Si può dire che allora di fiera ci siamo riempiti gli occhi! E riempita anche la testa! Bim e bum! E ancora bum! E ti faccio girare! E ti porto via! E ti butto per aria! Ed eccoci tutti nella mischia, con le luci, il baccano e tutto! E sotto con la destrezza e l’audacia e lo scherzo! Zim! Ciascuno cercava nel suo soprabito di sembrare superiore, d’aver l’aria spigliata, un po’ distaccata comunque per far vedere alla gente che di solito si divertiva altrove, in posti molto più costosi, expensifs come si dice in inglese.

Di scaltri, di allegri mattacchioni ci davamo l’aria, malgrado la bisa, umiliante anche quella e la paura deprimente d essere troppo generosi con le distrazioni e di doverlo rimpiangere il giorno dopo, forse perfino per un’intera settimana.

Un gran rutto di musica sale dalla giostra. Non riesce a vomitarlo il suo valzer del Faust la giostra, ma fa tutto quel che può. Le scende giù il valzer e risale ancora intorno al soffitto rotondo che gira vorticosamente con le sue mille torte di luce a lampadine. Non è comodo. Soffre la musica nel tubo del suo ventre l’organo. Vuoi un torrone? O preferisci un cartoccio? Scegli tu!...

In mezzo a noi, al tiro, c’è Madelon, cappello rialzato sulla fronte, la più abile. “Guarda! ecco che ti fa lei a Robinson. Mica tremo io! E con quello che abbiam bevuto!” è per darvi il tono esatto della conversazione. Uscivamo dunque dal ristorante. “Ancora uno!” Madelon l’ha vinta la bottiglia di champagne! “Pim e pum! Centro!” Le propongo allora una grossa scommessa, che lei non mi acchiapperà all’autodromo. “Scommettiamo!” risponde lei tutta gasata. “A ciascuno la sua!” E hop! Ero contento che avesse accettato. Era un modo per avvicinarmi a lei. Sophie non era gelosa. Aveva le sue ragioni.

Robinson sale dunque dietro con Madelon su un sedile e io su un altro davanti con Sophie, e ci sbattiamo una serie di collisioni tremende! E io ti sconquasso! E io ti tampono! Ma vedo sùbito che non le piace essere sbatacchiata a Madelon. Nemmeno a Léon d’altronde, gli piace più ‘sta cosa. Si può dire che non è a suo agio con noi. Passando, mentre stiamo attaccati ai mancorrenti, dei marinaretti si mettono a palparci con forza, uomini e donne, e ci fanno proposte. Battiamo i denti. Ci difendiamo. Ridiamo. Ne arriva da ogni parte di gente che tocca e sotto con la musica e lo slancio e la cadenza! Ci prendiamo in quelle specie di botti a rotelle tante di quelle scosse che ogni volta che ci incorniamo gli occhi ci escono dalle orbite. La gioia insomma! La violenza per scherzo. Tutta la tastiera dei piaceri. Volevo proprio rimettermi con lei Madelon prima di lasciare la fiera. Ci tengo, ma lei non risponde per niente ai miei approcci. No, sicuramente. Mi tiene perfino il broncio. Mi tiene a distanza. Rimango perplesso. Le torna a venire il cattivo umore. Mi aspettavo di meglio. Anche nel fisico d’altronde lei è cambiata, in tutto.

Noto che a fianco di Sophie ci perde, è smorta. La gentilezza le stava meglio, ma si direbbe che lei sa adesso delle cose superiori. Questo mi irrita. La riprenderei volentieri a schiaffi, per vedere se tornerebbe indietro, o altrimenti me lo dica quello che lei sa di superiore, a me. Ma sorridere! Siamo alla fiera, non è che si sta a piagnucolare! Bisogna far festa!

Ha trovato lavoro da una zia, racconta lei a Sophie, dopo, mentre camminiamo. Rue du Rocher, una zia che fa corsetti. Bisogna pur crederle.

Non era difficile rendersi conto da quel momento che quanto a riconciliazione era un incontro mancato. E anche per la mia combinazione, era andato a vuoto. Un vero fallimento.

Avevamo avuto torto a cercare di rivederci. Sophie, lei, non capiva ancora bene la situazione. Lei non capiva che col solo rivederci le cose si stavano complicando... Robinson avrebbe dovuto dirmelo, lui, avvertirmi, che lei era cocciuta fino a quel punto... Era un peccato! Bene! Zim! Zim! Sempre e comunque! E avanti col “Caterpillar”! come lo chiamano. Sono io che propongo, io che pago, solo per avvicinarmi una volta di più a Madelon. Ma lei si defila costantemente, mi evita, approfitta della folla per saltare su un’altra pedana, davanti, con Robinson, son servito. Onde e risucchi d’oscurità ci frastornano. Niente da fare, concludo a bassa voce io. E Sophie alla fine la pensa come me. Capisce che in tutto quello ero stato ancora vittima della mia immaginazione sporcacciona. “Vedi! Lei si è seccata! Credo che faremmo meglio a lasciarli tranquilli adesso... Noi, potremmo forse andare a fare un giro allo Chabanais prima di tornare...” Era una proposta che le piaceva molto a Sophie, perché aveva sentito parlare un sacco di volte dello Chabanais quando stava ancora a Praga e non chiedeva di meglio che provarlo adesso lo Chabanais per poter giudicare lei stessa. Ma calcolammo che sarebbe costato troppo caro lo Chabanais per i soldi che ci eravamo portati dietro. Ci è dunque toccato interessarci di nuovo alla fiera.

Robinson mentre eravamo nel Caterpillar doveva aver avuto una scena con Madelon. Scesero assolutamente sconvolti tutti e due dalla giostra. Decisamente, lei quella sera era da prendere con le molle. Per calmare e sistemare le cose, proposi un’attrazione molto assorbente, una gara di pesca al collo delle bottiglie. Madelon ci si mise immusonita. Ci vinse tuttavia tutto quello che voleva. Arrivava con l’anello giusto sopra il tappo e te lo infilava al momento buono! Là! Clic! ed era fatta. L’uomo del baraccone ci capiva più niente. Le consegnò come premio “una mezza di Gran-Duc de Malvoison”. Per dire quanto era abile, ma lei non era soddisfatta lo stesso. “Mica me la bevo...” ci ha annunciato sùbito... “È di quello cattivo...” è Robinson che se l’è stappata per berla. Hop! A tutta canna per giunta! Curioso da parte sua, perché non beveva praticamente mai.

Passiamo dopo quello davanti al tirassegno. Pan! Pan! Ci scanniamo tutti sopra con palle pesanti. Il triste è che io non sono tanto bravo... Mi congratulo con Robinson. Mi batte a qualsiasi gioco anche lui. Ma non lo fa nemmeno sorridere, la sua destrezza. Si direbbe che li abbiamo proprio trascinati tutti e due in un’autentica corvè. Nessun modo di rianimarli, di farli sorridere. “È a una festa che siamo!” urlo io, per una volta ero a corto d’invenzioni.

Ma non gli faceva niente che stessi a spronarli e a ripetergli quelle cose nelle orecchie. Non mi ascoltavano. “E la gioventù allora? gli chiesi allora. Cosa ne abbiamo fatto?... Dunque non si sa più divertire la gioventù? Cosa dovrei dire io che ci ho dieci cocuzze più di voialtri? Bella mia!” Mi guardavano allora, Madelon e lui, come se si fossero trovati davanti un drogato, uno scoppiato, un balengo, e non valesse nemmeno più la pena rispondermi... Come se non valesse più la pena cercare perfino di parlarmi, che io capirei niente di sicuro di quel che loro possono spiegarmi... Niente di niente... Hanno forse ragione loro? mi son detto io allora e ho guardato inquieto, tutt’intorno a noi, l’altra gente.

Ma facevano quel che c’era bisogno, gli altri per divertirsi, non erano là come noi a farsi delle seghe con dei dispiaceri da due lire. Proprio per niente! Ci davano dentro loro, quelli della fiera! Per un franco qui!... Là per cinquanta centesimi!... Luci... Imbonimenti, musica e caramelle... Come mosche s’agitavano loro con perfino in più le loro piccole larve tra le braccia, belle livide, terrei bebè, che sparivano nella troppa luce a forza d’esser pallidi. Soltanto un po’ di rosa intorno al naso gli restava ai bebè nel posto dei raffreddori e dei baci.

In mezzo a tutti gli stand, l’ho ben riconosciuto sùbito passando il “Tiro delle Nazioni”, un ricordo, ho notato niente negli altri. Ecco quindici anni - mi son detto, tutti miei. - Ecco quindici anni che se ne son passati... Una frana! Ne abbiamo perso di compagni per strada! Non avrei creduto che sarebbe mai uscito anche lui dal fango che se lo teneva laggiù a Saint-Cloud il “Tiro delle Nazioni”... Ma era ben rimpannucciato, quasi nuovo insomma adesso, con la musica e tutto. Niente da dire. Ci tiravano dentro a tutto bersaglio. Lavora sempre un Tiro. La pallina era tornata lì anche quella come me, in mezzo, in fondo al quasi niente, a saltellare. Faceva due franchi. Passammo oltre, avevamo troppo freddo per provare, era meglio camminare. Ma non era perché mancassimo di soldi, ne avevamo ancora piene le tasche di monete che facevano rumore, la musichetta della tasca.

Avrei tentato qualunque cosa, in quel momento solo per cambiarci le idee, ma nessuno ci metteva del suo. Se Parapine fosse stato con noi, sarebbe stato ancor peggio di sicuro, triste com’era lui quando c’era gente. Per fortuna, è restato a montar la guardia all’Istituto. Per conto mio, ero molto pentito d’essere venuto. Madelon si mise allora a ridere lo stesso, ma non era niente divertente il suo riso. Robinson sghignazzava al suo fianco perché non sapeva che altro fare. Sophie di colpo, s’è messa a farci delle battute. Eravamo a posto.

Mentre passavamo davanti alla baracca del fotografo, ci ha beccato l’artista, esitanti. Non ci tenevamo affatto noi a farci la sua foto, tranne Sophie forse. Ma eccoci esposti lo stesso al suo apparecchio a furia di tentennare davanti alla porta. Ci sottomettiamo ai suoi ordini strascicati, là, sulla passerella in cartone che aveva costruito lui stesso, d’un presunto piroscafo La Belle-France. Stava scritto su dei finti salvagente. Siamo rimasti così per un bel po’ con gli occhi dritti davanti a noi a sfidare l’avvenire. Altri clienti attendevano impazienti che noi scendessimo dalla passerella e già si vendicavano d’aspettare trovandoci loffi e ce lo dicevano in più, a voce alta.

Se ne approfittavano che non potevamo muovere. Ma Madelon, lei, non aveva paura, li ha insultati di rimando con tutto l’accento del Midi. Quello si sentiva bene. Era bella forte come risposta.

Magnesio. Strizziamo tutti gli occhi. Una foto ciascuno. Siamo più brutti di prima. Piove attraverso la tela. Abbiamo i piedi a pezzi sotto, per la stanchezza, tutti gelati. Il vento mentre eravamo in posa ci ha scoperto dei buchi dappertutto, perfino il soprabito finiva che era come non ci fosse.

Abbiamo dovuto ricominciare a passeggiare fra le baracche. Non osavo proporre di tornare a Vigny. Era troppo presto. L’organo sentimentale della giostra approfitta che uno già stava a battere i denti per dargli ancora di più sui nervi. Sta a scherzare sul fallimento del mondo intero, lo strumento. Ci urla sopra che è uno strazio in mezzo agli zùfoli argentati, l’aria va a morire nella notte contigua, attraverso le strade pisciose che scendono dalle Buttes.

Le servotte della Bretagna tossiscono molto più dell’inverno scorso è vero, quando erano appena arrivate a Parigi. Sono le loro cosce screziate di verde e d’azzurro che decorano, come possono, i finimenti dei cavalli di legno. I ragazzi dell’Alvernia che pagano i giri per loro, prudenti titolari d’un impiego alle Poste, se le scopano solo col guanto, si sa. Ci tengono mica a pigliarselo due volte. Si dimenano le serve aspettando l’amore nel fracasso sconciamente melodioso della giostra. Un po’ di nausea ce l’hanno, ma posano lo stesso a sei gradi di freddo, perché è il momento supremo, il momento di sperimentare la propria gioventù sull’amante definitivo che forse è là, già conquistato, rannicchiato tra i coglioni di quella folla intirizzita. Non osa ancora l’Amore... Eppure tutto succede come al cinema e la felicità insieme. Che vada matto per te una sola sera e non ti lascerà mai più quel figlio di padroni... S’è già visto, può bastare. D’altra parte lui si presenta bene, d’altra parte lui è bello, d’altra parte lui è ricco.

Nel chiosco accanto vicino al metrò la donna che vende se ne frega dell’avvenire, si gratta la sua vecchia congiuntivite e se la infetta con le unghie. È un piacere anche quello, oscuro e costa niente. Sono sei anni che le dura quest’occhio e che le prude sempre più.

I passanti a mucchio, raggruppati da un malessere freddo, si pigiano fino a liquefarsi intorno alla lotteria. Senza arrivarci. Graticola di sederi. Allora trottano in fretta e zompano per scaldarsi sul viluppo di folla che fa la gente di fronte, davanti al vitello a due teste.

Protetto dal vespasiano, un ragazzino che la disoccupazione aspetta al varco sta trattando il prezzo con una coppia di provincia rossa per l’emozione. La guardia della buoncostume ha capito benissimo il combino, ma se ne frega, il suo bersaglio adesso è l’uscita del caffè Miseux. È una settimana che lo punta il caffè Miseux. La cosa può succedere solo dal tabacchino o nel retrobottega del libraio porno di fianco. In ogni caso è molto che l’hanno segnalato. Uno dei due procura, a quel che raccontano, delle minorenni che fanno finta di vendere fiori. Altre lettere anonime. L’uomo delle caldarroste all’angolo fa anche lui il soffia, per conto suo. È obbligato d’altronde. Tutto quello che sta sul marciapiede appartiene alla Polizia.

La specie di mitragliatrice che si sente rabbiosa nell’aria da quella parte, a raffiche, è solo la moto del tizio del “Disco della morte”. Un “evaso” dicono, ma non è sicuro. In ogni caso, son già due volte che ha spaccato il tendone, proprio qui e poi due anni fa a Tolosa. Che allora la finisca una buona volta con la sua trappola! Che si rompa una buona volta il muso e la spina dorsale e non se ne parli più! Diventi cattivo a sentirlo! Anche il tram d’altronde, così come si ritrova con la sua campanella, son comunque due vecchi di Bicêtre che ha schiacciato, rasente le baracche, in meno d’un mese. L’autobus invece è uno tranquillo. Arriva alla chetichella su Place Pigalle, pieno di precauzioni, piuttosto barcollante, a colpi di tromba, tutto sfiatato, con quattro persone dentro, prudenti e lente a uscire come dei bambini dal coro.

Dalle bancarelle ai crocchi, e dalle giostre alle lotterie, a forza di passeggiare eravamo arrivati in fondo alla fiera, nel grosso vuoto nero in cui le famiglie vanno a fare pipì... Dietro-front allora! Tornando sui nostri passi, abbiamo mangiato delle castagne per farci venire sete. Ci ha fatto venire male alla bocca, ma non sete. Un vermetto perfino nelle castagne, carino. È Madelon che c’è cascata sopra, manco a farlo apposta. È proprio a partire da quel momento che le cose si sono messe a non andare più per niente tra noi, fino allora ci davamo ancora un po’ di contegno, ma il colpo della castagna l’ha resa assolutamente furiosa.

Nell’istante in cui lei andava fino al ruscello per sputarlo il vermetto, Léon le ha detto in più qualcosa come per proibirglielo, non so più cosa, né quel che gli prendeva, ma ‘sto modo d’andare a sputare all’improvviso non gli piaceva per niente a Léon. Le chiese alquanto stupidamente se ci aveva trovato dentro un seme... Era proprio una domanda da non farle... Ed ecco Sophie che trova il modo d’immischiarsi nella loro discussione, non capiva perché litigavano... Voleva sapere.

Quello li irrita ancora di più, essere interrotti da Sophie, una straniera, per forza. Un gruppo di caciaroni passa proprio in mezzo a noi e restiamo separati. Erano dei giovani che andavano a battere in realtà, ma con delle mimiche, dei versi e ogni sorta di grida da disperati. Quando abbiamo potuto ricongiungerci litigavano ancora Robinson e lei.

“Ecco che è arrivato, pensai io, il momento di tornare... Se li lasciamo qui ancora qualche minuto, ci piantano uno scandalo proprio in mezzo alla fiera... Ce n’è basta per oggi!” Tutto era andato male, bisognava ammetterlo. “Vuoi che ce ne andiamo?” gli ho proposto io. Lui allora mi guarda come sorpreso. Tuttavia quella mi sembrava la decisione più saggia e opportuna. “Non ne avete dunque abbastanza della fiera?” aggiungo io. Lui mi fece segno che sarebbe stato meglio chiedere prima che cosa ne pensa Madelon. Volevo proprio chiederglielo cosa pensava Madelon, ma trovavo che non era una gran pensata.

“Ma, la portiamo con noi, Madelon! ecco che finii per dire io.

- Portarla? Dov’è mai che vuoi portarla? fa lui.

- Ma a Vigny, andiamo!” rispondo io.

Che gaffe! Una delle tante. Ma non potevo smentirmi, avevo parlato.

“Abbiamo proprio una camera libera laggiù per lei a Vigny! aggiungo io. Non sono le camere che ci mancano, insomma!... Potremmo anzi farci una cenetta tutti insieme, prima d’andare a letto... Sarà sempre più allegro di qui che stiamo a gelare letteralmente da due ore! Non sarà difficile...” Rispondeva niente Madelon alle mie proposte. Non mi guardava nemmeno mentre parlavo ma non perdeva lo stesso una parola di quello che avevo raccontato. Insomma, quel che era detto, era detto.

Quando mi son trovato un po’ in disparte, lei s’è avvicinata a me senza parere per chiedermi se alle volte non era un altro tiro che le volevo giocare invitandola a Vigny. Ho risposto niente. Non si può ragionare con una donna gelosa come era lei, quello le avrebbe fornito il pretesto per storie a non più finire. E poi non sapevo esattamente di chi e cosa lei era gelosa. È spesso difficile determinare i sentimenti che nascono dalla gelosia. Di tutto insomma m’immagino che lei era gelosa, come tutti.

Sophie non sapeva più bene come comportarsi, ma continuava a insistere per rendersi simpatica. Aveva persino preso Madelon sottobraccio, ma Madelon lei, era troppo arrabbiata e contenta in più d’essere arrabbiata per lasciarsi distrarre da delle gentilezze. Ci defilammo a gran fatica attraverso la folla per raggiungere il tram, a Place Clichy. Proprio nel momento in cui stavamo per raggiungerlo il tram, una nuvola s’è aperta sulla piazza, la pioggia s’è messa a cascare a torrenti. Il cielo è venuto giù.

Tutte le auto furono prese d’assalto in un istante.

“Non è che adesso mi fai un altro affronto davanti a tutti?... Di’ Léon?” sentivo Madelon chiedergli a bassa voce di fianco a noi. Non andava. “Ne hai già basta, eh, di vedermi?... Dillo dunque che ne hai basta! riprendeva lei. Dillo dunque! Eppure non è che mi vedi spesso!... Ma preferisci startene con loro due da solo eh?... Andate a letto tutti insieme, ci scommetto, quando io non ci sono?... Dillo che preferisci stare con loro che con me!... Dillo, che ti possa sentire...” E poi lei dopo restava senza dir niente, la faccia le si chiudeva in una smorfia intorno al naso che le saliva su e le tirava sulla bocca. Aspettavamo sul marciapiede. “Lo vedi come mi trattano i tuoi amici? Di’ Léon?” ricominciava lei.

Ma Léon lui, bisogna rendergli giustizia, non replicava, non la provocava, guardava dall’altra parte, le facciate e il viale e le vetture.

Però era un violento quando gli andava, Léon. Quando lei vedeva che non attaccavano quelle specie di minacce, lei lo seccava in un altro modo e poi in chiave di tenerezza glielo rifaceva lei, sempre aspettando. “Ti amo tanto io, Léon, di’ mi senti, che ti amo tanto?... Ti rendi conto di quello che ho fatto per te almeno?... Forse oggi non era il caso che venissi?... Non mi ami nemmeno un po’ Léon? è mica possibile che non mi ami per niente... Hai un cuore, di’ Léon, ce n’hai comunque un po’ di cuore?... Perché allora lo disprezzi il mio amore?... Avevamo fatto dei bei sogni tutti e due insieme... Come sei crudele con me però!... L’hai disprezzato il mio sogno Léon! L’hai sporcato!... Sei tu che l’hai distrutto il mio ideale... Vuoi dunque che non ci creda più all’amore di’?... E adesso, vuoi che me ne vada per sempre allora? è proprio questo che vuoi?...” Ecco quel che gli chiedeva mentre pioveva attraverso la tenda del caffè.

Andava per le lunghe in mezzo alla gente. Decisamente lei era proprio come lui m’aveva avvertito. Aveva inventato niente, per quel che riguarda il suo vero carattere. Non avrei potuto immaginare che erano arrivati così in fretta a una tale intensità di sentimenti, era così.

Poiché le vetture e tutto il traffico facevano molto rumore intorno a noi, ne ho approfittato per dirgli comunque una parolina all’orecchio a Robinson sulla situazione per cercare di scollarcela adesso e di finirla al più presto, visto ch’era andata buca, di svignarcela alla chetichella prima che tutto finisca in vacca e ci incavoliamo a morte. C’era da temerlo. “Vuoi che trovi un pretesto? gli ho sussurrato io. E che ognuno se la fili dalla sua parte? - Proprio quello che non devi fare! m’ha risposto lui. Non farmi questo! Lei sarebbe capace di fare una scena proprio qui e non si riuscirebbe più a fermarla!” Non stetti a insistere.

Dopo tutto, forse gli piaceva farsi maltrattare in pubblico a Robinson e poi lui la conosceva meglio di me. Poiché il rovescio stava smettendo abbiamo trovato un taxi. Ci precipitiamo ed eccoci pigiati gli uni sugli altri. In un primo momento, ci diciamo niente. C’era aria pesante fra noi e poi avevo già fatto abbastanza gaffe per conto mio. Potevo aspettare un po’ prima di ricominciare.

Io e Léon ci prendemmo gli strapuntini davanti e le due donne occuparono il fondo del taxi. Le sere di festa, è molto affollata la strada di Argenteuil, soprattutto fino alla Porta. Dopo, bisogna ancora contare un’oretta per arrivare a Vigny a causa del traffico. Non è semplice restare un ora senza dirsi niente, faccia a faccia, a guardarsi, specialmente quando è scuro e che si è un po’ agitati gli uni con gli altri.

Tuttavia, se fossimo restati così, arrabbiati, ma ciascuno per conto suo, niente sarebbe capitato. È ancor oggi la mia opinione, quando ci ripenso.

Tutto sommato è per colpa mia che ci siamo rimessi a parlare e la discussione allora è ricominciata sùbito e di quelle belle. Con le parole uno non sta mai abbastanza in guardia, hanno un’aria di niente le parole, non un’aria pericolosa di sicuro, piuttosto dei venticelli, piccoli suoni buccali, né caldi né freddi, e facilmente assorbiti quando arrivano attraverso le orecchie all’enorme noia grigio molle del cervello. Uno non fa attenzione a loro, alle parole, e la disgrazia arriva.

Di parole, ce ne sono che si nascondono in mezzo alle altre, come dei sassi. Non si riconoscono a prima vista e poi eccole lì che però ti fanno tremare tutta la vita che hai, tutta intera, e nel suo debole e nel suo forte... Allora è il panico... Una valanga... Resti lì come un impiccato, sopra le emozioni... è una tempesta che è arrivata, che è passata, troppo forte per te, così violenta che non l’avresti mai creduta possibile solo con dei sentimenti... Dunque, non si diffida mai abbastanza delle parole, è quel che concludo. Ma prima devo raccontare i fatti... Il taxi seguiva lentamente il tram per via delle riparazioni... “Rron rron” faceva. Un canaletto ogni cento metri... Solo che non mi bastava a me il tram davanti... Sempre chiacchierone e infantile, davo in smanie... Non riuscivo a sopportarla più questa modesta andatura da funerale e questa indecisione generale... M’affrettai a rompere il silenzio per cercare di sapere cos’è che le poteva rodere il culo. L’osservai, o piuttosto cercai di osservarla, perché non ci si vedeva quasi più, nel suo angolo a sinistra, in fondo al taxi, Madelon. Lei teneva la testa girata verso fuori, verso il paesaggio, verso la notte, a dire il vero. Constatai con disappunto che lei era sempre testarda come prima. Un vero rompicoglioni, io, d’altra parte. La interpellai, solo per farle girare la testa dalla mia parte.

“Dica un po’ Madelon! le chiesi. Ha forse un’idea per divertirsi che lei non vuol dirci? Vuole che ci fermiamo da qualche parte prima di tornare? Ce lo dica sùbito!...

- Divertirsi! divertirsi! m’ha risposto lei come offesa. Pensate solo a questo voialtri! Al divertimento!...” E di colpo, tutta una serie di sospiri ha emesso lei, profondi, come raramente ne ho sentiti di così struggenti.

“Faccio quel che posso! le rispondo io. È domenica!

- E tu Léon? lei chiede allora a lui. Tu, fai anche te quello che puoi, di’?” Era diretto.

“Credo bene!” le ha risposto lui.

Li guardavo tutti e due nel momento in cui passavamo davanti ai fanali. Eravamo alla collera. Madelon s’è allora chinata come per baciarlo. Era proprio scritto che quella sera non ci saremmo evitata una sola cantonata possibile.

Il taxi andava di nuovo pianissimo per via dei camion, sgranati ovunque davanti a noi. Lui l’ha irritato giustamente essere baciato e l’ha respinta un po’ bruscamente bisogna dire. Certo, non era simpatico come gesto, specie perché quello capitava davanti a noialtri.

Quando arrivammo al fondo del viale di Clichy, alla Porta, la notte era già caduta da un pezzo, i negozi s’illuminavano. Sotto il ponte della ferrovia, che rimbomba sempre così tanto, io l’ho sentita lo stesso che gli chiedeva ancora: “Non vuoi baciarmi Léon?” Ricominciava. Lui continuava a non rispondere. Di colpo, lei s’è girata verso di me e m’ha apostrofato direttamente. È l’affronto che lei non sopportava.

“Cosa gli ha fatto mai a Léon che è diventato così cattivo? Abbia un po’ il coraggio di dirmelo qui! Quali altre fandonie gli ha raccontato?...” Ecco in che modo mi provocava.

“Ma niente di niente! le rispondo io. Gli ho raccontato proprio niente!... Non sto ad occuparmi delle vostre beghe!...”

E la cosa più grossa, è che era vero, che io non gli avevo raccontato proprio niente su di lei a Léon. Era libero, erano fatti suoi se voleva restare con lei o invece separarsi. Quello non mi riguardava, ma non valeva la pena convincerla, lei non ragionava più e abbiamo ricominciato a star zitti faccia a faccia, nel taxi, ma l’aria restava talmente carica di scenate che non poteva andare avanti per molto. Lei aveva preso per parlarmi una di quelle voci esili che non le conoscevo ancora, una voce monotona come di una persona assolutamente determinata. In disparte come s’era messa in un angolo del taxi, non potevo quasi scorgere i suoi gesti e questo mi imbarazzava molto.

Sophie nel frattempo mi teneva per mano. Non sapeva più dove cacciarsi Sophie, di colpo, povera ragazza.

Appena superata Saint-Ouen, è Madelon che ha ricominciato lo spettacolo delle doglianze che aveva contro Léon e con una abbondanza frenetica, rifacendogli domande a non più finire e ad alta voce adesso circa il suo affetto e la sua fedeltà. Per noi due Sophie e me, era imbarazzante al massimo. Ma lei era talmente montata che non le faceva proprio niente che stessimo ad ascoltarla, al contrario. Evidentemente, non era stata una volpata da parte mia averla rinchiusa in quella scatola con noi, rimbombava e quello le dava la voglia, col carattere che aveva, di recitarci la scena madre. Era un’altra bella iniziativa mia il taxi...

Lui Léon, non reagiva più. Prima cosa, era stanco per la serata che avevamo passato insieme e poi gli mancava sempre un po’ di sonno, era la sua malattia.

“Calmatevi un po’, andiamo! trovai comunque il modo di farglielo capire a Madelon, vi spiegherete tutti e due quando arrivate... Avete tutto il tempo!...

- Arrivare! arrivare! mi risponde allora lei su un tono che non si può immaginare. Arrivare? Si arriverà mai ve lo dico io!... E poi per cominciare ne ho basta io del vostro sporco modo di fare! ha continuato lei, sono una ragazza pulita io!... Valgo più di voi tutti messi insieme io!... Banda di maiali... Avete un bel cercare di mettermi in trappola... Non siete degni di capirmi... Siete proprio troppo marci tutti quanti siete per capirmi!... Tutto quel che è pulito e tutto quel che è bello, non lo potete più capire!”

Lei ci attaccava insomma sul nostro amor proprio e così via e avevo un bel stare rigidamente al mio posto sullo strapuntino, il meglio che potevo, e non emettere un solo sospiro per non provocarla ulteriormente, a ogni cambiamento di velocità dei taxi lei ripartiva lo stesso in trance. Basta un niente in quei momenti lì per scatenare il peggio, ed è come se lei avesse goduto solo a renderci infelici, lei non poteva fare a meno di andare sùbito fino al fondo del suo temperamento.

“E non credetevi mica che va a finire così! ha continuato a minacciarci lei. E che riuscite a liberarvi della bambina alla chetichella! Ah! no eh! Preferisco dirvelo sùbito No, andrà mica come volete voi! Meschini che siete tutti... Mi avete rovinato! Adesso vi sveglio io, bei porcaccioni che siete!...”

Di colpo, lei si chinò verso Robinson e l’afferrò per il soprabito e si mise a scuoterlo a due braccia. Lui non faceva niente per liberarsi. Non sarei intervenuto. Si sarebbe potuto credere che gli dava perfino piacere a Robinson vederla eccitarsi ancora un po’ di più nei suoi confronti. Ghignava, non era naturale, oscillava mentre lei lo strapazzava come una marionetta attraverso il sedile, naso in giù, collo molle.

Nel momento in cui stavo comunque per fare un piccolo gesto di protesta per fermare quelle volgarità, lei s’è rivoltata, e me n’ha sparata una tutta per me... Quella che aveva sullo stomaco da un sacco di tempo... Fu il mio turno posso dirlo! e davanti a tutti. “Se ne stia un po’ tranquillo lei, satiro! m’ha detto lei a ‘sto modo. Non è un affare che la riguarda tra Léon e me! Le sue violenze, signore, non le voglio più! Mi sente? Eh? Ne voglio più! Se mai lei alza una sola volta le mani su di me, glielo insegnerà Madelon, come bisogna comportarsi nella vita!... A fare cornuti gli amici e poi a menare le loro donne! Ha la faccia come il culo ‘sto stronzo! Ma non si vergogna?” Léon a sentire ‘ste verità, s’è come risvegliato un po’. Non ghignava più. Mi son chiesto per un momento se non ci mettevamo le mani addosso, se non ci pestavamo, ma non c’era posto per picchiarsi, in quattro com’eravamo nel taxi. Questo mi rassicurava. Era troppo stretto.

Soprattutto adesso che si correva in fretta sul pavè dei viali della Senna e quello ci scuoteva troppo, perfino per muoversi...

“Vieni Léon! gli ha comandato lei allora! Vieni che te lo chiedo per l’ultima volta! Mi senti, vieni? Lasciali andare! Lo capisci quel che ti dico?

Una vera commedia.

- Fermalo dài, il taxi Léon! Fermalo tu o lo fermo io!”

Ma Léon lui, continuava a non muoversi dal suo sedile. Era incastrato.

“Non vuoi venire allora? ha ricominciato lei, tu non vuoi venire?”

Lei m’aveva avvertito che per quello che mi riguardava era meglio che adesso me ne stessi tranquillo. Me mi aveva servito. “Non vieni?” gli ripeteva lei. Il taxi continuava in fretta, era libera la strada davanti ora ed eravamo ancor più sballottati. Come dei pacchi eravamo, di qui, di là.

“Va be’, ha concluso lei, poiché lui rispondeva niente. Bene! Ci siamo! Sei tu che l’avrai voluto! Domani! Mi capisci, non più tardi di domani ci andrò io, dal Commissario, e gli spiegherò, io, al Commissario, com’è che è caduta dalla sua scala la vecchia Henrouille! Mi capisci, adesso, di’ Léon?... Sei contento?... Fai più il sordo? O vieni sùbito con me o andrò a trovarlo domattina!... Allora, vuoi venirci, o no? Spiègati!...” Era esplicita come minaccia.

Lui malgrado tutto s’è deciso a rispondere qualcosa a quel punto.

“Ma ci sei dentro anche tu, di’ un po’! le ha fatto. Hai niente da dire...”

A sentirlo rispondere così, lei non si è calmata per niente, anzi. “Me ne fotto proprio! gli ha risposto lei. D’esserci dentro! Vuoi dire che andremo in prigione tutti e due? Che sono stata la tua complice?... è questo che vuoi dire? Ma non chiedo di meglio io!...”

E s’è messa a sghignazzare di colpo, come un’isterica, come se non avesse mai visto niente di più divertente...

“Ma non chiedo di meglio ti ripeto! Ma a me mi piace la prigione te lo dico io!... Non crederai che adesso mi viene la strizza per via della tua prigione!... Ci andrò fin che vorranno, in prigione io! Ma ci andrai anche tu allora carogna mia!... Non te ne fregherai di me ancora per molto di’ un po’!... Sono tua, bene! ma tu sei mio! Non ci avevi che da restare con me laggiù! Penso a un solo amore io, signore! Son mica una puttana io!”

E ci sfidava me e Sophie al tempo stesso, dicendo quello. Era per la fedeltà che lo diceva, per la reputazione.

Malgrado tutto andavamo ancora e lui non si decideva mai a farlo fermare il taxi.

“Non vieni allora? Preferisci andare in galera? Bene!... Te ne freghi che ti denuncio?... Che ti amo?... Te ne freghi pure eh?... E te ne freghi del mio avvenire?... Te ne freghi di tutto prima cosa no? Dillo!

- Sì, in un certo senso, ha risposto lui... C’hai ragione... Ma non è più di te che di un altro che me ne frego... Non prenderlo come un insulto guarda!... Sei gentile in fondo tu... Ma non ho più voglia che qualcuno mi ami... Mi fa schifo!...”

Lei non s’aspettava che lui le dica una cosa del genere, proprio in faccia, e tanto ne fu sorpresa che non sapeva più bene dove ricominciarlo il cazziatone che aveva cominciato. Era parecchio sconcertata, ma s’è ripresa lo stesso. “Ah! quello ti fa schifo! Com’è che ti fa schifo cosa vuoi dire?... Spiegati un po’ lurido ingrato...

- No! non sei tu, è tutto che mi fa schifo! le ha risposto lui. Non ho voglia... Non devi avercela con me per questo...

- Come, cos’è che dici? Ripetilo un po’... Io e tutto?” Lei cercava di capire. “Io e tutto? Spiegami un po’! Cos’è che vuol dire?... Io e tutto?... Non parlare cinese!... Dimmelo in francese, davanti a loro, perché ti faccio schifo adesso? Non ti diventa duro come gli altri, di’ grosso maiale quando fai l’amore? Non ti diventa più duro allora eh?... Osi dirlo qui?... Davanti a tutti che non ti diventa duro?...”

Malgrado il suo furore faceva un po’ ridere la maniera con cui lei si difendeva con le sue osservazioni. Ma non ho avuto il tempo di divertirmi troppo, perché lei è tornata alla carica. “E lui, ecco lì, ha fatto lei, non gode forse ogni volta che può sbattermi in un angolo! ‘Sto schifoso! ‘Sto pomicione, che abbia il coraggio di venirmi a dire il contrario!... Ma ditelo un po’ tutti che volete cambiare!... Confessatelo!... Che è il nuovo che volete!... Un’ammucchiata!... Perché non le vergini? Banda di depravati! Banda di maiali! Perché state a cercare dei pretesti?... Siete dei fighetti ecco tutto! Avete nemmeno il coraggio dei vostri vizi! Vi fanno paura i vostri vizi!”

E allora è Robinson, che s’è incaricato di risponderle. S’era anche arrabbiato alla fine e adesso gridava anche più forte di lei.

“Ma sì! le ha risposto lui. Che ce n’ho coraggio! e di sicuro tanto quanto te!... Solo che io se vuoi saperlo... Assolutamente tutto... Eh be’, sei tu, che mi ripugni e mi fai schifo adesso! Non solo te!... Tutto!... L’amore specialmente!... Il tuo e quello degli altri... I trucchi sentimentali che vuoi fare, vuoi che ti dica cosa mi sembrano a me? Mi sembra come far l’amore nei cessi! Mi capisci te adesso?... E tutti i sentimenti che vai a cercare perché resti incollato a te, mi fanno l’effetto di insulti se vuoi saperlo... E tu non hai nemmeno un dubbio in più perché sei te che sei una zozzona perché te non ti rendi conto... E te non hai nemmeno il minimo dubbio che te sei una schifosa!... Ti basta ripetere tutto quello che sputano gli altri... Quello lo trovi normale... Ti basta perché gli altri ti hanno raccontato che non c’era di meglio dell’amore e che quello funzionava con tutti quanti e sempre!... Eh be’ io lo mando affanculo l’amore di tutti quanti!... Mi capisci? Attacca più con me figlia mia!... la loro schifezza d’amore... Caschi male!... Arrivi troppo tardi! Attacca più, ecco tutto!... Ed è per questo che tu ti fai venir le rabbie!... Ci tieni lo stesso tu a far l’amore in mezzo a tutto quello che succede?... A tutto quello che si vede?... O invece è che non vedi niente?... Io credo proprio che tu te ne sbatti!... Fai la sentimentale mentre sei una bestia che non ce n’è un’altra... Ti vuoi sbafare della carne marcia? Con la tua salsa tenerezza?... Ti va giù allora?... A me no!... Se senti niente tanto meglio per te! è che hai il naso tappato! Bisogna essere quei degenerati che siete tutti perché quello non vi faccia schifo... Vuoi sapere quello che c’è tra me e te?... Eh be’ tra te e me, c’è tutta la vita... Ti basta mica alle volte?

- Ma è pulito a casa mia, ecco che s’è rivoltata lei... Si può essere poveri e essere puliti lo stesso di’ un po’! Quand’è che hai visto che non era pulito a casa mia? è questo che vuoi dire quando mi insulti?... Ho il sedere pulito io, signore!... Tu forse non puoi dire lo stesso... I tuoi piedi nemmeno!

- Ma ho mai detto quello Madelon! Ho detto niente di quel genere proprio!... Che non è pulito a casa tua?... Vedi bene che non capisci niente!” è tutto quel che aveva trovato da rispondere per calmarla.

“Tu dici che hai detto niente allora? Hai detto niente? Sentitelo adesso che m’insulta che nemmeno un cane e ancora pretende che non ha detto niente! Ma bisogna ucciderlo perché non possa mentire ancora! Non è abbastanza la gattabuia per un maiale del genere! Uno sporco magnaccia ammuffito!... Basta mica!... è la forca che gli ci vorrebbe!”

Non voleva più essere calmata. Non si capiva più niente del loro alterco nel taxi. Si capivano solo delle parolacce nel frastuono che faceva l’auto, il battere delle ruote nella pioggia e nel vento che si gettava contro la nostra portiera a raffiche. Quanto a minacce, ci nuotavamo in mezzo. “È ignobile...” ha ripetuto lei a più riprese. Non poteva più parlare d’altro... “È ignobile!” E poi lei ha tentato il colpo grosso. “Vieni? gli ha fatto lei. Vieni Léon? Uno?... Ci vieni? Due?...” Lei ha aspettato. “Tre?... Non vieni allora?... - No! le ha risposto lui, senza muovere d’un millimetro. Fa’ come vuoi!” ha perfino aggiunto. Era una risposta.

Lei ha dovuto ritirarsi un po’ sul sedile, fino in fondo. Doveva tenere la rivoltella a due mani perché quando il colpo è partito era come diritto dal suo ventre e poi quasi insieme altri due colpi, due volte di seguito... Di un fumo acre s’è allora riempito il taxi.

Andavamo ancora lo stesso. È su di me che è ricaduto Robinson, sul fianco, a scossoni, balbettando. “Hop! e hop!” Non la finiva di lamentarsi. “Hop! e hop!” L’autista aveva sentito di sicuro.

Prima ha rallentato un po’, per rendersi conto. Poi s’è fermato proprio davanti a un lampione a gas.

Non appena ebbe aperta la portiera, Madelon l’ha respinto violentemente, s’è gettata di fuori. È schizzata per la scarpata a picco. Se l’è filata nella notte del campo in pieno fango. Avevo un bel richiamarla, era già lontana.

Non sapevo bene cosa decidere io col ferito. Riportarlo a Parigi sarebbe stato in un certo senso più pratico... Ma non eravamo lontano da casa nostra... La gente del paese non avrebbe capito la manovra... L’abbiamo dunque messo con Sophie tra i cappotti e sistemato nello stesso angolo in cui s’era messa Madelon per sparare. “Piano!” ho raccomandato all’autista. Solo che lui andava ancora troppo forte, aveva fretta. Lo facevano gemere ancora di più Robinson i sobbalzi.

Una volta arrivati davanti a casa, voleva nemmeno darci il suo nome l’autista, era agitato per le storie che quello gli avrebbe tirato addosso con la polizia, le testimonianze...

Asseriva perfino che c’erano di sicuro delle macchie di sangue sui cuscini. Voleva ripartire sùbito senza aspettare. Ma io avevo preso il suo numero.

Nel ventre se l’era prese le due pallottole Robinson, forse tre non sapevo ancora con esattezza quante.

Lei aveva sparato dritto davanti, quello l’avevo visto. Non sanguinavano, le ferite. Tra Sophie e me malgrado lo tenessimo, sussultava molto lo stesso, la testa andava per conto suo. Parlava, ma era difficile capirlo. Era già il delirio. “Hop! e hop!” continuava a canticchiare. Avrebbe avuto il tempo di morire prima di arrivare.

La strada era di nuovo lastricata. Appena fummo davanti al nostro cancello, mandai la portinaia a cercare Parapine in camera sua, in fretta. È sceso sùbito ed è con lui e un infermiere che abbiamo potuto issare Léon fino al suo letto. Una volta spogliato abbiamo potuto visitarlo e tastare le pareti del ventre. Era già bella tesa la parete sotto le dita, alla palpazione e anche opaca in certi posti. Due buchi uno sopra l’altro ho trovato io, non il terzo, una delle pallottole aveva dovuto perdersi.

Fossi stato al posto di Léon, avrei preferito per me un’emorragia interna, ti inonda il ventre, è fatta alla svelta. Ci si riempie il peritoneo e non se ne parla più. Mentre con una peritonite, c’è la prospettiva di un’infezione, è lunga.

Ci si poteva ancora chiedere cosa bisognava fare, per finirla. Il suo ventre si gonfiava, ci guardava Léon, già molto fisso, si lamentava, ma non troppo. Era come una specie di calma. L’avevo già visto molto malato io, e in molti posti differenti, ma questa volta era una faccenda dove tutto era nuovo, i sospiri e gli occhi e tutto. Non lo fermavamo più si sarebbe detto, se ne andava di minuto in minuto. Sudava delle gocce così grosse che era come se avesse pianto con tutta la faccia. In quei momenti lì, imbarazza un po’ essere diventato così povero e così duro come sei diventato. Ti manca quasi tutto quello che ci vorrebbe per aiutare a morire qualcuno. Hai con te quasi soltanto le cose utili per la vita di tutti i giorni, la vita confortevole, la vita per sé sola, la cattiveria. Hai perduto la fiducia per strada. L’hai cacciata, l’hai tormentata la pietà che ti restava, accuratamente in fondo al corpo come una brutta pillola. L hai spinta la pietà fino in fondo all’intestino con la merda. È lì il suo posto, uno si dice.

E io restavo, davanti a Léon, per fargli coraggio, e mai ero stato tanto imbarazzato. Non ci arrivavo... Lui non mi trovava... Sudava sette camicie... Doveva cercare un altro Ferdinand, molto più grande di me, di sicuro, per morire, per aiutarlo a morire piuttosto, più dolcemente. Faceva degli sforzi per rendersi conto se alle volte il mondo avesse fatto progressi. Faceva l’inventario, povero disgraziato, nella sua coscienza... Se erano cambiati un po’ gli uomini, in meglio, mentre lui era vissuto, se alle volte non era stato ingiusto senza volerlo nei loro confronti... Ma non c’ero che io, proprio io, tutto solo, al suo fianco, un Ferdinand autentico al quale mancava quel che farebbe un uomo più grande della sua povera vita, l’amore per la vita degli altri. Di quello, non ce ne avevo, o almeno così poco che non era il caso di farlo vedere. Non ero grande come la morte io. Ero molto più piccolo. Non avevo una grande idea dell’uomo io. Avrei perfino, credo, sentito più facilmente pena per un cane che stava per morire che per Robinson, perché un cane non fa il furbo, mentre lui aveva fatto un po’ il furbo malgrado tutto Léon. Anch’io facevo il furbo, lo facevamo tutti... Tutto il resto se n’era andato lungo la strada e le stesse mimiche che possono ancora servire coi moribondi, io le avevo perdute, avevo perso assolutamente tutto per strada, non ritrovavo nulla di quel che ci vuole per schiattare, solo degli espedienti. I miei sentimenti erano come una casa in cui si va solo per le vacanze. È appena abitabile. Poi è anche esigente uno che agonizza. Agonizzare non basta. Bisogna godere mentre te ne vai, con gli ultimi rantoli devi godere ancora, giù in fondo alla vita, con le arterie piene d’urea.

Piagnucolano perché non godono più abbastanza i morenti... Reclamano... Protestano. È la commedia dell’infelicità che cerca di passare dalla vita nella stessa morte.

Ha ripreso un po’ i sensi quando Parapine gli ha fatto un’iniezione di morfina. Ci ha perfino raccontato delle cose su quello che era capitato. “È meglio che finisca così...” ha detto lui, e poi: “Non fa così male come avrei creduto...” Quando Parapine gli ha chiesto in che posto gli faceva male esattamente, si vedeva bene che era già un po’ partito, ma anche che ci teneva malgrado tutto a dirci delle cose... La forza gli mancava e poi i mezzi. Piangeva, soffocava e rideva sùbito dopo. Non era come un malato ordinario, non si sapeva come comportarci davanti a lui.

Era come se cercasse di aiutarci a vivere adesso noialtri. Come se lui avesse cercato per noi dei piaceri per restare. Ci teneva per mano. Una per uno. Lo baciai. C’è solo quello che si può fare senza sbagliare in casi del genere. Abbiamo aspettato. Lui non ha detto più niente. Un po’ più tardi, un’ora forse, non di più, è l’emorragia che s’è decisa, ma allora abbondante, interna, massiccia. Quella se l’è portato via.

Il suo cuore s’è messo a battere sempre più in fretta e poi velocissimo. Correva dietro il suo sangue il cuore, stremato, laggiù, già minuscolo, proprio alla fine delle arterie a tremare sulla punta delle dita. Il pallore gli è salito dal collo e gli ha preso tutto il volto. È finito soffocato. È partito di colpo come se avesse preso la rincorsa, stringendosi a noi due, con le due braccia.

E poi è tornato là, davanti a noi, quasi sùbito, già pronto a prendere tutto il suo peso di morto.

Ci siamo alzati noi, ci siamo liberati delle sue mani. Sono restate per aria le sue mani, rigide, piantate tutte gialle e blu sotto la lampada.

Nella camera sembrava come uno straniero adesso Robinson, che veniva da un paese spaventoso e uno non osava più parlargli.

 

Viaggio al termine della notte
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