72

Nella bellissima biblioteca della casa di Paul Laska a Newport, Rhode Island, l’anziano miliardario riagganciò il ricevitore del telefono sulla sua scrivania, ascoltando il ticchettio dell’orologio Bristol di mogano che era appartenuto a suo nonno e ora si trovava nel suo corridoio.

Il tempo correva.

Erano passati cinque giorni da quando Fabrice Bertrand-Morel gli aveva riferito che Clark aveva trovato Kovalenko e saputo del coinvolgimento di Laska nel dossier passato all’amministrazione di Kealty. In quei cinque giorni, Bertrand-Morel aveva chiamato ogni dodici ore ripetendo sempre la stessa storia. La spia brizzolata non parla dei suoi contatti, non rivela con chi abbia parlato e cosa abbia riferito. Ogni volta Laska aggiungeva nuove domande che il francese avrebbe dovuto porre a quell’uomo, nuovi elementi che, se fossero stati rivelati, avrebbero fornito a Laska qualche carta da giocare a suo favore qualora la notizia della sua cospirazione con i russi fosse finita nelle mani sbagliate.

Non si trattava più soltanto di difendere l’Emiro né di distruggere Jack Ryan, sebbene Paul ci sperasse ancora adesso. No, a quel punto l’immigrato ceco avrebbe dovuto pensare prima di tutto a sé. Le cose non erano andate secondo i piani: l’FBI aveva fallito nell’arresto di Clark e Bertrand-Morel non era riuscito a catturarlo prima che sapesse di Laska e passasse ad altri quell’informazione.

Adesso, decise Paul Laska, era il momento di mettere fine ai giochetti. Sollevò il ricevitore e compose un numero scritto sul taccuino di fronte a lui. Da tempo disponeva di quel numero, ma dubitava che l’avrebbe mai usato; ora era diventato inevitabile.

Quattro squilli, poi qualcuno rispose a un cellulare londinese.

«Sì?»

«Buonasera, Valentin. Sono Paul.»

«Salve, Paul. Stando alle mie fonti pare ci sia un problema.»

«Le sue fonti includono suo padre, immagino.»

«Sì.»

«Allora ha ragione, c’è un problema. Oleg ha parlato con Clark.»

«Clark non sarebbe dovuto arrivare a Mosca. L’errore è suo, non mio.»

«D’accordo, Valentin, lo ammetto. Ma ormai il danno è fatto e non possiamo più tornare indietro.»

Ci fu una lunga pausa. «Perché mi ha chiamato?»

«Abbiamo Clark e lo teniamo prigioniero a Mosca. Stiamo cercando di capire cosa abbia scoperto.»

«Mi sembra una mossa prudente.»

«Sì, ma gli uomini che ho assoldato non sono bravi con gli interrogatori. Sanno usare i pugni, ma ritengo che la sua esperienza sarebbe molto più utile.»

«Pensa che io torturi la gente?»

«Non lo so per certo, anche se immagino sia scritto nel suo DNA. A molte persone bastava trascorrere qualche ora in un seminterrato con suo padre per convincerle a parlare.»

«Mi dispiace, Paul, ma la mia organizzazione deve limitare il suo coinvolgimento in questa operazione. La tua è una causa persa. La situazione attuale in Kazakistan assorbe la preoccupazione di tutti nel mio Paese, al momento. La smania di distruggere Jack Ryan è ormai acqua passata.»

Laska andò su tutte le furie e abbandonò la formalità del «lei». «Non puoi uscirne in questo modo, Valentin. L’operazione non è conclusa.»

«Per noi lo è, Paul.»

«Non essere sciocco, ci sei dentro quanto me. Clark ha dato anche il tuo nome ai suoi contatti.»

«Il mio nome sfortunatamente è già nell’archivio della CIA. Può dire quello che vuole.»

Laska smise di dissimulare la sua ira. «È possibile, ma se faccio una telefonata al “Guardian”, la tua faccia diventerà quella dell’agente russo più noto della Gran Bretagna.»

«Mi sta minacciando di mettere a rischio la mia carriera nel SVR?»

Laska non esitò. «La tua nel SVR, quella di tuo padre nel KGB. Di certo ci saranno ancora alcune persone “risentite” negli Stati satelliti che non vedono l’ora di conoscere i nomi di chi ha causato la morte dei loro cari.»

«Sta giocando con il fuoco, signor Laska. Sono disposto a dimenticare questa conversazione. Ma non mi metta alla prova. Le mie risorse sono…»

«Niente rispetto alle mie! Voglio che tu prenda in custodia Clark, scopra per chi lavora e quali siano i suoi rapporti attuali con Ryan; infine dovrai farlo sparire in modo che non possa parlare di qualunque cosa abbia scoperto nell’ultimo mese.»

«Altrimenti?»

«Altrimenti inizierò a fare telefonate negli Stati Uniti e in Europa rivelando la tua parte in questa faccenda.»

«Non è un granché come bluff. Non lo farà, altrimenti sarà costretto ad ammettere il suo coinvolgimento. È lei ad aver infranto le leggi del suo Paese. Non certo io.»

«Negli ultimi quarant’anni, ho infranto le leggi in modi che non puoi nemmeno immaginare, mio giovane amico. Eppure continuo a farlo. Io sopravviverò a tutto questo, tu no.»

Kovalenko non rispose.

Laska proseguì: «Fallo parlare. Non lasciare nulla di intentato. Occupati di questo affare, poi potremo metterci una pietra sopra».

Kovalenko fece per dire qualcosa, per acconsentire con riluttanza a occuparsi del problema di persona, ma chiarendo che non si sarebbe impegnato più di tanto.

Ma Laska riagganciò. Il vecchio sapeva che Valentin Kovalenko avrebbe eseguito gli ordini.

Georgij sapeva fin dall’inizio che il gruppo Alfa del FSB avrebbe provato a riprendere il controllo della base. La sua mente fertile avrebbe potuto immaginarlo anche se non avesse visto con i suoi occhi la simulazione di un raid del FSB per riprendere il controllo dello stabilimento di Sojuz, in mano a un’organizzazione terroristica, appena tre anni prima.

Non aveva motivo di essere coinvolto nell’operazione di Sojuz, ma si era trovato a Baikonur in quel momento per altri affari ed era stato invitato dai rappresentanti della base ad assistere all’esercitazione. Ne era rimasto affascinato: gli elicotteri e le forze di terra in azione nelle loro tute mimetiche, le granate esplosive e gli uomini che si calavano dai tetti con le funi.

Dopo l’esercitazione aveva parlato con alcuni ingegneri di Sojuz e aveva appreso molte informazioni sui piani d’emergenza russi nell’improbabile caso che un commando di terroristi prendesse il controllo di una base.

C’era anche la possibilità che Mosca decidesse di combattere il fuoco con il fuoco e di bombardare con un ordigno nucleare il cosmodromo per salvare Mosca e San Pietroburgo, Safronov ne era perfettamente consapevole. Per fortuna, il sito di lancio per i Dnepr di Baikonur era la piattaforma originale per il lancio degli R-36 ed era perciò in grado di resistere a un attacco nucleare. I siti 104, 103 e 109 contenevano silos rinforzati da cui i missili sarebbero stati lanciati, e la sala di controllo era dotata di spesse pareti di cemento armato e porte d’acciaio a prova d’esplosione.

Alle sei del pomeriggio del primo giorno, otto ore dopo che la base era finita sotto il controllo dei terroristi daghestani, un paio di elicotteri Mi-17 del gruppo Alfa del FSB atterrarono dall’altra parte dello stabilimento dei razzi Proton, a venticinque chilometri dal LCC dei Dnepr. Ventiquattro agenti, tre squadre da otto, scesero dai velivoli, ciascun uomo carico di trenta chili d’attrezzatura e vestito con una mimetica da neve.

Nel giro di qualche minuto si erano diretti verso est.

Poco dopo le otto di sera, un aereo da trasporto Antonov An-124 atterrò alla base aerea di Jubilejnyj, a nordovest dell’impianto di Baikonur. L’An-124 era il più grande aereo da carico della Terra, e i militari russi avevano bisogno di ogni centimetro della cabina e della stiva per i novantasei membri delle truppe d’assalto delle Specnaz con la loro attrezzatura, inclusi quattro veicoli.

Altri quattro elicotteri Mi-17 arrivarono un’ora più tardi con un aereo per il rifornimento.

I ventiquattro uomini con la mimetica bianca la sera precedente avevano attraversato la steppa di Baikonur, dapprima a bordo di quattro pesanti fuoristrada forniti dai kazaki, ma, arrivati nelle vicinanze, avevano lasciato i veicoli e marciato attraverso la terra coperta di neve, nel buio.

Intorno alle due del mattino erano in posizione e attendevano il via libera dei loro capi.

Safronov aveva trascorso un pomeriggio piuttosto impegnato, a dare ordini ai suoi uomini e agli ingegneri di controllo del lancio. Dopo aver caricato i dispositivi nucleari negli Space Head Module, aveva liberato il resto della squadra di elaborazione. Tale decisione, insieme a quella di spostare gli ostaggi stranieri al LCC, gli permise di consolidare le sue difese.

C’erano quattro uomini della Jamaat Shariat al bunker della strada secondaria, quattro al silo 109, dieci al 103, altrettanti al 104 e quindici al LCC. Aveva ordinato ai suoi uomini di fare turni di riposo, ma sapeva che quei combattenti avrebbero tenuto sempre un occhio aperto.

Si aspettava l’attacco nel mezzo della notte, ma non sapeva se si sarebbe trattato di quella o della successiva. Prima sarebbe stato senz’altro contattato dai russi, i quali avrebbero tentato di fargli abbassare la guardia in quel momento critico.

Così, quando fu svegliato da uno squillo e da una luce lampeggiante sul pannello di comunicazione a cui era agganciato il suo auricolare, il cuore iniziò a martellargli nel petto.

Seduto sul pavimento contro il muro con l’AK in grembo, balzò in piedi e prima di rispondere alla chiamata, afferrò il walkie-talkie. Comunicò a tutti i fratelli daghestani: «Stanno arrivando! State in allerta!», poi gridò a tutti i prigionieri della sala di controllo, la maggior parte dei quali dormivano sul pavimento. «Tutti in posizione! Voglio il 109 pronto a partire entro cinque minuti, o comincerò a sparare! Telemetria di bordo, attivata! Sistemi di separazione, armati! LV pyro, armati!»

«Sì, signore!» risposero diversi membri dello staff di controllo dei lanci mentre obbedivano, con le mani tremanti.

Uomini dallo sguardo stanco, con i vestiti sgualciti, si trascinarono alle loro postazioni, mentre i combattenti daghestani li minacciavano con i fucili.

Mentre accadeva tutto questo, Georgij Safronov prese l’auricolare e lo appoggiò all’orecchio. Con una voce agitata difficile da dissimulare, vista tutta l’adrenalina che gli scorreva in corpo, rispose: «Sì? Cosa c’è?».

I ventiquattro uomini che avevano trascorso le precedenti otto ore acquattati nella steppa assalirono il LCC su tre lati, corrispondenti all’entrata principale, a quella sul retro e a un’area di carico dell’equipaggiamento.

Ogni ingresso era sorvegliato da tre ribelli daghestani, avvisati dal loro leader dell’attacco imminente. Quelli all’entrata principale iniziarono a sparare nel buio non appena arrivò la chiamata, commettendo un grossolano errore perché diede agli uomini del gruppo Alfa, ancora dall’altra parte del parcheggio innevato, la falsa impressione di essere stati avvistati. Tutti e otto si ripararono dietro alcune auto e risposero al fuoco sparando nella porta aperta, bloccando di fatto entrambi gli schieramenti.

La porta sul retro fu sfondata dalla seconda squadra russa: gettarono flashbang attraverso la soglia prima di entrare, ma si ritrovarono di fronte a un lungo corridoio stretto con le pareti di cemento armato. Dall’altra parte del passaggio tre terroristi, non sfiorati minimamente dalle esplosioni, spararono con i loro AK agli uomini con la mimetica bianca. Sebbene gran parte del fuoco automatico provenisse dagli uomini della Jamaat Shariat che si sporgevano da un angolo con i fucili e tiravano il grilletto, i proiettili, diretti verso il basso, rimbalzavano sulle pareti, sul pavimento e persino sul soffitto. Le raffiche polverizzarono la forza avversaria.

Due uomini furono abbattuti nel giro di pochi secondi, altri due caddero provando a trascinare i compagni fuori dal corridoio. I quattro restanti del gruppo Alfa arretrarono fuori dall’edificio, ma iniziarono a lanciare bombe a mano lungo il corridoio.

I tre terroristi, però, si erano rifugiati dietro una porta di ferro, dove si misero al sicuro mentre le granate esplodevano.

Quella postazione si era ora trasformata in un punto di stallo per entrambe le parti, così come l’ingresso principale.

Gli uomini del gruppo Alfa all’entrata di carico ebbero maggiore fortuna. Riuscirono a eliminare tutti e tre i daghestani perdendo solo un agente. Si spinsero fino al piano inferiore, ma lì fecero scattare una trappola esplosiva posizionata dietro una porta. La granata di un lanciarazzi era stata montata su un ordigno improvvisato, un’altra lezione della Rete Haqqani, e la detonazione uccise tre russi, ferendone altri tre.

Uno degli elicotteri Mi-17 della base aerea di Jubilejnyj arrivò sul tetto del LCC. Gli uomini dell’equipaggio si calarono di sotto e si diressero verso la porta. Anche su quell’ingresso era stato montato un esplosivo, ma i russi se lo aspettavano e dopo aver sfondato la porta restarono indietro.

Sebbene l’ordigno improvvisato non avesse ucciso gli uomini sul tetto, li rallentò e diede modo ai combattenti del primo e del secondo piano di rispondere al fuoco sopra di loro.

Anche la scala che conduceva all’uscita sul tetto divenne un punto morto del LCC. Quattro uomini della Jamaat Shariat avevano una buona copertura sul pianerottolo del secondo piano dietro una porta di ferro e pareti a prova di bomba; gli otto del gruppo Alfa erano al riparo sopra di loro. Le granate rimbalzavano lungo le scale soltanto per esplodere sul pianerottolo senza fare danni, mentre i proiettili dell’AK fendevano l’aria attraverso le scale ma mancavano i loro obiettivi, nascosti ai lati della porta.

Nel giro di un minuto dall’inizio dell’offensiva, gli elicotteri attaccarono i tre silos dei lanci. Il 103 e il 104 erano difesi da dieci guardie ciascuno, ben disposte, sotto una copertura rinforzata. Il 109 era sorvegliato soltanto da quattro uomini, e fu anche il primo a essere raggiunto dagli elicotteri. L’Mi-17 sparò con la mitragliatrice da 12,7 millimetri, crivellando l’area, ma la scarica fu inefficace poiché il tiratore non disponeva di un mirino termico che gli avrebbe permesso di individuare facilmente i bersagli in quello scenario congelato.

L’elicottero sul 109 si abbassò quasi fino a terra e venti agenti si calarono sulla piattaforma di cemento. Quegli assassini ben addestrati ebbero maggior fortuna nell’individuare e impegnare il nemico in quell’area rispetto a quanta ne avesse avuta l’Mi-17.

Il sito 109 fu liberato in meno di un minuto, poiché era difeso soltanto da quattro mujaheddin della Jamaat Shariat. Mentre il fragore dei colpi continuava negli altri siti, ognuno a più di un chilometro di distanza nella steppa, il gruppo Alfa del 109 si affrettò verso il silo, cercando disperatamente di portare a termine la fase successiva della missione.

I soldati non avrebbero potuto disinnescare le armi nucleari; non sarebbero stati neppure in grado di arrivare all’interno dello Space Head Module senza perdere moltissimo tempo. Ma erano stati addestrati per disconnettere il Dnepr dal sito di lancio, per tagliare il cordone ombelicale con il LCC, per così dire. Si lanciarono all’interno a rotta di collo.

Usarono le torce degli elmetti e dei fucili per guardare all’interno del profondo silo; l’unica parte visibile del razzo da trenta metri era una grossa carenatura conica verde con le lettere bianche KSFC. Sotto di essa si trovava il modulo spaziale e ancora più in basso il razzo a tre stadi. Gli uomini individuarono un enorme coperchio di ferro a qualche metro dal silo aperto; sembrava una botola gigante. La aprirono e due membri della squadra iniziarono a scendere una scala metallica, affrettandosi a raggiungere il livello per l’equipaggiamento di supporto, una passerella a soli tre metri e mezzo di profondità, dove avrebbero potuto accedere a una seconda scala, e da lì a un altro livello. Poi avrebbero potuto raggiungere il veicolo di lancio a tre stadi vero e proprio, e disabilitare il collegamento di comunicazione con la sala di controllo di terra.

I due attraversarono di corsa la passerella e si diressero verso la scala successiva: sapevano di avere poco tempo.

«Siamo pronti?» gridò Safronov ai due uomini vicino al pannello di controllo dei lanci. Non risposero, quindi ripeté, urlando: «Siamo pronti?».

L’uomo dai capelli rossi fece un breve cenno d’assenso. Il biondo sulla destra confermò a voce bassa: «Sì, Georgij. Sequenza di lancio completa».

«Lanciate il 109!» Le due chiavi di lancio erano già in posizione.

«Georgij, per favore, non posso! Per favore, non…»

Safronov afferrò la Makarov e sparò all’uomo alla schiena, due volte. Cadde a terra contorcendosi dal dolore, gridando terrorizzato.

Georgij si rivolse all’ingegnere di lancio seduto accanto al moribondo. «Tu puoi farlo o devo pensarci da solo?»

Il russo allungò la mano, appoggiandola su una delle chiavi in cima al pannello di controllo, poi chiuse gli occhi.

Girò la chiave. Poi, guardando la pistola puntata alla sua tempia, si affrettò a girare la seconda chiave.

Sopra di lui, Georgij Safronov commentò: «Spade trasformate in vomeri ora tornano a essere spade».

Poi premette il pulsante.

Al silo 109, i due agenti del gruppo Alfa incaricati di scollegare i contatti di comunicazione avevano appena lasciato la scala e correvano lungo il breve corridoio verso la base del Dnepr-1, cercando disperatamente di disattivare il veicolo di lancio prima che quel pazzo lo inviasse nella stratosfera.

Fallirono.

Un forte rumore metallico sotto di loro sulla passerella fu l’ultima cosa che i loro cervelli registrarono.

Un generatore di pressione sotto il razzo conteneva una carica di polvere nera mantenuta sotto pressione, che prese fuoco sotto i loro piedi, creando una massa di gas che esplose all’istante, sparando il razzo da trenta metri fuori dal silo come il sughero di una pistola giocattolo. I due uomini al piano inferiore vennero inceneriti in un batter d’occhio, mentre il missile usciva dal silo e i gas espansi incandescenti si diffondevano nel tunnel verso piccoli condotti d’aerazione.

Il razzo partì a velocità, ma rallentò quando i gas che l’avevano spinto si dissiparono. Con la parte inferiore del livello più basso del veicolo di lancio a soli venti metri dal silo congelato, l’immensa nave spaziale restò immobile a mezz’aria per un momento.

Gli otto agenti delle Specnaz restarono sotto di esso, fissando il fondo di un razzo spaziale che stava per partire proprio sopra alle loro teste.

Uno di loro mormorò: «Der’mo». Merda.

Con uno schiocco simile al tappo dello champagne, gli esplosivi spinsero via il coperchio protettivo del fondo del primo livello, esponendo il sistema di combustione del razzo.

Poi il primo livello prese fuoco, bruciando la terra e tutti coloro che c’erano sopra con il carburante in fiamme.

Tutti e otto gli uomini morirono uno dopo l’altro.

L’elicottero Mi-17 era rimasto in volo a una trentina di metri. Il pilota diede un forte strattone ai comandi, salvando la vita a se stesso e all’equipaggio, ma l’elicottero era troppo basso per una manovra del genere. Si schiantò sulla neve; fu un incidente senza vittime, ma il copilota si ruppe entrambe le braccia e gli uomini sul retro riportarono ferite più o meno gravi.

Il razzo Dnepr-1 si levò alto nel cielo notturno, prendendo sempre più velocità, mentre il fumo, il vapore e le fiamme rimasero dietro di esso sulla piattaforma di lancio. Uno stridio riempì l’aria e una potente vibrazione scosse il terreno per chilometri, in tutte le direzioni.

Il bolide da duecentosessanta tonnellate raggiunse una velocità di novecento chilometri orari in meno di trenta secondi.

Tutte le persone presenti al cosmodromo di Baikonur lo osservarono ascendere al cielo.

Inizio


Il giorno del falco
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