Riaz Rehan aveva uomini in ogni ufficio governativo e in ogni principale impresa a partecipazione statale del suo Paese. Una di esse era l’industria di armi nucleari pakistana. Attraverso la sua rete di intermediari, era in contatto con scienziati, ingegneri e fabbricanti d’armi. Da loro apprese che a Wah Cantonment, vicino a Islamabad, si trovava il deposito di molte armi nucleari del suo Paese. Diversi missili atomici, essenzialmente involucri di bombe convenzionali statunitensi Mark 84 riempite di bombe a rilascio aereo di potenza tra i cinque e i venti chilotoni, erano conservati nel Kamra Air Weapon Complex, all’interno delle enormi Pakistan Ordnance Factories di Wah. Le bombe nucleari erano smontate, ma «pronte all’uso». Cioè avrebbero potuto essere assemblate in poche ore se e quando il capo di Stato avesse dato l’ordine di schierarle.
E, come Rehan aveva saputo la mattina precedente da uno dei suoi amici di alto rango del ministero della Difesa, il presidente pakistano aveva preso la decisione.
La prima parte dell’operazione Saker aveva dunque avuto successo. Per assicurarsi che le armi fossero assemblate e schierate nelle loro postazioni da combattimento, il generale Rehan aveva dovuto portare la sua nazione sull’orlo della guerra. Fatto questo, monitorò i suoi contatti nel governo e i rami dell’esercito addetti alle armi nucleari, come un serpente acquattato nell’erba in attesa di sferrare l’attacco alla sua preda.
Da molto tempo i pakistani si vantavano che le loro armi nucleari erano protette da una procedura di sicurezza a tre livelli. Era vero, ma in ultima analisi non significava molto. Bastava solo sapere quale fosse l’anello debole nella procedura di sicurezza successiva all’assemblaggio ed escogitare un modo per sfruttarlo.
Gli agenti del generale alle Ordnance Factories l’avevano informato che intorno alle nove di sera due bombe da venti chilotoni avrebbero lasciato il Kamra Air Weapon Complex su un camion e sarebbero state consegnate a un treno speciale nelle vicinanze di Taxila. Dapprima Rehan pensò di attaccare il convoglio del camion. Dopo tutto è più facile bloccare un veicolo su ruote che un treno. Ma c’erano troppe variabili fuori dal suo controllo nel condurre un’operazione che passava così vicino agli insediamenti militari di Wah e Taxila.
Per questo iniziò a studiare il percorso del treno. Le bombe sarebbero state consegnate alla base aerea di Sargodha, a circa 320 chilometri di distanza.
Un semplice sguardo alla carta fu sufficiente per identificare il punto ideale. A soli cinque chilometri a sud della città di Phularwan, su una distesa pianeggiante di terra coltivata tagliata in due dai binari, si trovava un gruppo di mulini abbandonati e silos, lungo i campi di grano paralleli alla ferrovia. Lì avrebbe potuto nascondere i suoi uomini, pronti ad attaccare un treno in avvicinamento da nord. Una volta raggiunto l’obiettivo, il gruppo avrebbe potuto spostare il carico di due bombe lunghe tre metri e pesanti una tonnellata su camion e accedere alla moderna M2, la Lahore-Islamabad Motorway, dove avrebbero potuto dirigersi a nord o a sud e sparire in una delle due enormi metropoli nel giro di novanta minuti.
Nella prima settimana di dicembre, una pioggia fredda e incessante picchiettava sui tetti di lamiera dei granai a soli quattrocento metri dal limite della ferrovia.
Il generale Riaz Rehan, il suo secondo, il colonnello Khan, e Georgij Safronov giacevano nel buio su tappeti da preghiera, nascosti in una capanna dietro a un trattore arrugginito che speravano li avrebbe protetti dalla sparatoria quando l’attacco fosse cominciato.
Rehan aspettava la chiamata via radio di una spia a Chabba Purana, un villaggio a sudest di Phularwan. I cinquantacinque uomini armati della Jamaat Shariat, gli studenti del campo di Haqqani a Miran Shah, erano sparpagliati nel campo sul lato ovest dei binari. C’era un uomo appostato ogni tre metri, ogni quattro uno armato di lanciarazzi, mentre il resto era munito di kalashnikov.
I daghestani, guidati da ex ufficiali dell’ISI scelti dal generale Rehan per la loro esperienza paramilitare, erano a circa cinquanta metri dalle rotaie; una porzione di dieci metri di binari era stata rimossa poco prima. Il treno in corsa sarebbe deragliato proprio di fronte agli uomini della Jamaat Shariat, si sarebbe fermato nella polvere, e infine i combattenti del nord del Caucaso avrebbero rapidamente iniziato a uccidere ogni singola forma di vita presente nei vagoni.
Rehan aveva proibito di fumare da quando i sei grandi camion carichi di uomini erano arrivati quella mattina. Sebbene non ci fosse nessuno in giro per diversi chilometri in ogni direzione, aveva vietato anche di parlare se non sussurrando; le comunicazioni via radio dovevano essere ridotte all’essenziale.
In quel momento la sua radio gracchiò. Era un canale criptato, ma il messaggio era comunque in codice. «Ali, prima di andare a letto devi dar da mangiare alle galline. Avranno fame.»
Rehan diede una pacca sulla spalla al nervoso imprenditore spaziale russo, rannicchiato nella capanna insieme a lui. «Era il mio uomo sui binari. Il treno sta arrivando.»
Safronov si voltò verso Rehan e lo guardò. Anche con la luce fioca di quella notte piovosa, il viso del russo era pallido. Non c’era ragione per cui lui dovesse essere presente all’attacco, ma Safronov aveva insistito. Aveva chiesto di restare con i suoi fratelli e assistere a ogni momento di quell’operazione. Aveva lasciato il campo d’addestramento nel Waziristan del nord in anticipo, ma soltanto perché doveva correre a Mosca per organizzare i tre lanci dei razzi da Baikonur: doveva assicurarsi che quando sarebbe arrivato il momento ci sarebbero stati soltanto scienziati e membri del personale scelti da lui.
Ma non avrebbe potuto in alcun modo perdersi i fuochi d’artificio di quella notte. Quel prepotente di Rehan poteva andare a farsi fottere.
Dapprima il generale aveva tentato di escluderlo sostenendo che era troppo prezioso per la buona riuscita dell’operazione da mettersi in pericolo in questa fase, poi aveva acconsentito a lasciar partecipare Georgij, ma restò sulle sue posizioni riguardo all’attacco. Richiese persino che il russo indossasse un giubbotto antiproiettile e restasse nella capanna finché non avessero caricato tutto sui camion; aveva inoltre incaricato il colonnello Khan di occuparsi di lui.
C’erano anche altri uomini che non avrebbero preso parte alla sparatoria poiché avrebbero giocato un ruolo diverso nella missione. Il generale, freddo e calcolatore, sapeva che nessuno avrebbe creduto che una banda di montanari del Daghestan potesse condurre un’operazione tanto audace in Pakistan. Molti avrebbero criticato gli islamisti dell’ISI per averli supportati. Per evitare tali critiche, Rehan aveva coinvolto una delle organizzazioni con cui aveva lavorato per più di un decennio. Un anno prima il MULTA – Muslim United Liberation Tigers of Assam –, un gruppo di militanti islamici indiani, aveva subito le infiltrazioni di agenti della India’s National Investigation Agency (NIA). Quando Rehan l’aveva saputo, non si era infuriato e non aveva tagliato i ponti con l’organizzazione. No, l’aveva vista come un’opportunità. Aveva radunato gli uomini del MULTA privi di legami con gli infiltrati della NIA e li aveva portati dalla sua parte. Aveva spiegato loro che avrebbero partecipato a un’operazione incredibile in Pakistan: nel corso di tale missione sarebbero state rubate armi nucleari pakistane con le quali loro sarebbero tornati in India, per farle detonare a Nuova Delhi. Sarebbero diventati martiri.
Era tutta una bugia. Aveva documentato i loro movimenti, così come l’infiltrazione dell’intelligence indiana nella loro organizzazione, conservando prove che avrebbe potuto usare in seguito per coprire le tracce dell’ISI nel furto delle bombe. Aveva qualcosa in programma per i quattro uomini del MULTA presenti quella sera, ma il suo piano non prevedeva certo di farli allontanare con le bombe al seguito.
Sui quattro sarebbe ricaduta la responsabilità del furto delle armi e di conseguenza il governo indiano avrebbe dovuto rendere conto del proprio coinvolgimento nel gruppo.
Per avvalorare l’inganno, Rehan e i suoi uomini avevano lasciato intendere che il piano dell’attacco fosse stato organizzato in maniera approssimativa. Un gruppo di combattenti islamici indiani che erano stati raggirati dall’intelligence indiana e avevano lavorato con i partigiani daghestani in Pakistan non avrebbe dovuto possedere neanche l’ombra di un rigido addestramento militare; per questo motivo, il piano prevedeva caos e disordine per raggiungere lo scopo.
Rehan ascoltò una chiamata via radio dall’unità più a nord: in lontananza si vedevano le luci del treno.
Il caos e il disordine sarebbero scoppiati a breve.
Il piano di Rehan non avrebbe mai funzionato se il governo pakistano avesse protetto le sue armi nucleari dai terroristi quanto le aveva protette dal suo vicino dell’est. Il treno con le bombe avrebbe potuto essere più lungo, carico di un intero battaglione; avrebbe potuto essere difeso da elicotteri dotati di mitraglieri per l’intero percorso, o l’esercito avrebbe potuto appostare truppe di reazione rapida lungo i binari prima che il treno lasciasse Kamra alla volta della base aerea di Sargodha.
Ma tutte quelle disposizioni di alta sicurezza, capaci di scongiurare la possibilità che un gruppo di terroristi potesse impadronirsi del treno e sottrarre le armi, avrebbe anche reso noto ai satelliti, ai droni e alle spie indiane che le armi nucleari stavano per essere dispiegate.
E l’esercito pakistano non avrebbe permesso che ciò accadesse.
Per questo motivo, la sicurezza del treno si basava sull’estrema segretezza dello spostamento; inoltre, a bordo si trovava una compagnia dell’esercito, poco più di un centinaio di uomini armati. Se ci fosse stata una fuga di informazioni e i terroristi avessero preso di mira il treno, quegli uomini avrebbero potuto, in pratica in ogni circostanza, essere sufficienti per respingere un attacco.
Ma per Rehan fronteggiare cento uomini non era certo un problema: non avrebbero avuto scampo.
Le luci del treno comparvero sulla pianura, in lontananza, ad appena un chilometro. Rehan poteva sentire il respiro pesante di Safronov, che sovrastava il picchiettare della pioggia sul tetto di lamiera. Il generale gli si rivolse in arabo: «Rilassati, amico mio. Rimani qui a guardare. Questa notte la Jamaat Shariat compirà un primo passo fondamentale per garantire una patria daghestana alla tua gente».
La voce del pakistano trasudava sicurezza e falsa ammirazione per gli stolti schierati là fuori nell’erba. Dentro di sé sperava soltanto che non avrebbero rovinato tutto. Insieme agli uomini della Jamaat Shariat c’erano una decina dei suoi, anche loro pronti con armi di piccolo calibro e ricetrasmittenti a organizzare l’attacco. Non aveva idea di quanto gli addestratori del campo di Haqqani fossero riusciti a preparare all’azione quei cinquantacinque uomini delle montagne, ma lo avrebbe scoperto nel giro di qualche istante.
Il treno comparve nella pioggia, trafiggendo l’oscurità con il suo faro di luce bianca. Non era lungo: soltanto una decina di vagoni. I contatti di Rehan al Kamra Air Weapon Complex non erano riusciti a scoprire in quale punto del treno erano state posizionate le armi; non conosceva nessuno alla stazione di Taxila che avrebbe potuto fornirgli quell’informazione. Naturalmente non potevano essere vicine al motore e il buonsenso suggeriva che non sarebbero state nell’ultimo vagone; parte degli uomini della sicurezza si sarebbe logicamente appostata nella parte posteriore del treno, nel caso avessero dovuto fronteggiare un attacco alle spalle. Per questo la Jamaat Shariat aveva ricevuto ordine di lanciare razzi soltanto ai motori e all’ultimo vagone, o su qualsiasi gruppo numeroso di soldati, non appena fossero scesi dal treno e se ne fossero allontanati considerevolmente. I razzi e le granate non avrebbero potuto provocare un’esplosione nucleare neanche se avessero colpito le bombe stesse, ma avrebbero potuto danneggiarle, oppure causare un incendio nel vagone che le conteneva, rendendo arduo estrarre dal treno i due lunghi missili.
Rehan era preoccupato. Se l’operazione non fosse andata a buon fine, il suo piano per impadronirsi della nazione sarebbe andato in fumo.
Il conducente del treno doveva essersi già accorto dei binari mancanti di fronte a lui; si udì l’acuto stridore dei freni.
La tensione di Georgij Safronov si avvertiva dietro al trattore arrugginito. Rehan cercò di calmarlo con parole gentili, ma d’improvviso si sentì l’esplosione di colpi di kalashnikov; una scarica si abbatteva sul treno ancora in movimento.
Un altro AK si unì al coro; il rumore dei proiettili era appena percepibile sopra il frastuono dei freni della locomotiva.
Tuttavia, Rehan era furioso. La Jamaat Shariat aveva iniziato l’attacco in anticipo.
Gridò ai suoi uomini, via radio: «Non dovevano sparare prima del deragliamento! Fermate quei bastardi, a costo di piantare loro una pallottola in testa!».
Ma non appena terminò la comunicazione, la pesante motrice deviò fuori dai binari. Dietro di essa, come una fisarmonica che si aprisse pian piano, gli altri vagoni si rovesciarono verso l’interno e verso l’esterno. Il treno si fermò nella pioggia, lento e pesante. L’impianto frenante provocò alcuni piccoli incendi.
Rehan stava per impartire un contrordine. Premette il pulsante della trasmissione sul suo walkie-talkie, ma poi porse l’apparecchio a Safronov. Con gentilezza, gli disse: «Da’ ai tuoi uomini l’ordine di attaccare».
In un attimo, il viso terrorizzato del milionario russo avvampò di un orgoglio animalesco; gridò nel walkie-talkie così forte che, Rehan ne era certo, la sua voce sarebbe arrivata distorta alle radio degli uomini armati.
«All’attacco!» urlò Safronov in russo.
Il campo di fronte alla capanna si accese subito delle luci dei lanciarazzi. Un paio di granate passarono sopra al treno, tracciando un arco nella notte, mentre una detonò contro il penultimo vagone sui binari, ma altre quattro colpirono il motore, trasformandolo in una palla di fuoco di metallo contorto. Altre due granate raggiunsero il vagone posteriore, uccidendo o mutilando chiunque vi fosse appostato.
Il rumore degli AK nel campo era potente, furioso, incessante. La rappresaglia dal treno tardò ad arrivare. Senza dubbio la brusca frenata e il deragliamento avevano fatto cadere gli uomini all’interno impedendo loro di rispondere tempestivamente all’attacco. Ma infine il fuoco potente delle semiautomatiche calibro .308 e dei fucili d’assalto HK G3 iniziò a rispondere ai kalashnikov nel campo di grano.
Altri razzi detonarono contro il treno, in gran parte sul primo e sull’ultimo vagone, ma alcuni daghestani, secondo il generale Rehan, avevano una mira davvero pessima. Sentì le grida nei walkie-talkie, in urdu, arabo e russo. Dall’altra parte del campo buio, spazzato dalla pioggia, guardò morire i soldati sul treno.
Quei militari non erano dei nemici. Forse erano dei buoni musulmani. Alcuni avrebbero forse anche sostenuto la causa di Rehan. Ma perché l’operazione Saker avesse successo, molti di loro erano destinati a loro insaputa a diventare dei martiri.
Rehan avrebbe pregato per loro, ma non li avrebbe rimpianti.
Usò il visore notturno per controllare l’azione dalla capanna. Un gruppo di circa dieci soldati dell’esercito era riuscito a uscire dal treno; avevano attaccato gli assalitori con una mossa tattica che rese il generale fiero di essere alla guida di uomini del genere. Ma le maglie dell’imboscata erano troppo larghe e gli uomini nel campo troppo numerosi; i soldati vennero abbattuti nel giro di qualche secondo.
L’intero scontro durò soltanto tre minuti e mezzo. Quando gli agenti dell’ISI nel campo dichiararono il cessate il fuoco, inviarono squadre di combattenti della Jamaat Shariat in ogni vagone, una per volta, per evitare che cadessero sotto il fuoco amico.
Ci vollero altri cinque minuti. L’operazione terminò con quella che Rehan sapeva essere l’esecuzione dei feriti o di chi si era arreso.
Infine arrivò una comunicazione nel walkie-talkie del generale. «Portate i camion!» li esortò uno dei capitani in urdu.
Due grossi veicoli ribaltabili uscirono all’istante dal loro nascondiglio dietro i silos, percorrendo la strada bagnata attraverso il campo di grano. Un terzo, una gru, li seguì.
Ci vollero soltanto sette minuti per trasportare le bombe dal treno fino ai camion. Quattro minuti più tardi, il primo veicolo pieno di daghestani raggiunse la strada che collegava Islamabad e Lahore, procedendo verso nord.
Mentre Rehan e Safronov salivano su uno dei camion, una lunga scarica risuonò da uno dei silos abbandonati. Il fuoco proveniva da fucili d’assalto G3 dell’esercito pakistano, ma Rehan non se ne preoccupò. Aveva ordinato ai suoi combattenti di requisire le armi alle guardie che proteggevano il treno per eliminare i quattro uomini del MULTA, che, fino a quel momento si erano illusi di poter tornare in India.
L’ISI ordinò ai daghestani di abbandonare i corpi tra i campi.
La Jamaat Shariat perse tredici uomini nell’imboscata. Sette morirono subito, mentre gli altri, feriti in modo troppo grave per sopravvivere al viaggio che li attendeva, furono finiti sul posto. Tutti i cadaveri furono caricati sui furgoni.
I primi soccorritori dell’esercito pakistano arrivarono sul luogo dell’attacco al treno dodici minuti dopo che i camion avevano lasciato il campo di grano. In quel momento le due bombe erano più vicine di quasi quindici chilometri all’impenetrabile metropoli di Islamabad.