferro con la sinistra. Clark indietreggiò, e quando Ding si inginocchiò sul bordo del tetto, Dom Caruso iniziò a discendere lungo la superficie ripida, con le scarpe che sfregavano sulla muratura mentre Chavez lo calava giù. Scese abbastanza per raggiungere l’erker. Mentre era appeso alla cinghia, i due rimasti sul tetto sentirono un rumore di vetro infranto: Caruso stava usando il fucile per spaccare la finestra. Ding si sforzò di tenere la cinghia; gli segava la mano, il polso e l’avambraccio, ma la tenne stretta. Dopo altri schianti, sentì che si muoveva con decisione verso sinistra. E poi, d’improvviso, non avvertì più alcun peso.

Caruso si trovava nell’appartamento sotto di loro. Un passo in avanti, certo, ma non aiutava Clark e Chavez, ancora in trappola. Caruso non aveva perso tempo a illustrare il suo piano: gli agenti del Campus rimasti sul tetto attesero alcuni istanti, disorientati, ma, nel giro di dieci secondi, sentirono Dom comunicare via radio.

«Okay, sono nell’attico. È vuoto. Userò l’esplosivo per aprire un varco per voi, ragazzi. Ding, raggiungi John e tenete giù la testa.»

Clark annuì, riconoscente mentre lanciava uno sguardo dietro di sé. Sentì le voci provenire dai tetti: la polizia era riuscita a farsi strada attraverso il fumo e gli agenti si stavano avvicinando in fretta. Con tutta probabilità stavano seguendo il sentiero di calcinacci e tegole rotte. Si trovavano ancora sull’edificio Art Nouveau accanto al loro, ma li avrebbero raggiunti nel giro di un minuto.

Qualche secondo più tardi, una fragorosa esplosione lanciò nell’aria fumo, pezzi di intonaco e legno, fino all’altro lato del camino. Mentre gli ultimi detriti piovevano giù, Clark e Chavez attraversarono il tetto fino al varco appena aperto e guardarono in basso. Non appena il fumo si diradò, videro Caruso. Stava spingendo una cassettiera in mezzo al pavimento di legno dell’attico sotto di loro. Quando l’ebbe posizionata sotto il buco, Clark aiutò Domingo a calarsi sul mobile. Chavez si voltò per sostenere il collega.

Il rumore di uno sparo una quindicina di metri più in là fece chinare istintivamente Chavez mentre afferrava il braccio di Clark. Il corpo del compagno fu attraversato come da una scossa, poi girò su se stesso e cadde nell’apertura. Crollò sulla cassettiera, insieme a Chavez, travolgendo anche Caruso.

«Merda!» gridò Chavez. «Ti hanno colpito, John?»

Clark si stava già sforzando di rimettersi in piedi. Con una smorfia di dolore, sollevò l’avambraccio, mostrando la giacca impolverata coperta di sangue. «Niente di grave. Sto bene» rispose, ma Caruso e Chavez avevano abbastanza esperienza in materia di armi da fuoco da sapere che in quel momento John non poteva rendersi conto di quanto fosse grave la ferita.

Ciononostante, Caruso ebbe la prontezza di preoccuparsi dei poliziotti sul tetto. Prese subito una granata flashbang dalla borsa, rimosse la spoletta e la lanciò in direzione degli uomini in avvicinamento. Era quasi sicuro che la polizia francese non avrebbe riconosciuto l’arma, almeno non all’istante. E comunque, sarebbero stati impegnati a difendersi da eventuali colpi sparati dai fuggitivi.

Gli americani dovevano guadagnare qualche secondo per scendere ai piani inferiori, e la granata servì allo scopo. Esplose accanto al camino con un fragore assordante.

Clark li guidò fuori dall’attico, giù per una rampa, fino a una scala a chiocciola che conduceva al pianterreno.

Chavez si affrettò a comunicare via radio: «Jack, stiamo scendendo, piano terra di un condominio, un centinaio di metri a nordovest dell’Hôtel de Sers. Trenta secondi».

«Ricevuto. Ci sarò. Sento le sirene dall’Avenue Marceau; nella George V c’è un bel casino.»

«Non importa» rispose Chavez, mentre lui e i due colleghi scendevano le scale a precipizio. Se ne sarebbe occupato sessanta secondi più tardi.

I tre americani raggiunsero la strada uscendo di corsa dalla porta del condominio. Jack e Sam si trovavano nella Ford Galaxy con la portiera laterale aperta. I tre entrarono mentre la prima auto della polizia svoltava l’angolo della strada alle loro spalle. Driscoll aiutò Clark a sedersi e iniziò subito a controllare le condizioni del braccio insanguinato.

Sebbene la polizia fosse soltanto a cinquanta metri di distanza, Ryan non schiacciò sull’acceleratore: ebbe la lucidità di guidare normalmente mentre si dirigeva verso l’Avenue George V. Passarono davanti a una scuola di lingue e a un ristorante dove i camerieri stavano apparecchiando i tavolini sul marciapiedi per il pranzo. Diversi passanti videro la loro auto; forse erano usciti per cercare di capire da dove provenissero le sirene, poi dovevano aver visto o sentito il trambusto sul tetto e gli uomini che uscivano dal palazzo correndo. Ma, fino a quel momento, nessuno in strada aveva dato l’allarme.

Jack Junior sapeva di non poter guidare fino all’Avenue George V di fronte a lui: brulicava di poliziotti ed era già stato approntato un posto di blocco. Continuò a procedere lentamente in quella direzione, guardando nello specchietto retrovisore finché le auto della polizia non si fermarono di fronte al condominio; soltanto quando non poté più aspettare, sterzò bruscamente a sinistra imboccando contromano la Rue Magellan.

Certo che almeno alcuni agenti nelle auto parcheggiate l’avessero visto, schiacciò il piede sull’acceleratore, chinandosi verso il parabrezza per avere una visibilità più completa della strada. Le auto sfrecciavano verso di lui: sterzò a destra e a sinistra per evitare il traffico nella direzione opposta. Nel giro di pochi secondi, svoltò a destra in Rue de Bassano, ritrovandosi su una strada secondaria, ancora nel senso di marcia sbagliato, ma continuò a guidare sempre più veloce. Una reazione ritardata di mezzo secondo per evitare un taxi fece sbandare l’auto mandandola sullo stretto marciapiedi. Demolirono un paio di auto parcheggiate mentre sfrecciavano tra i passanti che si tuffavano nei portoni o sulla strada per evitare la monovolume ammaccata. A un incrocio, Ryan schivò per un pelo un gruppo di camerieri in piedi di fronte a un ristorante russo; tornò sulla carreggiata, si schiantò contro una fila ordinata di biciclette pronte per il noleggio, poi superò la boutique di Louis Vuitton e imboccò l’ampio viale degli Champs-Élysées.

Per la prima volta in quel minuto e mezzo Ryan si ritrovò a guidare nel corretto senso di marcia. E, per la prima volta dopo diversi minuti, non sentirono il lamento acuto delle sirene proprio dietro di loro.

Jack alzò la mano per asciugarsi il sudore dalla fronte, ma la maschera di gomma glielo impedì. I suoi capelli scuri erano intrisi di sudore; se li scostò dal viso.

«Dove andiamo adesso?» chiese ai compagni alle sue spalle.

La voce di Clark era roca; tutti capirono che l’ex SEAL stava soffrendo molto, sebbene il tono rimanesse fermo. «La casa sicura» rispose. «Avremo bisogno di un’altra auto. Non possiamo raggiungere l’aeroporto guidando la macchina più ricercata di tutta la Francia.»

«Ricevuto» rispose Ryan, premendo un pulsante sul GPS che li avrebbe condotti alla casa sicura. «Come ti senti?»

«Sto bene» rispose Clark.

Sam Driscoll, però, aveva esaminato la ferita. Continuò a tenervi sopra le dita mentre si sporgeva verso i sedili anteriori. «Fai più veloce che puoi.»

Adara Sherman era all’ingresso del Gulfstream e con una mano dietro la schiena reggeva una mitragliatrice HK UMP calibro .45. Una berlina cinque porte si fermò sull’asfalto: ne scesero cinque uomini e si avvicinarono a lei. Quattro di loro avevano uno zaino, mentre John Clark teneva il braccio appeso a una fasciatura improvvisata sotto la giacca blu sportiva. Anche a distanza notò che il viso dell’agente era livido.

Esaminò rapidamente l’area dell’aeroporto. Vedendola deserta corse all’interno del velivolo a prendere la cassetta del pronto soccorso.

A bordo medicò con prontezza Clark. Nel giro di pochi minuti sarebbe arrivato un ufficiale della dogana per autorizzare la loro partenza. Mentre lei aiutava John a infilarsi una giacca pulita, anche gli altri indossarono i completi e le cravatte preparati per loro nell’armadietto del Gulfstream, ma solo dopo aver riposto i vestiti e l’attrezzatura nel nascondiglio sotto un pannello del pavimento.

Dopo pochi minuti una donna agente della dogana salì a bordo. Aprì due delle ventiquattrore degli uomini d’affari, dando un’occhiata all’interno, poi chiese al signore con la barba di aprire cortesemente la valigia. Lui obbedì, ma la donna non guardò oltre i calzini e gli abiti da palestra. L’uomo più anziano appoggiato al divano sul retro non si sentiva bene, dunque l’agente doganale non lo disturbò se non per verificare che il suo viso corrispondesse alla foto sul passaporto che uno dei suoi colleghi più giovani le aveva consegnato.

L’agente infine controllò i documenti del pilota, ringraziò tutti e fu accompagnata fuori dall’assistente di volo. Il portellone si richiuse dietro di lei, e nel giro di pochi secondi l’aereo stava rullando fuori dal quadrato giallo della dogana.

Il capitano Reid e il primo ufficiale Hicks partirono in cinque minuti. Era ancora in corso il decollo per uscire dallo spazio aereo parigino, quando la Sherman aveva arrestato l’emorragia del braccio di Clark. Prima che l’aereo toccasse i tremila metri di quota gli aveva posizionato una flebo sul dorso della mano e un antibiotico veniva infuso nel sangue dell’uomo per contrastare eventuali infezioni.

Appena Country spense il segnale delle cinture di sicurezza nella cabina, Chavez si affrettò a constatare le condizioni di salute dell’amico. «Come sta?» chiese con evidente preoccupazione.

La Sherman versò l’antisettico sulla ferita, esaminando i fori mentre il liquido la disinfettava. «Ha perso molto sangue, durante il volo dovrà restare sdraiato, ma il proiettile è uscito e riesce a muovere la mano.» Guardò il paziente. «Andrà tutto bene, signor Clark.»

John le sorrise. «Sapevo che Gerry non ti ha assunta solo per servire lo champagne.»

La Sherman rise. «Infermiera della marina per nove anni.»

«Un lavoro duro. Eri nei Marines?»

«Quattro anni in mezzo alla sabbia. Ho visto molte ferite peggiori della sua.»

«Ci scommetto» replicò John con un cenno d’assenso.

Caruso era andato nella cucina di bordo. Tornando, si fermò accanto agli altri inginocchiati intorno a Clark. Teneva in mano un bicchiere alto, di cristallo, di Johnnie Walker Black Label. Si rivolse alla Sherman: «Cosa ne pensi, dottoressa? Posso dargliene un sorso?».

Lei guardò Clark e annuì. «Se vuole la mia opinione professionale… il signor Clark sembra proprio aver bisogno di un drink.»

Il Gulfstream sorvolò la Manica, lasciando lo spazio aereo francese quando erano passate da poco le undici, a un’altitudine di crociera di diecimila metri.

Inizio


Il giorno del falco
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