In una gelida notte d’ottobre, a Machačkala, nel Daghestan, cinquantacinque combattenti della Jamaat Shariat si incontrarono in un seminterrato dal soffitto basso con Suleiman Murshidov, l’anziano leader spirituale della loro organizzazione. Avevano tra i diciassette e i quarantasette anni; sommati tutti insieme, possedevano centinaia d’anni di esperienza nella guerriglia urbana.
Quegli uomini erano stati scelti dai comandanti operativi; cinque di loro erano capi di cellule. Sapevano di dover essere inviati in una base straniera per l’addestramento, poi avrebbero intrapreso una missione destinata a cambiare il corso della storia.
Pensavano tutti che la missione avrebbe coinvolto un ostaggio, come a Mosca. Lo scopo ultimo sarebbe stato probabilmente il rimpatrio del loro comandante, Israpil Nabiyev.
Avevano ragione soltanto a metà.
Nessuno di quei combattenti brizzolati conosceva l’uomo rasato di fresco insieme a Murshidov e ai suoi figli. Sembrava un politico, non un ribelle: quando Abu Dagestani lo presentò come il capo della loro operazione, rimasero sconcertati.
Georgij Safronov parlò con passione agli uomini nel seminterrato; spiegò che il fine ultimo della missione sarebbe stato rivelato a tempo debito, ma per il momento sarebbero stati mandati a bordo di un aereo da trasporto a Quetta, in Pakistan, da dove avrebbero raggiunto un campo, nel nord del Paese. Lì, spiegò, sarebbero stati sottoposti a un addestramento intensivo di tre settimane da parte dei migliori combattenti musulmani del mondo, uomini con più esperienza operativa nel decennio passato persino dei fratelli nella vicina Cecenia.
I cinquantacinque uomini furono felici della comunicazione, ma era difficile per loro considerare Safronov come un leader.
Suleiman Murshidov se ne accorse. Del resto, se l’era aspettato. Parlò di nuovo al gruppo, garantendo a tutti che Georgij era un daghestano: il suo piano e il suo sacrificio avrebbero fatto per il Caucaso del nord nel giro di due mesi più di quanto la Jamaat Shariat avrebbe potuto fare senza di lui nei successivi cinquant’anni.
Dopo una preghiera finale, i cinquantacinque salirono sui minibus e si diressero all’aeroporto.
Georgij Safronov sarebbe voluto andare con loro, ma secondo il generale Ijaz, il suo partner pakistano nella missione, sarebbe stato troppo pericoloso. No, Safronov avrebbe preso un volo di linea fino a Peshawar, con documenti preparati dall’intelligence pakistana; lì Ijaz e i suoi uomini sarebbero andati a prelevarlo e sarebbero volati direttamente al campo nei dintorni di Miran Shah.
Raggiunta la destinazione, Georgij avrebbe dovuto addestrarsi con gli altri. Non sarebbe stato abile come loro con le armi, né allenato o indurito dalla battaglia. Ma avrebbe imparato: sarebbe diventato più forte e più robusto.
Sperava di guadagnarsi il rispetto degli uomini che avevano vissuto resistendo ai russi dentro e fuori da Machačkala. No, non lo avrebbero mai considerato come Israpil Nabiyev. Ma avrebbero obbedito ad Abu Dagestani e avrebbero seguito gli ordini di Safronov. E se in Pakistan fosse riuscito ad apprendere le abilità marziali che sarebbero state necessarie durante le lotte a cui si preparavano, Safronov pensava che forse lo avrebbero visto come un vero comandante, e non soltanto come un simpatizzante per la loro causa con un piano in mente.
Jack Ryan Junior parcheggiò il suo Hummer giallo di fronte alla casa di Melanie Kraft qualche minuto dopo le sette. Viveva su Princess Street, ad Alexandria, vicino alla casa d’infanzia di Robert E. Lee, accanto alla casa di George e Martha Washington, su una parte della strada ancora lastricata con il selciato risalente a prima della guerra d’indipendenza. Ryan si guardò intorno: c’erano bellissime case antiche. Era sorpreso che un’impiegata del governo di neanche trent’anni potesse permettersi di vivere lì.
Trovò la porta e capì. L’indirizzo era di una bella casa georgiana in mattoni, sì, ma lei viveva nella dépendance sul retro, dall’altra parte del giardino. Erano alloggi molto carini, ma dall’esterno si sarebbe detta poco più grande di un box auto.
Lei lo invitò a entrare; Ryan ebbe la conferma di quanto fosse piccolo l’appartamento, ma la ragazza lo teneva in ordine.
«Bel posto.»
Melanie sorrise. «Grazie. Lo penso anch’io. Ma non avrei potuto permettermelo senza un aiuto.»
«Un aiuto?»
«Una mia professoressa dell’università è sposata con un vero riccone; la casa appartiene a loro. È stata costruita nel 1794. Mi affitta la dépendance per il prezzo che avrei pagato per un appartamento qualsiasi da queste parti. È piccina, ma non ho bisogno di altro.»
Dalla posizione in cui si trovava, Jack poté vedere tutta la casa, a eccezione del bagno. Diede uno sguardo a un tavolino in un angolo. Su di esso era appoggiato un MacBook Pro, insieme a una grossa pila di libri, quaderni e pagine stampate. Alcuni dei libri, notò Ryan, erano in arabo.
«Il NCTC è così a sud?» chiese con un sorriso.
Anche lei rise, ma afferrò in fretta la giacca, la borsa e si diresse alla porta. «Vogliamo andare?»
Jack la seguì fuori dalla porta, nel freddo della sera.
Per raggiungere King Street ci volevano solo dieci minuti a piedi; chiacchierarono dei vecchi edifici. Era sabato sera, e molte altre persone andavano fuori a cena.
Entrarono nel ristorante e furono accompagnati a un romantico tavolo per due che si affacciava sulla strada. Mentre studiavano il menu, Jack chiese: «Sei mai stata qui?».
«A dire il vero no. Odio ammetterlo, ma non mi concedo molti pasti fuori casa. Il pollo in offerta speciale del supermercato per me è già un lusso.»
«Non c’è nulla di male nel pollo.»
Jack ordinò una bottiglia di Pinot nero; mentre chiacchieravano, esaminarono il menu.
«Quindi hai frequentato l’università a Georgetown» cominciò Melanie.
Ryan sorrise. «Lo sai perché te lo ha detto Mary Pat, perché l’hai cercato su Google o perché voi della CIA sapete sempre tutto?»
Lei arrossì lievemente. «Ero lì anch’io. Ti ho visto qualche volta in città. Eri un anno avanti a me, credo. Era difficile non notarti con quel grosso tipo dei servizi segreti con te tutto il tempo.»
«Mike Brennan. Per me era un secondo padre. Un grande uomo, ma agli altri incuteva un certo timore. È la mia scusa per aver fatto poca vita sociale al college.»
«Ottima scusa. Sono certa che essere un personaggio famoso abbia i suoi svantaggi.»
«Non sono famoso, nessuno mi riconosce. I miei genitori erano ricchi, ma di certo non mi hanno servito qualsiasi cosa su un piatto d’argento. Ho fatto un lavoro estivo da quando andavo alle superiori e per un periodo ho persino fatto il muratore.»
«Stavo parlando soltanto degli svantaggi della fama. Non volevo insinuare che non meritassi quello che hai ottenuto» ribatté Melanie.
«Scusami» replicò Jack. «Ho dovuto difendermi più di una volta da quel punto di vista.»
«Lo capisco. Vuoi essere accettato per quello che sei, non per le tue origini.»
«Sei molto perspicace» osservò Jack.
«Sono un’analista.» La ragazza sorrise. «Analizzo.»
«Magari dovremmo analizzare il menu prima che torni il cameriere.»
Melanie sorrise ancora. «Ah-ah. Qualcuno sta cercando di cambiare argomento.»
«Maledizione, mi hai scoperto.» Risero entrambi.
Arrivò il vino, Jack lo assaggiò e il cameriere ne versò un po’ a tutti e due.
«A Mary Pat.»
«A Mary Pat.» Fecero un brindisi e si sorrisero.
«Allora» chiese Jack, «cosa mi racconti della CIA?»
«Cosa vuoi sapere?»
«Più di quanto puoi dirmi.» Rifletté un istante. «Hai passato del tempo all’estero?»
«Intendi con l’Agenzia?»
«Sì.»
«È capitato.»
«Dove?» Ryan si fermò. «Scusami. Non puoi dirlo, vero?»
«No, mi dispiace» rispose lei alzando le spalle. Jack capì che, nonostante vivesse da analista dell’intelligence solo da un paio d’anni, i segreti non la mettevano a disagio.
«Parli qualche lingua straniera?»
«Sì.»
Jack stava per chiederle se anche quell’informazione fosse riservata, ma lei rispose spontaneamente.
«Livello tre di arabo egiziano, livello due di francese, livello uno di spagnolo. Nulla di straordinario.»
«Quanti livelli ci sono?»
«Scusami, Jack. Te l’ho detto che non esco molto.» Rise di se stessa. «Non mi capita spesso di parlare con persone che non lavorino per il governo. Viene chiamato quadro di riferimento ILR: Interagency Language Roundtable. Ci sono cinque livelli di padronanza della lingua. Il livello tre significa, essenzialmente, che sono in grado di sostenere una conversazione con un parlante madrelingua. Certo, commetto piccoli errori, ma questi non ostacolano la comprensione del mio ascoltatore.»
«E il livello uno?»
«Significa che sono una frana.» Rise ancora. «Cosa posso dirti? Ho imparato l’arabo vivendo al Cairo, e lo spagnolo al college. Non ho mai avuto necessità particolari di parlare una lingua straniera.»
«Al Cairo?»
«Sì. Mio padre era un ufficiale dell’Air Force; abbiamo passato cinque anni in Egitto quando ero alle superiori, e altri due in Pakistan.»
«Com’era?»
«Lo adoravo. È stata dura viaggiare tanto da bambina, ma non cambierei il mio passato per tutto l’oro del mondo. In più ho imparato l’arabo, e si è dimostrato molto utile.»
Jack annuì. «Per il tuo lavoro immagino di sì.» Gli piaceva quella ragazza. Non si dava delle arie, non provava né a sembrare eccessivamente sexy né una saputella. Di certo era molto intelligente, ma cercava di minimizzarlo.
Ed era molto sexy, in maniera del tutto spontanea, quasi inconsapevole.
Melanie sembrava riportare la conversazione su Jack, lui lo notò in più di un’occasione.
«Allora» disse la ragazza con un sorriso allegro. «Mi arrischierò ad affermare che non vivi in una minuscola dépendance grazie all’aiuto di una ex professoressa.»
«Ho un appartamento a Washington, vicino a dove lavoro. E vicino ai miei genitori, che vivono a Baltimora. E la tua famiglia, invece?»
Il cameriere portò le insalate, e Melanie iniziò a parlare del ristorante. Jack si chiese se fosse uno di quei tipi che avevano la tendenza a divagare durante le conversazioni, o se stesse cercando di evitare l’argomento. Non riuscì a capire, ma lasciò perdere.
Tornarono sul lavoro di Jack. Spiegò cosa faceva alla Hendley Associates in termini generali, nel modo più noioso possibile. Non erano bugie vere e proprie, ma la sua spiegazione era piena di lacune e segreti.
«Quindi» proseguì Melanie, «quando tuo padre sarà di nuovo eletto presidente, avrai una guardia del corpo che ti seguirà dovunque andrai. Ti causerà qualche problema in ufficio.»
Non puoi sapere quanto, pensò Jack. Sorrise. «Nulla a cui non sia abituato. Ho sempre stretto amicizia con i ragazzi che si occupavano della mia sicurezza.»
«Davvero? Non è stato vagamente soffocante?»
Jack avrebbe voluto fingersi disinvolto, ma cambiò idea. Lei gli stava ponendo una domanda sincera; meritava una risposta onesta. «In realtà sì. È stata dura. Non sono ansioso di tornare a quella situazione. Se mio padre vincerà le elezioni, parlerò con lui e con mia madre. Vivo una vita tranquilla. Rifiuterò la scorta.»
«Sarà prudente?»
«Sì, certo. Non ho nulla da temere.» Sorrise dietro il suo bicchiere di vino. «A voi della CIA non insegnano come uccidere un uomo con un cucchiaio?»
«Qualcosa del genere.»
«Fantastico. Potrai guardarmi tu le spalle.»
«Non potresti permetterti i miei servizi» ribatté lei con una risata.
La cena fu eccellente; la conversazione brillante. I discorsi scorrevano con naturalezza, eccetto quando Jack provava a chiedere qualcosa sulla sua famiglia. Al riguardo, Melanie aveva le labbra cucite come quando parlava della CIA.
All’uscita dal ristorante camminarono insieme fino a casa di Melanie. Erano le dieci passate; i pedoni in strada erano diminuiti e un vento freddo soffiava dal Potomac.
Jack la accompagnò fino al vialetto davanti alla porta del suo piccolo appartamento.
«È stata una bella serata» commentò Melanie.
«Anche per me. Possiamo vederci di nuovo, se vuoi.»
«Certo.» Arrivarono alla porta. «Ascolta, Jack. Meglio chiarirci subito. Non sono per i baci al primo appuntamento.»
Ryan sorrise. «Nemmeno io.» Le tese la mano. Lei la afferrò lentamente, attenta a non mostrare lo stupore e l’imbarazzo.
«Buonanotte. Ci sentiamo.»
«Spero di sì.»
La casa di Nigel Embling si trovava al centro di Peshawar, non lontano dall’imponente e antico Bala Hisar Fort che, con le sue mura fortificate alte trenta metri, dominava tutta la città e i dintorni.
Nelle strade ferveva l’attività, ma la casa di Embling era silenziosa e pulita, un’oasi idilliaca di piante e fiori, con il gorgoglio delle fontane nel cortile e l’odore di vecchi libri e cera per i mobili nello studio, molto britannico, del secondo piano.
Embling sedeva accanto a Driscoll, al grande tavolo dello studio. Di fronte a loro, il trentacinquenne maggiore Mohammed al Darkur indossava abiti civili occidentali: un paio di pantaloni sportivi marroni e una camicia nera. Era venuto da solo per incontrare una persona che immaginò essere un agente della CIA. Aveva fatto del suo meglio per capire se l’uomo presentatogli come «Sam» fosse un tipo affidabile, ma Driscoll aveva sviato le sue domande riguardo ad altri agenti della CIA in cui al Darkur si era imbattuto lavorando per l’ISI.
Questo depose a favore di Driscoll. La CIA, secondo al Darkur, era troppo favorevole ad alcuni elementi dell’intelligence pakistana… a quelli che lavoravano attivamente contro di loro, quanto meno. Per lui la CIA, e per estensione gli Stati Uniti, erano troppo ingenui e disposti a riporre la loro fiducia in chiunque sostenesse l’esistenza di valori condivisi tra le due organizzazioni.
Il fatto che Sam sembrasse lavorare al di fuori delle fila dei servizi segreti americani già radicati in Pakistan e paresse nutrire dei sospetti sullo stesso al Darkur, non faceva che aumentare la stima del maggiore pakistano verso quell’uomo.
«Ho fatto del mio meglio per trovare informazioni su questo Rehan. È un maledetto mistero» disse Embling.
Sam concordò. «Anche noi ci stiamo provando. È stato molto bravo a coprire le sue tracce nel corso della sua carriera. Sembrerebbe essersi semplicemente materializzato a un certo punto come ufficiale di alto livello dell’esercito, al servizio dell’ISI.»
«È molto strano per un membro delle forze della difesa pakistane. Di solito amano le cerimonie, essere fotografati e ricevere riconoscimenti per qualsiasi inezia. Hanno imparato da noi inglesi, e posso affermare, con una punta di orgoglio, che ci vantiamo dei nostri militari come nessun altro.»
«Nessuna foto di Rehan?»
«Qualcuna, ma di molti anni fa, quando era un giovane ufficiale. Per il resto è una stramaledetta ombra.»
«Ma non più. Cosa è cambiato?»
«È quello che Mohammed e io stiamo cercando di scoprire.»
«L’unica ragione a cui posso pensare è che si stia preparando per qualcosa di grosso» aggiunse al Darkur. «Tenente generale, capo dell’ISI, magari persino capo dell’esercito, un giorno. Credo stia lavorando a un colpo di Stato, ma di certo è troppo sconosciuto per prendere personalmente le redini del governo. Pare abbia trascorso tutta la sua carriera a fare la spia, il che è insolito per un ufficiale dell’esercito. In genere l’ISI manda il suo personale nell’esercito soltanto per qualche anno. Non sono spie, ma soldati professionisti. Io stesso sono stato in un commando del Settimo Battaglione, nello Special Services Group, prima di entrare nell’ISI. Ma nel caso di Riaz Rehan sembra essere accaduto l’esatto contrario. Ha trascorso qualche anno, stranamente, come tenente e capitano nell’esercito regolare, nel reggimento Azad Kashmir, ma da allora sembra aver ricoperto qualche ruolo nell’Inter-Services Intelligence, sebbene l’abbiano mantenuto segreto anche agli altri membri dell’ISI.»
«È un barbuto?» chiese Driscoll, riferendosi agli islamisti tra i loro ranghi.
«Posso soltanto supporlo. I suoi sostenitori a capo dell’esercito e dell’intelligence sono decisamente islamisti, sebbene Rehan non si faccia mai vedere nelle moschee, né compaia su alcuna lista di frequentatori degli incontri segreti dei barbuti. Ho avuto in custodia dei prigionieri dei gruppi jihadisti e li ho sottoposti a un duro interrogatorio al fine di scoprire se conoscessero Rehan della JIM. Sono certo che nessuno di loro lo conoscesse.»
Sam Driscoll sospirò. «Allora quale sarà il prossimo passo?»
Ora al Darkur si rallegrò un poco. «Ho due notizie. Su una di esse i suoi uomini potranno aiutarmi.»
«Fantastico.»
«Innanzitutto, secondo le mie fonti il generale Rehan, oltre all’ufficio nel nostro quartier generale di Islamabad, lavora anche in una casa sicura a Dubai.»
Driscoll alzò la testa. «Dubai?»
«Sì. È il fulcro finanziario del Medio Oriente, e il suo dipartimento in tutta probabilità tiene da quelle parti i conti per le missioni all’estero, ma questo in sé non sarebbe un buon motivo per stabilirsi lì. Penso che lui e il suo gruppo di impiegati di alto livello ci vadano per complottare contro lo stesso Pakistan.»
«Interessante.»
«A causa della mia posizione nel Joint Intelligence Bureau non ho la possibilità né le risorse per indagare su di lui fuori dai nostri confini. Magari la sua organizzazione, con il suo campo d’azione pressoché illimitato, potrebbe dare un’occhiata a cosa sta combinando a Dubai.»
«Trasmetterò l’informazione ai miei superiori, ma sono abbastanza sicuro che vorranno dare uno sguardo alla casa sicura.»
«Eccellente.»
«Accennava a un’altra notizia appresa di recente, giusto?»
«Di questo credo di potermi occupare personalmente. Sono venuto a conoscenza di un’operazione volta a coinvolgere il dipartimento di Rehan e la Rete Haqqani. Di certo ne ha sentito parlare…»
Sam annuì. «Jalaluddin Haqqani. Le sue forze controllano vasti tratti del confine tra Pakistan e Afghanistan. È legato ai talebani e il suo gruppo conta molte migliaia di membri; ha ucciso centinaia di nostri soldati e di autoctoni in Afghanistan con bombe, razzi e mortai, ha organizzato rapimenti a scopo di riscatto eccetera eccetera.»
Al Darkur annuì. «Jalaluddin è anziano, quindi al momento il comando è passato al figlio Siraj, ma per il resto le sue informazioni sono corrette. Ho in custodia un prigioniero, un corriere della Rete Haqqani, catturato a Peshawar dopo che aveva incontrato un tenente dell’ISI, noto sostenitore degli islamisti. Ai miei uomini, durante l’interrogatorio, ha raccontato che l’ISI sta lavorando con alcuni combattenti di Haqqani in un campo dalle parti di Miran Shah.»
«Lavorando su cosa?»
«Il corriere non lo sa, ma è sicuro che aspettino una forza straniera al campo; gli uomini dell’ISI e di Haqqani addestreranno gli esterni.»
«URC? Al-Qaeda?»
«Non lo sa. Io, però, voglio scoprire chi sono e cosa stanno facendo.»
«Come intende procedere?»
«Dopodomani andrò a vedere io stesso; sorveglierò la strada che conduce al campo. Naturalmente abbiamo una base a Miran Shah, ma la gente di Haqqani ne è al corrente. Di tanto in tanto lanciano un proiettile con un mortaio, ma per il resto si fanno gli affari propri. Ma abbiamo anche alcune case sicure in città, principalmente nel sud. Le forze di Siraj Haqqani ne conoscono alcune, che non usiamo più, ma i miei agenti hanno fortificato una casa sicura tra Boya e Miran Shah, vicino al luogo in cui il prigioniero dice che sia situato quel campo di addestramento.»
«Fantastico. Quando partiamo?»
«Partiamo, Sam?» chiese al Darfur sollevando le sopracciglia.
Embling intervenne. «Non sia sciocco, ragazzo.»
Sam alzò le spalle. «Vorrei vedere io stesso. Non è per malafede. Farò sapere alla mia organizzazione di Dubai, ma intanto io sono qui. Posso venire con lei, se me lo consente.»
«Non sarebbe prudente. Si tratta di Miran Shah: lì non ci sono americani, glielo garantisco. Mi dirigerò laggiù con una squadra ristretta di uomini dello Zarrar Special Service, particolarmente fidati. Se viene con noi, metterà di certo in pericolo anche me e i miei uomini, per cui non potremo proteggerla.»
Quest’affermazione fece sorridere Driscoll. «Per me va bene.»
A Embling la situazione non piaceva per niente, ma Sam sembrava deciso.
Venti minuti più tardi, Driscoll sedeva nella fresca veranda sul tetto della casa di Embling. In una mano teneva una tazza di tè; nell’altra un telefono satellitare. L’apparecchio, come tutti i telefoni della Hendley Associates, era dotato di un chip che utilizzava una tecnologia crittografica della NSA di tipo 1 che lo rendeva sicuro. Soltanto la persona dall’altro capo del filo sarebbe stata in grado di sentirlo.
Fu Sam Granger a rispondere.
«Sam, sono Sam.»
«Come va?»
«Il contatto dell’ISI sembra solido. Non ti prometto nulla, ma potremmo avere una pista su Rehan e sulle sue attività.» Driscoll raccontò della casa sicura di Dubai.
«Incredibile, se fosse vero.»
«Potrebbe valere la pena di mandare qualcuno a dare un’occhiata» suggerì Sam Driscoll.
«Non vuoi andare tu stesso?» chiese Granger un po’ sorpreso.
«Io andrò con il maggiore e una squadra dei suoi dello Special Services Group nel Waziristan del nord per una piccola RS.»
«RS?»
«Ricognizione strategica.»
«Nel territorio di Haqqani?»
«Esatto. Ma sarò tra amici. Non dovrebbero esserci problemi.»
Ci fu una momentanea interruzione nella connessione. «Sam, sei tu a correre il rischio e so che non sei uno sconsiderato. Tuttavia… sarai nella tana del lupo, per così dire, te ne rendi conto?»
«Sarò al sicuro, con gli uomini dello SSG intorno a me. Sembrano sapere quello che fanno. In più, dobbiamo scoprire cosa sta combinando l’ISI in quel campo. Qualsiasi prova che Rehan o i suoi uomini si trovino lì sarà di cruciale importanza se più avanti dovremo passare le informazioni su quel tipo all’intelligence. Farò del mio meglio per scattare delle foto e inviarvele.»
«Non so se Hendley ne sarà felice» rispose Granger.
«Chiederemo perdono invece di un’autorizzazione.»
«Come dicevo, la pelle è la tua.»
«Ricevuto. Ti contatterò quando torneremo a Peshawar. Non allarmarti se non mi sentirai per un po’; potrebbe volerci una settimana o due.»
«Capisco. Buona fortuna.»
La città di Miran Shah è la capitale del Waziristan del nord, situato all’interno delle FATA, le aree tribali di amministrazione federale nel Pakistan occidentale, non lontano dal confine afghano. La zona non è sotto il controllo del governo pakistano di Islamabad, ma c’è una piccola base dell’esercito, spesso tartassata da ripetuti attacchi.
La città e la regione, incluse le aree oltre il labile confine afghano verso ovest, sono sotto il controllo della Rete Haqqani, un potente gruppo di ribelli stretti alleati dei talebani.
Jalaluddin Haqqani combatté i russi in Afghanistan negli anni Ottanta, acquisendo un potere e un’importanza sempre maggiori. I figli seguirono le orme paterne; avevano voce in capitolo in pratica in ogni aspetto della vita del Waziristan del nord, sempre che non fossero eliminati dai veicoli americani telecomandati che pattugliavano il cielo, aspettando l’autorizzazione per il lancio di un missile.
Il loro potere internazionale, le decine di campi segreti di insorti e gli stretti legami con l’intelligence pakistana avevano reso la famiglia Haqqani un partner naturale per Riaz Rehan nel corso degli anni. Aveva usato il loro territorio e i loro insediamenti per addestrare combattenti e agenti per le missioni in India e in Afghanistan, e li aveva contattati di nuovo di recente, richiedendo assistenza per l’addestramento di una grande cellula di combattenti stranieri per una missione.
La leadership di Haqqani aveva accettato la richiesta della Joint Intelligence Miscellaneous. Lo stesso Rehan si era recato sul posto per supervisionare le fasi iniziali dell’addestramento.
Sebbene non avesse nessun background militare di alcun tipo, l’imprenditore spaziale Georgij Safronov era il leader dell’unità delle forze della Jamaat Shariat che erano arrivate al campo di Haqqani vicino a Boya, a ovest di Miran Shah, nella terza settimana di ottobre. Con lui c’era l’uomo che conosceva come generale Ijaz, insieme a un’unità di cinquantacinque ribelli daghestani. Il nutrito gruppo di stranieri ricevette l’equipaggiamento dalle forze di Haqqani e si stabilì in una grande caverna scavata nel fianco di una collina.
La maggior parte dell’addestramento ebbe luogo all’interno delle caverne artificiali e sotto tetti di lamiera ondulata dipinti del colore della terra e dei campi per non attirare l’attenzione degli aeromobili a pilotaggio remoto. Alcuni esercizi di tattica di squadra, tuttavia, si svolgevano nei campi e sulle colline. Gli UAV non erano invisibili; sentinelle con un addestramento particolare erano appostate per avvistare «occhi americani nel cielo». A ogni modo quei veicoli erano piuttosto furtivi, per cui lo stesso Rehan aveva ordinato alla Rete Haqqani di attribuire un’assoluta priorità non alla qualità dell’addestramento degli stranieri ma al mantenimento della sicurezza di tutta l’operazione.
A Rehan non interessava che gli insorti daghestani avessero il talento necessario per impadronirsi e gestire un impianto per i lanci spaziali in Kazakistan. No, il suo unico interesse era la loro abilità nel portare a termine una missione in Pakistan di cui avrebbero avuto bisogno per acquistare il controllo delle due armi nucleari. Se avessero perso la metà degli uomini nel corso della missione, a Rehan non sarebbe importato per nulla.
La sua unica preoccupazione era che il mondo sapesse che le bombe nucleari erano state rubate sotto il naso dei pakistani da terroristi stranieri. Era certo che ciò avrebbe condotto alla disintegrazione del governo pakistano nel giro di qualche giorno o al massimo alcune settimane.
La Rete Haqqani aveva preso sul serio l’ordine di Rehan di mantenere una strettissima riservatezza. Avevano inviato spie nei villaggi e nelle periferie tra Miran Shah e Boya, tenendo d’occhio chiunque fosse interessato agli spostamenti di uomini e materiali. Nel Waziristan del nord non accadevano molte cose senza che Haqqani lo sapesse, ma ora in pratica nulla poteva sfuggire alla loro potente organizzazione.
I pashtun trovarono che i combattenti daghestani fossero piuttosto abili con le loro armi ed estremamente motivati. Ma mancava loro la coesione, una caratteristica che la gente di Haqqani aveva sviluppato per necessità nei dieci anni in cui aveva combattuto le forze della coalizione oltre il confine.
L’unico membro dell’unità incapace di usare un fucile e di condurre la minima attività fisica era il loro capo. Safronov aveva adottato il nome di battaglia Magomed Dagestani, Mohammed il daghestano, ma nonostante quello gli mancava qualsiasi tipo di abilità marziale. Tuttavia era intelligente e motivato ad apprendere: pian piano, i talebani gli insegnarono a usare pistole, fucili, lanciatori di granate e pugnali. Al termine della prima settimana aveva già fatto molti progressi.
Rehan entrava e usciva dal campo, dividendosi tra la casa a Dubai, l’ufficio di Islamabad e le caverne. Per tutto il tempo, il generale incoraggiò i daghestani ad affrontare il duro lavoro che li aspettava e Safronov a farsi forza e a impegnarsi sempre più nell’azione.