Clark e Chavez si trovavano ai piedi di una scaletta di un aereo russo da trasporto Antonov An-72, fermo sulla pista dell’aeroporto di Krajnij, non lontano dalla città di Baikonur, quaranta chilometri a sud della LCC dei razzi Dnepr, al cosmodromo, e sessantaquattro chilometri a sud dell’aeroporto di Jubilejnyj. I motori dell’Antonov ruggivano, anche se il velivolo era fermo.
Sulla stessa pista c’erano quattro elicotteri Mi-17, un Mi-8 più piccolo e un gigantesco Mi-26. Uomini e donne si affaccendavano intorno ai velivoli, rifornendoli di carburante e caricandoli sotto le luci artificiali dei generatori ausiliari e delle torce portatili.
Una neve leggera sferzava gli unici due americani sulla pista d’atterraggio.
«È già arrivato Nabiyev?» chiese Ding.
«Sì, si trova a Jubilejnyj. Sarà alla base per le 22:30» rispose John.
«Bene.» Chavez indossava una tuta di Nomex nera e un elmetto, da cui pendeva una maschera antigas. Contro il petto teneva una mitragliatrice HK UMP, calibro .40, con una borsa piena di caricatori. Anche con il calcio ripiegato, l’arma silenziata era appena più larga delle spalle di Ding.
L’equipaggiamento di Chavez era quello che comunemente utilizzava molti anni prima con Rainbow, ma Domingo non usò il suo vecchio segnale di chiamata. I responsabili delle comunicazioni della squadra antiterrorismo gli assegnarono il soprannome di Romeo Due.
«Hai bisogno d’aiuto per indossare il paracadute?» chiese Clark.
«Non da te che ormai sei diventato mancino» rispose Ding. Entrambi sorrisero lievemente. Il tentativo di fare dell’umorismo macabro durò poco. Chavez proseguì: «Il responsabile del carico mi aiuterà a sistemarmi a bordo». Esitò un istante, poi aggiunse: «Hai fatto un lavoro fantastico progettando quest’operazione, John. Tuttavia… perderemo molti ragazzi».
Clark assentì, distogliendo lo sguardo dagli elicotteri carichi di uomini di Rainbow. «Ho paura che tu abbia ragione. L’operazione si basa tutta sulla velocità, sull’effetto sorpresa e sulla violenza dell’attacco.»
«E soprattutto sulla fortuna, anche quella dovrà assisterci.»
John annuì di nuovo, poi fece per tendere la mano a suo genero. Si fermò, come ricordandosi in quel momento della vistosa fasciatura, quindi gli tese la sinistra.
«Ti fa molto male?» gli chiese Ding.
Clark cercò di tranquillizzarlo. «Le costole rotte non mi fanno sentire dolore alla mano. E viceversa.»
«Quindi sei a posto?»
«Mai stato meglio.»
I due uomini si abbracciarono con calore.
«Ci vediamo quando sarà tutto finito, Domingo.»
«Puoi scommetterci, John.»
Un minuto dopo, Chavez si trovava su un An-72 e cinque minuti più tardi Clark era a bordo di uno dei Mi-17.
Al Darkur, Ryan e Caruso seguirono Rehan e il suo gruppo di agenti dell’ISI e di LeT fino alla stazione ferroviaria principale di Lahore. La città era in stato d’allerta, il che avrebbe dovuto significare posti di blocco organizzati, un severo coprifuoco e cose del genere, ma i quasi dieci milioni di abitanti erano praticamente tutti convinti che quella notte sarebbe scoppiata la guerra; per questo nelle strade c’era molto più caos del solito.
Ryan e Dominic si trovavano sui sedili posteriori del furgone Volvo con il maggiore. Al Darkur aveva passato giubbotti della polizia e grossi fucili HK G3 a ciascun occupante del veicolo, indossando la stessa attrezzatura.
Nella città bruciavano ancora gli incendi provocati dai colpi d’artiglieria di poco prima, ma i bombardamenti si erano fermati. Il panico che si era scatenato tra la cittadinanza avrebbe fatto salire il bilancio delle vittime, Jack ne era certo, dopo aver visto decine di incidenti d’auto, risse e parapiglia alla stazione ferroviaria.
Rehan e il suo convoglio di quattro veicoli imboccarono le strade all’interno della stazione, ma poi l’auto in coda si fermò d’improvviso, bloccando il traffico. Le altre macchine procedettero in fretta, mentre la folla cercava di togliersi di mezzo.
«Merda!» esclamò Ryan. Era preoccupato: avrebbero perso il loro uomo. C’erano cinque o sei veicoli dietro l’auto parcheggiata; riuscirono soltanto a vedere la testa del convoglio che svoltava verso est, restando nei terreni della stazione.
«Siamo vestiti da poliziotti» disse al Darkur. «Una volta in strada, ricordatevi di comportarvi come tali.»
Mohammed al Darkur e i suoi due uomini scesero dalla Volvo; gli americani li seguirono. Lasciarono il furgone in strada, mentre una cacofonia di clacson risuonava infuriata dietro di loro.
Corsero tra le macchine, facendosi strada sul marciapiedi, e si precipitarono verso il convoglio che era stato bloccato dal fitto traffico pedonale intorno alla stazione.
Rehan e i suoi uomini fendettero la ressa, poi svoltarono, dirigendosi verso una strada secondaria della stazione che incrociava i quindici binari, raggiungendo una serie di magazzini dal tetto di lamiera sul lato settentrionale. Gli edifici si trovavano a quattrocento metri dalla stazione e dalla folla dei passeggeri.
Con al Darkur e i suoi due uomini al comando e i due americani dietro, i cinque a piedi scattarono su un cavalcavia sopra alla strada. Sotto di loro, i quattro veicoli si facevano largo tra diversi vagoni arrugginiti abbandonati dall’altra parte della zona. Non avevano le locomotive, erano stati posizionati in quel punto di fronte a una rimessa lungo i binari.
I cinque sul cavalcavia si fermarono a osservare i sedici uomini uscire dalle auto per entrare nel magazzino.
Il suono di un altro sbarramento di artiglieria sulla città arrivò in lontananza da sud.
Ryan, ansimante per la corsa, suggerì: «Dovremmo metterci al riparo e trovare un punto d’osservazione migliore per tenere d’occhio quell’edificio».
Al Darkur li condusse alla fine del cavalcavia e si appostarono al secondo piano di una piccola pensione.
Mentre il maggiore incaricava i suoi due ufficiali di sorvegliare le scale, lui, Caruso e Ryan entrarono nel grande dormitorio di fronte alla stazione. Ryan prese il binocolo a infrarossi dallo zaino per perlustrare la zona. Figure spettrali si muovevano tra i vagoni fermi, camminando o correndo verso la strada o nella direzione opposta, scavalcando recinzioni per avvicinarsi ai binari in attività.
Erano civili, che cercavano disperatamente di fuggire dalla città.
Scrutò il magazzino attraverso le lenti e vide la sagoma di un uomo a una finestra del piano superiore. Era fermo e guardava fuori. Pensò si trattasse di una sentinella.
Un altro bagliore bianco comparve dall’altro lato della finestra dell’edificio un minuto più tardi.
Passò il binocolo al cugino.
Al Darkur prese un mirino telescopico per controllare di persona. Osservò l’area tra la sua posizione e quella di Rehan. «Quanto dista? Centocinquanta metri?»
«Io direi duecento» fece Dominic.
«Mi piacerebbe avvicinarmi» intervenne Ryan. «Ma dovremmo attraversare un bel tratto scoperto, cinque binari, poi scavalcare quella rete metallica dall’altro lato.»
«Posso farci raggiungere da altri uomini, ma non arriveranno tanto presto» replicò il maggiore.
«Darei qualsiasi cosa per conoscere il piano di quel figlio di puttana» concluse Dom.
Chavez saltò da solo dalla rampa posteriore dell’Antonov An-72 a settemila metri. Tirò il cavo di spiegamento del paracadute pochi secondi dopo aver abbandonato il velivolo; nel giro di un minuto controllava il GPS e l’altimetro sul suo polso.
Il vento diventò subito un problema. Si sforzò di mantenere la traiettoria, ma capì di non riuscire a scendere abbastanza in fretta.
Secondo i suoi piani sarebbe dovuto arrivare in posizione proprio mentre l’elicottero Mi-8 atterrava di fronte al LCC, quindi avrebbe dovuto coordinare accuratamente la sua discesa. Al momento, valutò di impiegarci almeno ventidue minuti.
Guardò verso il basso: da qualche parte sotto di lui c’era l’obiettivo, ma non riusciva a vedere niente a parte un’oscurità densa e impenetrabile.
Aveva eseguito decine di lanci da quell’altitudine ai tempi di Rainbow, ma secondo Clark e Chavez gli attuali membri della squadra, pur essendo abili paracadutisti, non avevano sufficiente esperienza in lanci militari da incursione notturni. Si sarebbero paracadutati anche loro sull’obiettivo nonostante il vento forte – dopo tutto quell’operazione non era certo un picnic – ma la missione pianificata da Clark richiedeva che qualcuno atterrasse di nascosto sul tetto del LCC, e per quel tipo di lancio occorrevano esperienza e precisione.
C’era un’altra ragione per cui Chavez aveva deciso di buttarsi da solo. La squadra di cecchini-spie che sorvegliava il LCC aveva riferito di aver visto del movimento sul tetto dell’edificio: sentinelle appostate per avvistare eventuali paracaduti.
Con il maltempo, Clark e Chavez immaginavano che un uomo solo sarebbe riuscito ad avvicinarsi, almeno finché non fosse stato in grado di tenere a bada gli obiettivi sul tetto. Ma la possibilità di successo per un’incursione clandestina diminuiva con ogni paracadute aggiuntivo.
Per questo Ding volava da solo attraverso la neve, dopo essersi buttato dalla rampa dell’aereo.
Il video che mostrava Nabiyev sul retro del Mi-8 iniziò quando un uomo dell’equipaggio salì sull’elicottero, poco prima del decollo. Nabiyev poteva parlare direttamente con Safronov nella sala di controllo, sebbene la ricezione video e audio fosse comprensibilmente un po’ disturbata. Tuttavia, la telecamera serviva allo scopo. All’interno della cabina erano presenti soltanto quattro uomini, a parte lo stesso Israpil, a cui erano state tolte le manette e che indossava un cappotto pesante e un cappello. Georgij gli chiese di guardare fuori dal finestrino per segnalare quando avesse visto le luci del LCC. Il leader daghestano fece quanto gli era stato richiesto.
La squadra di ricognizione di cecchini di Rainbow che sorvegliava il LCC da trenta ore si era spostata da una distanza di mille metri a una di soli quattrocento, con il favore dell’oscurità. Ora erano appostati tra l’erba alta con gli occhi puntati sul retro dell’edificio, su cui vigilavano grazie ai mirini telescopici. La luce intermittente e la neve rendevano la vista attraverso la lente confusa, ma una delle spie notò un paio di ombre in movimento lungo un condotto di ventilazione d’acciaio sul lato settentrionale del tetto. Dopo aver osservato con più attenzione, vide la testa di un uomo uscire allo scoperto per soli pochi secondi prima di sparire di nuovo dalla sua visuale. La spia cercò conferma dal cecchino, poi premette il pulsante del walkie-talkie.
«Romeo Due, qui è Charlie Due.»
«Romeo Due, ti ricevo.»
«Fa’ attenzione, sul tetto ci sono due sentinelle.»
A quasi trecento metri dal tetto del LCC, Ding Chavez avrebbe voluto rispondere al cecchino dall’accento tedesco che non riusciva a vedere un accidenti di niente. L’unica cosa a guidarlo verso l’obiettivo era il GPS che aveva al polso. L’edificio doveva essere laggiù da qualche parte; avrebbe pensato ai bastardi sul tetto quando ci sarebbe arrivato. A meno che… «Charlie Due, qui Romeo Due. Non vedrò le guardie finché non atterrerò sopra di loro. Siete in grado di prenderle di mira?»
A terra, il cecchino scosse la testa e l’osservatore rispose. «Non da questa posizione, Romeo, ma stiamo tentando di trovare l’obiettivo.»
«Ricevuto.»
Chavez tastò la sua mitragliatrice UMP. Era lì, in posizione, proprio sopra al giubbotto antiproiettile. Avrebbe dovuto usarla non appena i suoi piedi avessero toccato il tetto.
Se ci fosse riuscito, almeno. Se avesse mancato il bersaglio, se qualche errore di calcolo avesse deviato la sua traiettoria o qualche corrente d’aria l’avesse spinto via all’ultimo secondo, tutta l’operazione sarebbe stata a rischio.
E se una corrente fosse arrivata al momento sbagliato, spingendo Ding verso il parcheggio a est, dove le grosse pale del rotore del Mi-8 giravano, Chavez non avrebbe avuto la minima possibilità di salvezza.
Controllò l’altimetro e il GPS, poi tirò le maniglie dei comandi, aggiustando la velatura del suo paracadute ad ala sopra di lui per deviare leggermente verso sud.
Alle 22:30, il muso del Mi-8 si avvicinò al LCC. Safronov stava ancora guardando il video dell’elicottero. Nabiyev vide l’edificio simile a un bunker con le grosse luci sul tetto. Prese la telecamera e la posizionò contro il finestrino perché lo stesso Safronov potesse vedere. Georgij disse a Israpil che l’avrebbe incontrato all’interno della porta principale nel giro di qualche minuto, poi scese a precipizio dalla sala di controllo insieme a diverse guardie. Alla fine dei gradini, attraversarono l’atrio buio, aprendo le porte a prova d’esplosione.
Quattro uomini della Jamaat Shariat si misero in posizione sulla soglia aperta, ma Georgij rimase da un lato, si limitò a sbirciare da dietro la porta di ferro, nel caso in cui qualcuno nascosto nella neve avesse provato a sparargli.
Dietro di loro, i prigionieri stranieri furono condotti nell’atrio e fatti addossare alla parete da due guardie.
L’elicottero russo atterrò dall’altra parte del parcheggio, a settanta metri dalle porte rinforzate del LCC, direttamente sotto la luce dei fari sul tetto.
Safronov guardò fuori dalla porta, dove la neve cadeva fitta, illuminata dai fari. Comunicò via radio con gli uomini sul tetto, avvisandoli di tenersi pronti a tutto, senza dimenticare di sorvegliare anche il retro dell’edificio.
Lo sportello laterale dell’elicottero si aprì e un uomo con la barba, il cappello e il cappotto comparve. Si coprì gli occhi per ripararsi dalle luci abbaglianti e iniziò ad attraversare lentamente il parcheggio innevato.
Georgij pensava già a cosa avrebbe detto al comandante dell’esercito della Jamaat Shariat. Avrebbe dovuto accertarsi che non gli avessero fatto il lavaggio del cervello, sebbene nella loro conversazione precedente gli fosse parso del tutto in sé.
Chavez vide l’elicottero atterrare, poi riportò la sua attenzione sul tetto del LCC, sessanta metri sotto i suoi stivali. Ce l’avrebbe fatta, grazie a Dio, anche se più in fretta e con più violenza di quanto avrebbe voluto. Mentre scendeva con uno sbandamento improvviso verso sud distinse una… due sentinelle appostate in quel punto.
Quarantacinque metri sotto di lui.
Proprio in quel momento, la porta d’accesso del tetto si aprì, illuminando la scena. Comparve un terzo terrorista.
Maledizione, pensò Chavez. Tre guardie, ognuna in un punto cardinale diverso rispetto al punto del suo atterraggio. Avrebbe dovuto sparare in rapida successione, un’impresa quasi impossibile con un atterraggio instabile, l’illuminazione irregolare e un’arma che non avrebbe neanche potuto imbracciare finché non avesse sganciato la velatura del paracadute.
Trenta metri.
In quel preciso istante, l’auricolare di Ding si animò.
«Romeo Due, qui è Charlie Due. Abbiamo un obiettivo in vista sul tetto a nordovest. Entreremo in azione a un tuo comando.»
«Fatelo fuori.»
«Puoi ripetere il comando?»
Maledetti tedeschi. «Entrate in azione.»
«Ricevuto, in azione.»
Chavez distolse l’attenzione dall’uomo nella parte nordovest del tetto. Non era più un suo problema. Se il cecchino l’avesse mancato, be’, Ding era fottuto, ma non poteva preoccuparsene adesso.
Sei metri.
Chavez sgonfiò il paracadute e atterrò in corsa. Continuò a correre, tirò la maniglia di sgancio rapido e sentì il paracadute staccarsi dal suo corpo. Imbracciò la UMP silenziata e si girò verso la guardia accanto alla porta del tetto. Il terrorista aveva già sollevato il kalashnikov in direzione di Ding. Chavez si gettò a terra, rotolò sulla spalla sinistra e si inginocchiò in posizione di tiro.
Sparò una scarica da tre colpi, centrando il terrorista barbuto alla gola. L’AK si rovesciò in aria e la guardia cadde all’indietro nella porta.
Grazie al silenziatore e al rumore prodotto dai rotori, lo sparo non sarebbe stato avvertito sotto di loro.
Ding aveva già spostato la sua attenzione verso destra. Mentre muoveva il mirino, colse l’immagine distante e sfocata di una sentinella sull’angolo a nordovest. L’uomo alzò l’arma, ma il lato sinistro della sua testa esplose e crollò al suolo.
Ora Chavez si concentrò sulla guardia nella parte est del tetto, a poco più di sette metri da dove l’americano era inginocchiato. Il terrorista non gli stava puntando contro un’arma, sebbene guardasse Ding dritto negli occhi. Mentre il daghestano si sforzava di concentrarsi sul nuovo obiettivo appena caduto dal cielo notturno, gridò per la paura.
Domingo Chavez colpì l’uomo alla fronte con due colpi calibro .40. Il bersaglio indietreggiò mentre cadeva.
Ding si alzò, rilassandosi leggermente dopo aver sventato l’ultima minaccia. Prese un nuovo caricatore per la sua UMP. Mentre lo faceva, guardava la sentinella incespicare, in attesa che atterrasse sul freddo tetto di cemento.
Ma il cadavere dell’uomo aveva altri progetti. Il suo slancio continuò a portarlo all’indietro; in un istante, Chavez realizzò con orrore che il corpo sarebbe caduto dal tetto. Sarebbe atterrato, afflosciandosi, proprio di fronte alla porta principale, illuminato dalle luci destinate all’uomo che sarebbe sceso dall’elicottero.
«Merda!» Chavez scattò dall’altra parte del tetto, tentando disperatamente di afferrare la sentinella prima che crollasse giù, compromettendo l’intera operazione nel momento più delicato.
Ding lasciò andare la sua HK, si lanciò a terra e allungò il braccio il più possibile per afferrare l’uniforme del morto.
La guardia della Jamaat Shariat cadde all’indietro oltre il cornicione.