La luce intermittente che indicava una chiamata in arrivo dall’unità di crisi lampeggiava ormai da più di dieci minuti.
Safronov guardò il telegiornale di Mosca su uno dei monitor principali; gli altri astanti, complici involontari, sedevano rapiti.
Georgij aveva sperato in un’esplosione più spettacolare. Sapeva che il sito di lancio 109 conteneva il Dnepr su cui era caricato il satellite e non una delle due bombe, ma aveva preso di mira il magazzino di carburante della raffineria di Mosca, convinto di provocare un’esplosione e un incendio molto più gravi. Il carico aveva mancato l’obiettivo soltanto di duecentocinquanta metri, ma Safronov sentiva di aver segnato un punto a suo favore.
Dopo aver seguito il notiziario per qualche altro secondo sollevò infine l’auricolare del pannello di controllo, lo indossò e accettò la chiamata. «Da.»
«Qui è il presidente Ryčkov.»
Georgij rispose con voce allegra. «Buongiorno. Forse non si ricorda di me, ci siamo incontrati l’anno scorso al Bolshoi. Com’è il tempo a Mosca?»
Ci fu una lunga pausa prima della risposta del presidente, secca ma senza riuscire a nascondere una certa ansia. «Il suo attacco non era necessario. Sappiamo che ha le possibilità tecniche per mettere in atto le sue minacce. Siamo al corrente del fatto che è in possesso delle armi nucleari.»
«È stata una punizione per il vostro attacco alla base. Se ne subiremo un altro… be’, presidente, non ho più missili cinetici. Gli altri due Dnepr a mia disposizione trasportano testate nucleari.»
«Non deve dimostrare nulla. Dobbiamo solo negoziare, è lei ad avere il coltello dalla parte del manico.»
Safronov gridò nell’auricolare. «Non c’è niente da negoziare qui! Quando potrò parlare con il comandante Nabiyev?»
Il presidente russo rispose con voce stanca. «Ho già dato disposizioni. La richiameremo più tardi, in mattinata, e potrà parlare con il prigioniero. Nel frattempo, ho ordinato a tutte le forze di sicurezza di farsi indietro.»
«Molto bene. Noi siamo pronti a respingere di nuovo i vostri uomini, ma non credo che voi possiate permettervi di perdere cinque milioni di moscoviti.»
Non era così che Ed Kealty aveva immaginato di trascorrere il suo tempo a solo un mese dalla fine del suo mandato, ma incontrò i membri del suo gabinetto alle nove di sera a Washington, nella Stanza Ovale.
C’era il direttore della CIA Scott Kilborn, insieme ad Alden, il suo vice. C’era anche Wesley McMullen, il giovane capo dello staff di Kealty, così come il segretario della Difesa, il segretario di Stato, il direttore dell’intelligence nazionale, il capo dello stato maggiore congiunto e il consigliere per la sicurezza nazionale.
Kilborn diede una spiegazione dettagliata della situazione in Kazakistan, incluso quanto la CIA sapeva riguardo al tentativo di irruzione nell’impianto di Dnepr condotto dalle forze speciali russe. Poi il consigliere informò il presidente del lancio di Baikonur e del rogo della raffineria a Mosca.
Mentre erano lì riuniti chiamò il presidente Ryčkov. Kealty gli parlò con l’aiuto del traduttore per circa dieci minuti, mentre McMullen ascoltava, prendendo appunti. La telefonata fu amichevole, ma Kealty spiegò che avrebbe dovuto discutere alcune questioni con i suoi uomini prima di impegnarsi a soddisfare le richieste di Ryčkov.
Quando riagganciò, il suo contegno educato scomparve completamente. «Quel bastardo ci chiede di inviare una squadra dei SEAL Team 6 o la Delta Force! Chi diavolo crede di essere, per richiedere specifiche unità militari?»
Wes McMullen sedeva vicino al telefono con il taccuino sulle ginocchia. «Signore, evidentemente conosce le nostre risorse antiterrorismo. Non credo ci sia malafede nella sua richiesta.»
Il presidente replicò: «Vuole un appoggio politico in caso la faccenda finisca male. Vuole poter dire alla sua gente che si fidava dell’America e Ed Kealty gli aveva promesso un lieto fine, ma abbiamo fallito».
Gli uomini nella stanza avrebbero fatto parte dello staff di Kealty almeno per un’altra settimana. Ma ognuno di loro capiva che il presidente stava soltanto tentando di eludere il problema. Qualcuno si rese conto che era sempre stato così.
Scott Kilborn intervenne: «Signor presidente, con tutto il rispetto, devo dissentire. Ryčkov vuole soltanto impedire che due bombe da venti chilotoni radano al suolo Mosca e San Pietroburgo. Ciò potrebbe uccidere…». Kilborn guardò il capo dello stato maggiore congiunto. «Cosa dicono gli esperti?»
«Potrebbe uccidere sul colpo più di un milione di persone. Più altri due milioni nel giro di una settimana a causa delle ustioni e della prevedibile disfunzione delle infrastrutture e della centrale elettrica. E Dio solo sa quanti altri. Probabilmente tra i sette e i dieci milioni in totale.»
Kealty brontolò; si chinò in avanti sulla scrivania, con la testa tra le mani. «Opzioni?»
«Iniziamo a mandare gli uomini» suggerì il segretario di Stato. «Possiamo dare o non dare l’autorizzazione ad agire in un secondo momento.»
Kealty scosse la testa. «Non voglio impegnarmi a fare nulla. Non intendo mandare i nostri uomini in quel vespaio così su due piedi. I russi non sono riusciti a risolvere la situazione, pur conoscendo bene il luogo. Chi ci garantisce che potremo fare di meglio? Datemi qualche altra idea. Forza, gente!»
«Consulenti» azzardò Alden.
«Consulenti? In che senso?»
«Se mandiamo un paio di uomini del Comando Congiunto delle Operazioni Speciali laggiù in qualità di consulenti per le Specnaz, potremo offrire aiuto in segreto, senza usare le nostre risorse per l’attacco.»
A Kealty l’idea piaceva, fu subito chiaro a tutti.
Il capo dello stato maggiore congiunto, un generale dell’esercito con esperienza di operazioni speciali nei Ranger, intervenne: «Signor presidente, la situazione è molto instabile. Se non mandiamo laggiù agenti del JSOC, pronti ad agire, tanto vale non mandare nessuno».
Kealty sedeva alla scrivania, pensieroso. Guardò il segretario della Difesa. «Ci sono possibilità che lancino un missile contro di noi?»
Il segretario alzò le mani. «Non ci stanno minacciando. Il militante daghestano ha problemi con la Russia. Non credo che gli Stati Uniti possano essere un obiettivo.»
Kealty annuì, poi sbatté il pugno sulla scrivania. «No! Non uscirò dalla porta della Stanza Ovale lasciando in eredità questo casino.» Si alzò. «Dite al presidente Ryčkov che manderemo dei consulenti. È tutto!»
«Signore, mi permetto di farle notare che alla base ci sono sei americani in ostaggio» gli ricordò McMullen.
«E riterrò Ryčkov personalmente responsabile della loro sicurezza. Dite ai nostri consulenti che ogni missione a cui parteciperanno dovrà avere come obiettivo primario far uscire i nostri connazionali vivi da lì.»
Il segretario della Difesa provò a intervenire: «Signore, con il dovuto rispetto…».
Ma Kealty si alzò e si diresse verso la porta. «Buonanotte, signore e signori.»
Melanie richiamò Jack alle 13.30. «Ehi, mi dispiace moltissimo, ma qui oggi c’è un caos infernale; possiamo rimandare l’appuntamento di stasera?»
«Okay. Se vuoi però potrei portarti del cibo cinese più tardi. Non dobbiamo uscire per forza. Mi piacerebbe vederti.»
«Sarebbe fantastico, ma non so se e quando uscirò da qui stasera. Puoi immaginare. Stanno succedendo molte cose in questi giorni.»
«Sì, capisco. D’accordo. Tieni duro, okay?»
«Okay. Grazie, Jack.» Melanie riagganciò. Odiava disdire gli appuntamenti con Ryan, ma avrebbe avuto più lavoro da fare di quanto ne avrebbe potuto svolgere in una serata. I dati da esaminare sul viaggio di Rehan in…
Il telefono sulla sua scrivania squillò e lei si affrettò a rispondere.
Novanta secondi più tardi, Melanie si affacciò nell’ufficio di Mary Pat. «Devo uscire per un momento. Starò via una mezz’ora, credo. Posso portarti qualcosa?»
La Foley si limitò a scuotere la testa. Fece per dire qualcosa, ma le squillò il telefono.
La Kraft camminò fino alla fermata di fronte all’edificio e prese l’autobus per Tysons Corner, ma scese a Old Meadow. Si diresse verso lo Scott’s Run Community Park, avvicinandosi a delle panchine che sovrastavano il panorama coperto di neve e ghiaccio. Gli alberi nudi erano scossi dal vento gelido. Si strinse nel cappotto.
Si sedette.
Il primo uomo si avvicinò un minuto più tardi. Era alto e di colore; indossava un lungo impermeabile grigio sopra il completo scuro, ma lo teneva aperto come se fosse insensibile al freddo.
Era una guardia del corpo; la squadrò e poi parlò in un auricolare.
Sentì una macchina fermarsi nel parcheggio dietro di lei, ma non si voltò. Continuò a guardare gli alberi.
L’uomo della sicurezza si voltò, si allontanò lungo il sentiero e poi rimase a sorvegliare la strada.
Il vicedirettore della CIA Charles Sumner Alden comparve alle sue spalle e sedette accanto a lei. Non la guardò. Osservò invece un campo da baseball coperto di neve. «Mi sto sforzando di capire, signorina Kraft. Pensavo di essere stato abbastanza chiaro quando le ho dato le mie istruzioni. Mi pareva avessimo un accordo. Ma oggi ha detto a Junior che stasera non ha tempo di incontrarlo. Si fidi di me, signorina. Di tempo ne ha.»
Melanie strinse i denti. «Davvero, signore? Sorvegliate il telefono di un’analista del NCTC? Siete messi così male?»
«Sì, per dire la verità lo siamo.»
«Riguardo a cosa?»
«Jack Ryan Junior.»
Melanie sospirò, emettendo una nuvola di vapore.
Alden cambiò leggermente il tono di voce. Divenne meno mellifluo e più paterno. «Pensavo di averle spiegato di cosa avessi bisogno.»
«Ho fatto quanto mi ha chiesto.»
«Le ho chiesto di portarmi dei risultati. Vada a cena con lui stasera. Scopra cosa sa di Clark e del rapporto di suo padre con quell’uomo.»
«Sì, signore» rispose lei.
Ora Alden si fece ancora più dolce. «Voleva aiutarci. Qualcosa è cambiato?»
«No di certo. Mi ha detto di aver saputo che Clark lavorava con Ryan. Voleva che trovassi una prova del lavoro di Jack alla Hendley Associates.»
«E…?» chiese lui.
«E lei è il vicedirettore della CIA. Naturalmente il mio lavoro è eseguire gli ordini.»
«Jack Junior è più vicino a Clark di quanto voglia ammettere. Lo sappiamo. Abbiamo qualcuno all’Agenzia che può collegare Clark e Chavez alla Hendley Associates, l’azienda del suo fidanzato. E se Clark e Chavez lavorano lì, è sicuro come la morte che si occupano di qualcos’altro e che l’arbitraggio e il trading sono solo una copertura. Voglio scoprire cosa sa Jack. E voglio scoprirlo adesso.»
«Sì, signore» ripeté Melanie.
«Senta. Lei ha davanti a sé un futuro luminoso. Io potrei lasciare il mio posto tra poco, ma la CIA non bada alle nomine politiche. È molto attenta al lavoro delle sue truppe. Le alte sfere della CIA sanno cosa lei stia facendo e apprezzano il suo impegno. Non possiamo permettere che vengano commesse azioni criminali in nome della sicurezza nazionale. Lo sa. Per cui, scavi più a fondo.» Tacque. «Non deve farlo per me. Lo faccia per il popolo americano.» Poi sospirò. «Lo faccia per il suo Paese.»
Melanie annuì. Il suo sguardo era perso nel vuoto.
Alden si alzò, si voltò e guardò la venticinquenne analista. «Jack vuole vederla stasera. Faccia in modo di accontentarlo.» Si allontanò nella neve; la guardia del corpo lo riaccompagnò al parcheggio.
Melanie tornò a piedi alla fermata dell’autobus e tirò fuori il telefono dalla borsa. Compose il numero di Jack.
«Pronto?»
«Ciao, Jack.»
«Ehi.»
«Senti, mi dispiace per prima. Ero stressata per il lavoro.»
«Credimi, ti capisco.»
«Per dirti la verità, avrei bisogno di uscire di qui per un po’. Perché non vieni da me stasera? Preparerò la cena, possiamo stare un po’ insieme e guardare un film.»
La pausa fu lunga, interrotta soltanto quando Ryan si schiarì la gola.
«Qualcosa non va?»
«No. Mi piacerebbe molto, Melanie, ma c’è stato un imprevisto.»
«Negli ultimi trenta minuti?»
«Sì. Devo andare fuori città. Infatti proprio in questo momento sono diretto in aeroporto.»
«All’aeroporto» ripeté lei incredula.
«Sì, un piccolo viaggio in Svizzera. Il mio capo vuole farmi incontrare dei banchieri. Dovrò portarli a cena e strappare loro qualche segreto, immagino. Dovrei stare via soltanto un paio di giorni.»
Melanie non rispose.
«Mi dispiace. Cena e film sarebbero stati una grande idea. Possiamo recuperare al mio ritorno.»
«Certo, Jack» replicò la ragazza.
Melanie scese dall’autobus dieci minuti più tardi e tornò alla centrale operativa. Appena uscì dall’ascensore vide Mary Pat alla sua scrivania, che le stava lasciando un messaggio. La Foley la vide avvicinarsi e le fece cenno di dirigersi nel suo ufficio.
Melanie era nervosa. Sapeva dell’incontro con Alden? Sapeva che il vicedirettore della CIA la stava usando per spiare l’amico di Mary Pat, Jack Ryan Junior, per capire quale fosse il suo rapporto professionale con John Clark?
«Cosa succede?» chiese al suo capo.
«Mentre eri via ci sono stati importanti sviluppi.»
«Davvero?» Melanie deglutì, in ansia.
«Una fonte della CIA a Lahore ha identificato Riaz Rehan. È atterrato all’aeroporto con le sue guardie del corpo e il secondo in comando.»
Melanie pensò all’improvviso viaggio di Ryan. «Davvero. Quando è successo?»
«Un’ora fa» rispose la Foley.
In un attimo, Melanie capì. Non sapeva come lo avesse scoperto, perché di certo non faceva parte della CIA. Ma in qualche modo Jack Ryan Junior era stato avvertito e, per qualche ragione, in quel momento era in viaggio per Lahore.