Il generale Riaz Rehan entrò nella capanna d’argilla con due uomini di Haqqani. Lo affiancavano tenendo in mano delle torce e illuminarono una figura che giaceva al suolo. Era un uomo, con entrambe le gambe legate in maniera frettolosa: stava sul pavimento, con il viso rivolto alla parete.
Gli agenti della Rete Haqqani indossavano turbanti neri e avevano la barba incolta, ma Rehan portava una semplice salwar kamiz e un kufi. La sua barba era corta e ordinata, in forte contrasto con i capelli lunghi dei due pashtun.
Rehan guardò il prigioniero. I capelli arruffati e sporchi erano quasi completamente grigi, ma non era vecchio. Era in salute, o almeno lo era stato prima che una granata sparata da un lanciarazzi gli facesse fare un volo di tre metri.
Rehan restò davanti all’uomo per diversi secondi, ma lui non si voltò verso la luce. Infine uno dei pashtun armati si avvicinò e gli sferrò un calcio a una delle gambe legate.
Lui si mosse, si girò, provando a ripararsi gli occhi con le mani, poi li chiuse e si mise a sedere.
I polsi dell’infedele erano incatenati a un bullone sul pavimento di cemento, e aveva i piedi nudi.
«Apri gli occhi» ordinò il generale Rehan in inglese. Il pakistano fece cenno alle due guardie di abbassare un po’ le torce; quando lo fecero, l’occidentale con la barba obbedì. Rehan vide che l’occhio sinistro dell’uomo era rosso di sangue, forse per un colpo ricevuto al naso o all’occhio, in tutta probabilità dovuto allo schianto della granata che, da quanto gli avevano raccontato, aveva inflitto al prigioniero anche altre ferite.
«Allora… parli inglese, no?» chiese Rehan.
Dapprima il prigioniero non rispose, ma dopo un istante alzò le spalle, poi annuì.
Il generale gli si accovacciò vicino. «Chi sei?»
Nessuna risposta.
«Come ti chiami?»
Ancora niente.
«Non importa. Le mie fonti mi hanno riferito che sei ospite in Pakistan di un certo maggiore Mohammed al Darkur, del Joint Intelligence Bureau. Sei venuto qui per spiare quello che il maggiore pensa erroneamente sia un campo di addestramento dell’ISI e della Rete Haqqani.»
Il ferito non rispose. Era difficile dirlo con la luce fioca, ma le sue pupille erano ancora dilatate per la scossa violenta.
«Mi piacerebbe molto capire perché sei qui a Miran Shah. Pensi di trovare qualcosa di particolare o è soltanto un caso che il tuo viaggio nelle FATA coincida con la mia visita? Di recente il maggiore al Darkur ha ficcato il naso nei miei affari.»
L’uomo dai capelli grigi si limitò a guardarlo.
«Amico mio, non sei un tipo molto affabile.»
«Mi hanno detto di peggio.»
«Ah, allora parli. Possiamo avere una conversazione educata, da uomo a uomo, oppure devo farti strappare di bocca altre parole dai miei uomini?»
«Fa’ ciò che credi, io mi farò un sonnellino.» L’americano si sdraiò su un fianco, mentre le catene produssero un rumore metallico sul pavimento di cemento.
Rehan scosse la testa, frustrato. «Il tuo Paese sarebbe dovuto restare fuori dal Pakistan, così come i britannici. Invece vi ostinate a voler diffondere la vostra cultura e i vostri peccati in tutti gli angoli del globo. Siete un’infezione contagiosa.»
Rehan stava per aggiungere qualcosa, ma si fermò. Fece un cenno infuriato all’uomo ferito sul pavimento e si voltò verso un uomo di Haqqani.
L’americano non parlava urdu, la lingua madre del generale Rehan. E nemmeno pashtu, quella dell’ufficiale della Rete Haqqani vicino al generale. Sam parlava inglese e Rehan voleva chiaramente che capisse i suoi ordini, dunque li impartì in inglese.
«Scoprite cosa sa. Se vi risponde di sua spontanea volontà, dategli una morte veloce. Se vi fa perdere tempo, fateglielo rimpiangere.»
«Sì, generale» rispose l’uomo con il turbante nero.
Rehan si voltò e abbassò la testa per uscire dalla cella d’argilla.
Dalla sua posizione a terra, Driscoll lo guardò andare via. Una volta solo nella stanza, Sam commentò: «Tu forse non ti ricordi di me, ma io mi ricordo bene di te, stronzo».