Mi hanno parlato i passanti come il sergente mi aveva parlato nella foresta. “Ecco! mi hanno detto loro. Non si può sbagliare, è giusto in faccia a lei.”
E ho visto in effetti le grandi costruzioni massicce e vetrate, delle specie di acchiappamosche senza fine, in cui si scorgevano degli uomini che si agitavano, ma agitavano appena, come se si dibattessero solo debolmente contro un non so che d’impossibile. Era quello Ford? E poi tutt’intorno e sopra fino al cielo un rumore opprimente e multiplo e sordo di torrenti di macchinari, duro, per l’ostinazione dei meccanismi a girare, rotolare, gemere, sempre sul punto di rompersi e senza rompersi mai.
“È qui dunque, mi son detto... è mica eccitante.” Era anche peggio di tutto il resto. Mi sono accostato più vicino, fino alla porta dove c’era scritto su una lavagna che cercavano gente.
Non ero il solo ad aspettare. Uno di quelli che pazientavano là m’ha informato che lui era lì da due giorni e sempre allo stesso posto. Era venuto dalla Jugoslavia, ‘sta pecora, per farsi reclutare. Un altro poveraccio m’ha rivolto la parola, veniva a ruscare asseriva lui, solo per divertirsi, un maniaco, un bluffatore.
In quella folla quasi nessuno parlava inglese. Si spiavano gli uni gli altri come bestie sfiduciate, battute spesso. Dalla loro massa saliva un odore di mutande pisciate come all’ospedale. Quando ti parlavano evitavi la loro bocca perché il dentro dei poveri puzza già di morte.
Pioveva sulla nostra piccola folla. Le file stavano compresse sotto le grondaie. Sono molto comprimibili quelli che cercano un lavoro. Quel che c’era di buono da Ford, mi ha spiegato un vecchio russo in vena di confidenze, è che ti ingaggiavano non importa chi e non importa cosa. “Stai solo attento, ha aggiunto lui perché mi sapessi regolare, non bisogna fare il bullo qui, perché se fai il bullo ti sbattono fuori in men che si dica e ti sostituiscono alla veloce con uno di quei congegni meccanici che ci sono sempre pronti e allora ti saluto che ci torni!” Parlava bene il parigino il russo perché aveva fatto il taxista per anni e l’avevano cacciato dopo un affare di cocaina a Bezons e poi in fin dei conti s’era giocato la vettura ai dadi con un cliente a Biarritz e aveva perso.
Era vero, quel che mi spiegava che prendevano tutti da Ford. Non aveva mentito. Io diffidavo lo stesso perché i poveracci hanno il delirio facile. C’è un momento della miseria in cui lo spirito non sta già più tutto il tempo con il corpo. Ci si trova davvero troppo male. È già quasi un’anima che vi parla. Non è mica responsabile un’anima.
Nudi ci hanno messo per cominciare, beninteso. La visita la passavi in una specie di laboratorio. Sfilavamo lentamente. “Sei proprio conciato male, ha constatato l’infermiere alla prima occhiata, ma fa niente.”
E io che avevo avuto paura che mi rifiutassero al rusco per le febbri africane, se solo se ne accorgevano caso mai mi tastassero il fegato! Ma al contrario, sembravano aver l’aria contenta di trovare dei loffi e degli infermi nella nostra mandata.
“Per quello che farai qui, non ha importanza com’è che sei conciato! m’ha rassicurato il medico esaminatore, su due piedi.
- Tanto meglio, gli ho risposto io, ma sa, signore, io sono istruito e ho cominciato anche a studiare medicina una volta...
Di colpo, m’ha guardato di brutto. Ho capito che avevo fatto un’altra gaffe, e a mio danno.
“Non ti serviranno a niente qui i tuoi studi, ragazzo! Mica sei venuto qui per pensare, ma per fare i gesti che ti ordineranno di eseguire... Non abbiamo bisogno di creativi nella nostra fabbrica. È di scimpanzé che abbiamo bisogno.. Ancora un consiglio. Non parlare mai più della tua intelligenza! Penseremo noi per te amico! Tientelo per detto.”
Aveva ragione di avvertirmi. Era meglio sapere come regolarsi sulle abitudini della casa. Di fesserie, ne avevo già al mio attivo per dieci anni almeno. Ci tenevo ormai a passare per un pacioccone. Una volta rivestiti, fummo divisi in file strascicate, per gruppi esitanti, di rinforzo verso i luoghi da cui ci arrivava l’immane fracasso delle macchine. Tremava tutto nell’immenso edificio e tu anche dalle orecchie ai piedi posseduto dal tremore, veniva dai vetri e dal pavimento e dalla ferraglia, a scossoni, vibrato dall’alto in basso. Diventavi macchina per forza anche tu e con tutta la tua carne tremolante in quel rumore di rabbia immane che ti prendeva la testa dentro e fuori e più in basso ti agitava le budella e risaliva agli occhi a colpetti precipitosi, senza fine, inarrestabili. Via via che si andava avanti perdevamo compagni. Gli facevamo un sorrisino a quelli lì lasciandoli come se tutto quello che capitava fosse una bellezza. Non si poteva più né parlare né sentirsi. Ne restavano ogni volta tre o quattro intorno a una macchina.
Comunque si resiste, si fa fatica a disgustarsi della sostanza di cui sei fatto, vorresti proprio fermare tutto quanto per pensarci su e sentire dentro il cuore che batte con facilità, ma non si può più. Non può più finire. È una catastrofe quella sterminata scatola d’acciaio e noi ci giriamo dentro con le macchine e con la terra. Tutti insieme! E le mille rotelle e le presse che non cadono mai allo stesso tempo con dei rumori che si schiacciano gli uni contro gli altri, certi così violenti da scatenare intorno come delle specie di silenzi che ti fanno un po’ di bene.
Il vagoncino traballante con contorno di chincaglieria s’affanna a passare in mezzo agli attrezzi. Scansarsi! Fare un salto perché possa fare un altro zompo il piccolo isterico. E hop! va a saltellare più lontano quel matto incasinato in mezzo a cinghie e volani, a portare agli uomini la loro dose di coazione.
Gli operai ricurvi preoccupati di fare tutto il piacere che possono alle macchine ti demoralizzano, a passargli i bulloni al calibro e ancora bulloni, invece di finirla una volta per tutte, con quell’odore d’olio, quel vapore che brucia i timpani e l’interno delle orecchie attraverso la gola. Non è la vergogna che gli fa abbassare la testa. Ci si arrende al rumore come ci si arrende alla guerra. Ci si lascia andare alle macchine con le tre idee che restano a vacillare in cima alla testa, dietro la fronte. È finita. Dappertutto, quel che l’occhio vede e la mano tocca, è duro adesso. E tutto quello che uno riesce a ricordare ancora un po’ s’è indurito anche quello come il ferro, e non ha più gusto quando lo pensi.
Si diventa maledettamente vecchi in un colpo solo.
Bisogna abolire la vita di fuori, farne acciaio anche di quella, un qualcosa di utile. Non la si amava abbastanza com’era, è per questo. Bisogna dunque farne un oggetto, un solido, è la Regola.
Cercai di parlargli all’orecchio al caporeparto, ha grugnito come un maiale in risposta e soltanto a gesti m’ha mostrato paziente, la semplicissima manovra che dovevo eseguire ormai per sempre. I miei minuti, le mie ore, il resto del mio tempo, come questi qui, se ne sarebbero andati a furia di passare dei piccoli perni al cieco di fianco che li calibrava lui, da anni i perni, sempre gli stessi. Io ‘sta cosa l’ho fatta sùbito malissimo. Non mi sgridarono affatto, soltanto dopo tre giorni di quel travaglio iniziale, fui trasferito già bruciato, a trascinare una carriola piena di rondelle, quella che faceva cabotaggio da una macchina all’altra. Là, ne lasciavo tre, qui dodici, laggiù cinque soltanto Nessuno mi parlava. Esistevi solo grazie a una specie di esitazione tra l’inebetimento e il delirio. Importava soltanto la continuità fracassona di mille e mille strumenti che comandavano gli uomini.
Quando alle sei tutto si ferma ti porti il rumore nella testa, ne avevo ancora per la notte intera di rumore e odore d’olio proprio come se mi avessero messo un naso nuovo, un cervello nuovo per sempre.
Allora a forza di rinunciare, poco a poco, sono diventato quasi un altro... Un nuovo Ferdinand. Dopo qualche settimana. Comunque mi tornò la voglia di rivedere la gente di fuori. Non quelli dell’officina di sicuro, erano solo degli echi e degli odori di macchine come me, carni vibrate all’infinito, i miei compagni. Era un corpo vero che volevo toccare, un corpo rosa di vera vita silenziosa e soffice.
Non conoscevo nessuno in quella città e soprattutto nessuna donna A fatica, ho finito per rimediare l’indirizzo approssimativo di una “casa”, d’un flamba clandestino, nel quartiere nord della città. Andai a passeggiare da quelle parti per qualche sera di sèguito, dopo la fabbrica, in avanscoperta. Quella strada assomigliava a un’altra, ma forse meglio tenuta di quella in cui abitavo.
Avevo trovato il villino dove quello capitava, circondato da giardini. Per entrare, bisognava fare in fretta affinché il pulotto che montava di guardia vicino alla porta potesse aver visto niente. Fu il primo posto d’America in cui fui ricevuto senza brutalità, gentilmente anche per i miei cinque dollari. E belle ragazze, in carne, che scoppiavano di salute e di forza aggraziata, quasi belle in fin dei conti come quelle del Laugh Calvin.
E poi queste qui almeno, le potevi toccare liberamente. Non ho potuto fare a meno di diventare un habitué del locale. Tutta la mia paga finiva lì. Avevo bisogno, venuta la sera, delle promiscuità erotiche di quelle splendide ospiti per rifarmi un’anima. Il cinema non mi bastava più, antidoto benigno, senza effetto reale contro l’atrocità materiale della fabbrica. Bisognava ricorrere, per durare ancora, ai grandi tonici sboccati, ai purganti che rivitalizzano. Mi chiedevano un canone modesto in quella casa, degli accomodamenti amichevoli, perché gli avevo portato di Francia, a quelle dame, dei piccoli trucchi e degli aggeggi. Soltanto, il sabato sera, basta trucchi, il business girava al massimo e lasciavo il campo alle squadre di baseball in libera uscita, vigorose che era una meraviglia, forzuti ai quali la felicità sembrava riuscire semplice come la respirazione.
Mentre le squadre se la godevano, tutto ringalluzzito stavo a scrivere raccontini in cucina per mio uso e consumo. L’entusiasmo di quegli sportivi per le creature del luogo non raggiungeva certo il fervore un po’ impotente del mio. Quegli atleti soddisfatti della loro forza erano un po’ snob in fatto di perfezione fisica. La bellezza, è come l’alcool o il comfort, ci si abitua, non ci si fa più attenzione.
Venivano soprattutto, loro, al flamba, per stare allegri. Spesso alla fine si menavano, come degli ossessi. Allora la polizia arrivava in tromba e portava via il tutto su delle camionette.
Nei confronti di una delle ragazze del posto, Molly, provai presto uno specialissimo sentimento di fiducia, che negli esseri impauriti occupa il posto dell’amore. Mi ricordo come se fosse ieri le sue gentilezze, le sue gambe lunghe e bionde e splendidamente agili e muscolose, delle nobili gambe. La vera aristocrazia umana, si ha un bel dire, sono le gambe che la conferiscono, non si può sbagliare.
Entrammo in intimità corpo e anima, e andavamo a passeggiare insieme in città qualche ora ogni settimana. Disponeva di ampie risorse, quest’amica, perché si faceva un cento dollari al giorno nella casa, mentre io, da Ford, ne guadagnavo appena sei. L’amore che eseguiva per vivere non la stancava troppo. Gli americani lo fanno così, come gli uccelli.
Verso sera, dopo aver trascinato il mio carretto ambulante, mi impegnavo tuttavia a darmi una bella sistemata per ritrovarla dopo cena. Bisogna essere allegri con le donne almeno agli inizi. Mi tormentava una grande e vaga voglia di proporle delle cose, ma non avevo più la forza. Lei capiva bene il rimbambimento industriale, Molly, era abituata agli operai.
Una sera, così, senza un pretesto, mi ha offerto cinquanta dollari. Dapprima l’ho guardata. Mica osavo. Pensavo a quel che mia madre avrebbe detto in un caso così. E poi mi son pensato che mia madre, poveretta, non mi aveva mai regalato tanto. Per far piacere a Molly, sùbito, sono andato a comperare con i suoi dollari un bel completo beige chiaro (four piece suit) che andava di moda nella primavera di quell’anno. Mai mi avevano visto arrivare più pimpante al casotto. La padrona fece andare il suo grosso fonografo, solo per insegnarmi a ballare.
Dopo di che andammo al cinema con Molly per festeggiare il completo nuovo. Mi domandò per strada se non ero mica geloso, perché il completo mi dava un’aria triste e anche la voglia di non tornare più in fabbrica. Un completo nuovo, e una cosa che ti sconvolge le idee. Lei se lo abbracciava il completo con dei bacetti appassionati, quando la gente non guardava. Cercavo di pensare ad altro.
Questa Molly, che donna però! Che generosità! Che carnagione! Che pienezza di gioventù! Un festino di desideri. E ridiventavo inquieto. Magnaccia?... mi pensavo io.
“Non andare più da Ford! mi scoraggiava Molly come se non bastasse. Cercati piuttosto un piccolo impiego in un ufficio... Come traduttore per esempio, è il tuo genere... I libri è una cosa che ti piace...”
Mi dava consigli gentili di quel tipo, voleva che fossi felice. Per la prima volta un essere umano si interessava a me, al dentro se posso dire, al mio egoismo, si metteva al posto mio e non mi giudicava solo dal suo, come tutti gli altri.
Ah! se l’avessi incontrata prima, Molly, quando c’era ancora il tempo di prendere una strada invece che un’altra! Prima di perdere il mio entusiasmo su quella troia di Musyne e su quella stronzetta di Lola! Ma era troppo tardi per rifarmi una giovinezza. Ci credevo più! Si diventa rapidamente vecchi e in modo irrimediabile per giunta. Te ne accorgi dal modo che hai preso di amare le tue disgrazie tuo malgrado. La natura è più forte di te, ecco tutto. Ci prende le misure in un certo genere e non puoi più uscirne da quel genere lì. Avevo preso la strada dell’inquietudine. Si prende pian piano sul serio il proprio ruolo e il proprio destino senza rendersene ben conto e poi quando ci si volta indietro è troppo tardi per cambiare. Si diventa tutti agitati e rimane tutto così per sempre.
Lei cercava gentilmente di tenermi vicino, Molly, di dissuadermi... “Si vive bene qui come in Europa, sai, Ferdinand! Non ce la passeremo male insieme.” E aveva ragione in un certo senso. “Investiremo i nostri risparmi... ci metteremo nel commercio... Saremo come tutti...” Lei diceva quello per placare i miei scrupoli. Progetti. Io le davo ragione. Mi vergognavo di tutta la pena che si dava per tenermi. L’amavo sicuramente, ma amavo ancora di più il mio vizio, quella voglia di scappare da ogni posto, alla ricerca di non so cosa, per uno stupido orgoglio senza dubbio, per la convinzione di una specie di superiorità.
Volevo evitare di contrariarla, lei capiva e preveniva la mia preoccupazione. Ho finito, tanto era gentile, di confessarle la mania che mi tormentava di svignarmela da ogni dove. Lei mi ha ascoltato per giorni e giorni, a mettermi in mostra e raccontarmi da far schifo, intento a dibattermi tra fantasmi e orgoglio e lei non se ne spazientì affatto, proprio il contrario. Cercava soltanto di aiutarmi a vincere quella vana e sciocca angoscia. Non capiva bene dove volessi arrivare con le mie divagazioni, ma mi dava comunque ragione contro i fantasmi o con i fantasmi, a mia scelta. A forza di dolcezza persuasiva, la sua bontà mi diventò familiare e quasi personale. Ma allora mi sembrava di cominciare a barare col mio famoso destino, con la mia ragion d’essere come la chiamavo, e da quel momento smettevo bruscamente di raccontarle tutto quel che pensavo. Me ne tornavo tutto solo a me stesso, contentissimo d essere ancora più infelice di prima perché avevo portato nella mia solitudine una nuova ragione d’angoscia e qual cosa che assomigliava a un vero sentimento.
Tutto questo è banale. Ma Molly era dotata d’una pazienza angelica, alle vocazioni lei credeva con tutte le sue forze, com’è giusto. La sorella minore, per esempio, all’Università dell’Arizona, s’era presa la mania di fotografare gli uccelli nei loro nidi e i rapaci nelle loro tane. Allora, perché lei potesse continuare a seguire gli strani corsi di quella tecnica speciale, Molly le mandava regolarmente, alla sorella fotografa, cinquanta dollari al mese.
Un cuore davvero infinito, con del sublime autentico dentro, che si può trasformare in grana, non in vanterie come il mio e quello di tanti altri. Per quel che mi riguardava Molly non chiedeva di meglio che di interessarsi dal lato pecunia alle mie avventure incasinate. Anche se le sembravo a momenti un ragazzo un po’ stordito, la mia determinazione le pareva autentica e davvero degna di non essere scoraggiata. Mi spingeva soltanto a metter su una specie di piccolo bilancio per una pensione programmata che lei voleva costituirmi. Non potevo decidermi ad accettare quel dono. Un ultimo soprassalto di delicatezza mi impediva di contare ulteriormente, di speculare ancora su quella natura davvero troppo spirituale e troppo gentile. È così che mi misi deliberatamente in difficoltà con la Provvidenza.
Feci anche, pieno di vergogna, in quel momento, ancora qualche tentativo per tornare da Ford. Piccoli eroismi senza séguito, d’altronde. Arrivai giusto davanti alla porta della fabbrica, ma restai bloccato in quel posto di frontiera, e la prospettiva di tutte quelle macchine che mi aspettavano girando, annientò irrevocabilmente in me le velleità lavorative.
Mi appostai davanti alla grande vetrata del generatore centrale, gigante multiforme che ruggisce pompando e rigurgitando non si sa da dove, non si sa che cosa, da mille tubature lucenti, intricate e viziose come liane. Un mattino che me ne stavo appostato così in contemplazione bavosa, il mio russo del taxi passò da lì. “Di’ un po’, mi ha detto lui, t’hanno buttato fuori brigante!... è da tre settimane che non vieni... Ti hanno già sostituito con una macchina... E dire che ti avevo avvertito...”
“Così, mi son detto allora, almeno è finita... non è il caso di tornarci...” E sono ripartito verso la City. Tornando, sono passato dal consolato, tanto per domandare se avessero mai sentito parlare alle volte d’un francese chiamato Robinson.
“Sicuro! Ma sì! ecco che mi hanno risposto i consoli. È venuto perfino qui a trovarci due volte, e ancora che aveva delle carte false... Non a caso la polizia lo cerca! Lei lo conosce?...” Non ho insistito.
Da allora, mi aspettavo d’incontrarlo ogni momento il Robinson. Sentivo che sarebbe capitato. Molly continuava a essere tenera e ben disposta. Era persino più gentile di prima da quando s’era convinta che volevo andarmene definitivamente. Serviva a niente essere gentili con me. Con Molly, abbiamo percorso spesso i dintorni della città, durante i suoi pomeriggi di permesso.
Piccole colline pelate, boschetti di betulle intorno a laghi minuscoli, gente che leggeva qua e là dei rotocalchi grigiastri sotto il cielo pesante di nuvole di piombo. Evitavamo con Molly le confidenze complicate. E poi, lei era decisa. Era troppo sincera per avere molte cose da dire a proposito di un dispiacere. Quel che le capitava dentro le bastava, nel suo cuore. Ci abbracciavamo. Ma io non l’abbracciavo bene, come avrei dovuto, in ginocchio a essere sinceri. Pensavo sempre un po’ a un’altra cosa al tempo stesso, a non perdere tempo e tenerezza, come se volessi conservare tutto per un non so che di meraviglioso, di sublime, per più tardi, ma non per Molly, e non per questo. Come se la vita si portasse via, mi nascondesse quel che volevo sapere di lei, della vita in fondo al buio, mentre avrei perso il mio slancio ad abbracciare Molly, e che allora non ne avrei più avuto abbastanza, e che avrei perso tutto in fin dei conti per mancanza di forza, che la vita mi avrebbe ingannato come tutti gli altri, la Vita, la vera amante dei veri uomini.
Tornavamo verso la folla e poi la lasciavo davanti alla sua casa, perché la notte, lei era presa dalla clientela fino alle ore piccole. Mentre lei era occupata con i clienti, sentivo ugualmente un senso di pena, e questa pena mi parlava così bene di lei, che la sentivo ancora più vicina che nella realtà. Entravo in un cinema per passare il tempo. All’uscita del cinema salivo su un tram, qui e là, e facevo escursioni nella notte. Dopo le due passate salivano i viaggiatori timidi d una specie che non s’incontra quasi prima di quell’ora, sempre così pallidi e sonnolenti, come docili fagotti, fino ai sobborghi.
Con loro si andava lontano. Ancora più lontano delle fabbriche, verso lotti imprecisi, stradine dalle case indistinte. Sul selciato viscido delle pioggerelle dell’aurora il giorno veniva a brillare in azzurro. I miei compagni del tram sparivano insieme alle loro ombre. Chiudevano gli occhi sul giorno. Farli parlare quegli scontrosi, che fatica. Troppa fatica. Non si lamentavano, no, erano quelli che pulivano durante la notte i negozi e gli uffici di tutta la città, dopo la chiusura. Sembravano meno inquieti di noialtri, gente del giorno. Forse perché erano arrivati, loro, al gradino più basso delle persone e delle cose.
Una di quelle notti, poiché avevo preso ancora un altro tram ed era il capolinea e si scendeva con cautela, m’è sembrato che mi chiamassero per nome “Ferdinand! Ehi Ferdinand!” Faceva per forza un effetto quasi scandaloso in quella penombra. Mi piaceva mica. Sopra i tetti, il cielo rinveniva già a piccole onde fredde, ritagliate dalle grondaie. Certo che mi chiamavano. Voltandomi, l’ho riconosciuto sùbito Léon. M’ha ritrovato sussurrando e allora ci siamo spiegati tutti e due.
Anche lui tornava da pulire un ufficio con gli altri. È tutto quel che aveva trovato come espediente. Camminava con attenzione, con un po’ di autentica solennità, come se avesse appena compiuto cose pericolose e per così dire sacre in città. È la posa che prendevano d’altra parte tutti quei pulitori notturni, l’avevo già notato. Nella fatica e nella solitudine il divino se ne esce dagli uomini. Ne aveva gli occhi pieni anche lui quando li apriva molto più grandi degli occhi normali, nella penombra bluastra in cui stavamo. Aveva già pulito anche lui distese di lavandini a non finire e fatto brillare autentiche montagne di piani e piani di silenzio.
Ha aggiunto: “Ti ho riconosciuto sùbito Ferdinand! Dal modo come sei salito sul tram... Figùrati, solo per il modo com’eri triste quando hai scoperto che non c’era una donna. Mica vero? Mica quello il tuo genere?” Era vero che era il mio genere. Avevo proprio un’anima sciamannata come una patta. Nulla dunque che poteva stupirmi in quella giusta osservazione. Ma quel che piuttosto mi ha sorpreso è che anche lui non ce l’aveva fatta in America. Era per niente quel che avevo previsto.
Gliene ho parlato, a lui, del colpo della galera a San Tapeta. Ma non capiva cosa quello voleva dire. “Ci hai la febbre!” mi ha risposto semplicemente. Lui era con un cargo che era arrivato. Aveva ben cercato di piazzarsi da Ford ma i suoi documenti davvero troppo falsi perché uno osasse tirarli fuori lo bloccavano. “Va giusto bene tenerli in tasca” osservava lui. Per le squadre di pulizia non facevano i difficili sullo stato civile. Nemmeno pagavano molto, ma si passava mano. Era una specie di legione straniera della notte.
“E te cos’è che fai? mi ha domandato allora. Dunque stai sempre a fare il balengo? Non ce n’hai ancora basta di trucchi e trigomiri? Hai ancora la mania dei viaggi?
- Voglio tornare in Francia, gli dissi io, ne ho viste abbastanza, hai ragione tu, basta...
- Fai meglio, mi ha risposto lui, perché per noi i giochi sono fatti... Siamo invecchiati senza accorgerci, so cos’è...
Vorrei ben tornare anch’io, ma è sempre i documenti... Aspetterò ancora un po’ per procurarmene di buoni... Si può mica dire che è malvagio il lavoro che si fa. C’è di peggio. Ma io imparo nemmeno l’inglese. Dopo trent’anni di pulizie ce ne sono nel giro che hanno imparato in tutto solo Exit perché sta sulle porte che lustriamo, e poi Lavatory. Capisci?”
Capivo. Se mai Molly veniva a mancarmi sarei stato proprio costretto a reclutarmi anch’io, nello sgobbo di notte.
Non c’è motivo che quello finisca.
Insomma, fin che sei in guerra, si dice che sarà meglio in pace e ti ciucci quella speranza come se fosse una caramella e poi invece non è che merda. Non si osa dirlo prima per non disgustare nessuno. Si è gentili tutto sommato. E poi un bel giorno si finisce comunque per cantarla chiara davanti a tutti. Ne hai abbastanza di rigirarti nella merda fin qui. Ma tutti trovano di colpo che sei proprio un maleducato. E basta.
Dopo quello, ci siamo dati appuntamento per due o tre volte, con Robinson. Aveva proprio una brutta faccia. Un disertore francese che fabbricava liquori di contrabbando per la mala di Detroit gli aveva ceduto un pezzetto del suo “business”. ‘Sta cosa lo tentava Robinson. “Ne farei proprio un po’ anch’io di “rabbiosa” per quei brutti musi, mi confidava lui, ma vedi te ho perso il fegato... Sento che al primo pulotto che mi mena, mi sgonfio... Ne ho viste troppe... E poi in più ci ho sonno tutto il tempo... Per forza, dormire di giorno, è mica dormire... Senza contare la polvere degli uffici che ti smaneggi a pieni polmoni... Ti rendi conto?... Ci crepa un uomo...”
Ci siamo dati appuntamento per un’altra notte. Sono tornato a trovare Molly e le ho raccontato tutto. Per nascondermi la pena che le facevo, s’è data un gran daffare, ma comunque non era difficile vedere che ce l’aveva. L’abbracciavo più spesso adesso ma era un dispiacere profondo il suo, più vero che da noi, perché noialtri abbiamo piuttosto l’abitudine di dirlo più grosso di quel che è. Con gli americani è il contrario. Non osano capire, ammetterlo. È un po’ umiliante, ma comunque, è proprio pena, non è orgoglio, non è nemmeno gelosia, né scene, è nient’altro che la vera pena del cuore e bisogna ben dirsi che tutto questo ci manca dentro e quanto al piacere di provare della pena siamo a secco. Ci vergogniamo di non essere ricchi di cuore e di tutto e anche d’aver comunque giudicato l’umanità più bassa di quel che in fondo è davvero.
Di quando in quando, si lasciava andare Molly a farmi comunque un piccolo rimprovero, ma sempre in termini molto misurati, molto garbati.
“Sei molto gentile, Ferdinand, mi diceva lei, e so che fai degli sforzi per non diventare cattivo come gli altri, soltanto, non so se sai bene quello che in fondo tu desideri... Pensaci bene! Bisognerà che ti trovi da mangiare quando sarai tornato laggiù, Ferdinand... E altrove non potrai più passeggiare come qui a fantasticare per notti e notti... Come ti piace tanto fare... Mentre io lavoro... Ci hai pensato Ferdinand?”
In un certo senso, aveva ragione, ma a ciascuno il suo. Avevo paura di ferirla. Soprattutto perché lei si feriva facilmente.
“Ti assicuro che ti amo, Molly, e ti amerò sempre... come posso... a modo mio.”
Il mio modo, non era molto. Era bene in carne però Molly, molto attraente. Ma avevo anche quella brutta inclinazione per i fantasmi. Forse nient’affatto per colpa mia. La vita vi obbliga a restare un po’ troppo spesso coi fantasmi.
“Tu sei molto affettuoso, Ferdinand, mi rassicurava lei, non piangere per me... Tu sei come malato della voglia di saperne sempre di più... Ecco tutto... Insomma, devi fare la tua strada... Di là, tutto solo... è il viaggiatore solitario quello che va più lontano... Partirai presto allora?
- Sì, vado a finire gli studi in Francia, e poi tornerò, l’assicuravo io con faccia di bronzo.
- No, Ferdinand, non tornerai più... E poi non sarò nemmeno più qui...”
Non era stupida.
Arrivò il momento della partenza. Andammo una sera verso la stazione un po’ prima dell’ora in cui tornava nella casa. In giornata ero andato a salutare Robinson. Non era contento nemmeno lui che lo lasciassi. Non la smettevo di lasciare tutti. Sulla banchina della stazione, aspettando il treno con Molly, passarono degli uomini che fecero finta di non conoscerla, ma bisbigliarono delle cose.
“Ecco che sei già lontano, Ferdinand. Tu fai, vero, Ferdinand, esattamente quel che hai voglia di fare! Ecco quel che importa... è solo questo che conta...”
Il treno è entrato in stazione. Non ero più molto sicuro della mia avventura quando ho visto la macchina. L’ho abbracciata Molly con tutto il coraggio che avevo ancora nella carcassa. Avevo una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini.
È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire.
Sono passati degli anni da quella partenza e poi ancora anni... Ho scritto spesso a Detroit e poi altrove a tutti gli indirizzi che mi ricordavo e dove potevano conoscerla, seguirla Molly. Non ho mai ricevuto risposta.
Il casotto è chiuso adesso. È tutto quello che ho potuto sapere. Buona, ammirevole Molly, vorrei se può ancora leggermi, da un posto che non conosco, che lei sapesse che non sono cambiato per lei, che l’amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando vuole a dividere il mio pane e il mio destino furtivo. Se lei non è più bella, ebbene tanto peggio! Ci arrangeremo! Ho conservato tanto della sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora per tutti e due e per almeno vent’anni ancora, il tempo di arrivare alla fine.
Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque, ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d’America.