Tania m’ha svegliato nella camera dove avevamo finito per andare a passare la notte. Erano le dieci del mattino. Per togliermela d’attorno le ho raccontato che non mi sentivo molto bene e sarei restato ancora un po’ a letto.
La vita riprendeva. Lei ha fatto finta di credermi. Non appena se ne fu andata, mi misi a mia volta in cammino. Avevo qualcosa da fare, in verità. Quella sarabanda della notte precedente m’aveva lasciato come uno strano gusto di rimorsi. Il ricordo di Robinson tornava a tormentarmi. Era vero che l’avevo abbandonato al suo destino quello là e peggio ancora, alle cure di don Protiste. Era tutto dire. Certo avevo sentito raccontare che tutto andava per il meglio laggiù, a Tolosa, e che la vecchia Henrouille era perfino diventata tutta gentile nei suoi riguardi. Soltanto, in certi casi, si sa, uno capisce quasi solo quello che vuole sentire e gli funziona meglio... Quelle vaghe indicazioni non provavano in fondo proprio niente.
Inquieto e curioso, mi diressi verso Rancy a caccia di notizie, ma che fossero esatte, precise. Per andarci, bisognava ripassare dalla rue des Batignolles dove abitava Pomone. Era la mia strada. Arrivando dalle sue parti, fui molto sorpreso di scorgerlo di persona all’angolo della strada, Pomone, come intento a pedinare un signore magretto a qualche distanza. Per uno come Pomone che non usciva mai, quello doveva essere un vero avvenimento. L’ho riconosciuto pure lui il tipo che seguiva, era un cliente, il “Cid” si faceva chiamare nella corrispondenza. Ma sapevamo anche da certe soffiate che lavorava alle poste il “Cid”.
Da anni perseguitava Pomone perché gli trovasse un’amichetta beneducata, il suo sogno. Ma le signorine che gli presentavano, non erano mai abbastanza educate per i suoi gusti. Facevano degli sbagli, asseriva lui. Allora questo non andava bene. Quando uno ci pensa esistono due grandi generi di amichette, quelle che hanno “le idee larghe” e quelle che hanno ricevuto “una buona educazione cattolica”. Due modi per le poveracce di sentirsi superiori, due modi anche di eccitare gli inquieti e gli insaziabili, il genere “dissipato” e il genere “maschietta”.
Tutti i risparmi del “Cid” erano stati inghiottiti mese dopo mese in quelle ricerche. Adesso era arrivato con Pomone alla fine delle proprie risorse e delle speranze. In sèguito, ho saputo che era andato a suicidarsi il “Cid” quella stessa sera in un terreno abbandonato. D’altronde, non appena ho visto Pomone uscire da casa sua m’era venuto il sospetto che stava capitando qualcosa d’anormale. Li ho così seguiti abbastanza a lungo attraverso quel quartiere che va a perdere i suoi negozi lungo le strade e anche i suoi colori uno dopo l’altro e finire così in osterie malandate giusto ai confini del dazio. Quando non si ha fretta, ci si perde facilmente in quelle strade, disorientati come si è sùbito dalla tristezza e dalla troppa indifferenza del posto. Ad averci un po’ di soldi ci sarebbe da prendere sùbito un taxi per scappare tanto ci si annoia. Quelli che ci incontri si trascinano dietro un destino così pesante che uno si sente imbarazzato per loro. Dietro le finestre con le tendine, c’è da star sicuri che dei piccoli borghesi hanno lasciato il gas aperto. Ci si può far niente. Cribbio! si dice uno, non è molto.
E poi nemmeno una panchina per sedersi. È marrone e grigio dappertutto. Quando piove, piove anche dappertutto, di faccia e di lato e la strada allora scivola come il dorso di un grosso pesce con una striscia di pioggia in mezzo. Non si può neanche dire che è il disordine quel quartiere lì, e piuttosto come una prigione, quasi ben tenuta, una prigione che non ha bisogno di porte.
A gironzolare a quel modo, ho finito per perdere Pomone e il suo suicida proprio dopo la rue des Vinaigriers. Ecco che ti ero arrivato così vicino a La Garenne-Rancy che non mi sono potuto trattenere da andare a dare un’occhiata da sopra le fortificazioni.
Da lontano, è seducente La Garenne-Rancy, non si può negare, per via degli alberi del grande cimitero. Per un pelo uno ci cascherebbe e giurerebbe che è il Bois de Boulogne.
Quando si vogliono a tutti i costi delle notizie di qualcuno, bisogna andare a chiedere a quelli che sanno. Dopo tutto, mi son detto allora, non ho molto da perdere se gli faccio una visitina agli Henrouille. Dovevano sapere com’è che andavano le cose di Tolosa. Ecco lì l’imprudenza che ho commesso. Non stai in guardia. Non sai d’esserci arrivato e invece ci sei già in pieno nelle sporche regioni della notte. Allora ti càpita sùbito una disgrazia. Basta un niente e poi tanto per cominciare non bisognava cercare di rivedere certa gente, soprattutto quelli. Non ne esci più dopo.
Di svolta in svolta mi ritrovai come riportato dall’abitudine a pochi passi dalla villetta. Non mi capacitavo di rivederla nello stesso posto la villetta. Si mise a piovere. Più nessuno in strada tranne me, che non osavo più andare avanti. Stavo anche per ritornarmene senza insistere quando la porta della villetta si è aperta un poco, quel che basta perché mi facesse segno di venire la nuora. Lei di sicuro, lei vedeva tutto. Mi aveva intravisto esitante sul marciapiede di fronte. Non ci tenevo più adesso ad avvicinarmi ma lei insisteva e perfino mi chiamava col mio nome.
“Dottore!... Venga sùbito!”
Così mi chiamava lei, d’autorità... Avevo paura d’essere notato. Mi affrettai allora a salire gli scalini e a ritrovare il piccolo corridoio con la stufa e a rivedere tutta la scena. Quello mi ha ridato comunque una strana inquietudine. E poi, lei si mise a raccontare che suo marito era molto malato da due mesi e anche che andava sempre peggio.
Sùbito, naturalmente, diffidenza.
“E Robinson?” chiedo io premuroso.
Dapprincipio lei elude la domanda. Alla fine si decide.
“Stanno bene tutti e due... La combinazione funziona bene a Tolosa” ha finito per rispondere lei, ma così, frettolosamente. E senza dir altro, mi intrattiene di nuovo sul marito malato. Vuole che vada a occuparmi sùbito del marito e senza perdere nemmeno un minuto. “Che son così fidato... Che lo conoscevo così bene suo marito... E tiritì e tirità... Che lui si fida solo di me... Che non ha voluto vederne un altro di medico... Che non sapevano più il mio indirizzo...” Insomma delle menate.
Quanto a me, ci avevo le mie ragioni per paventare che ‘sta malattia del marito avesse anche delle strane origini. Ero stato pagato per conoscerla bene la consorte e gli usi della casa pure. Comunque una diabolica curiosità mi fece salire in camera.
Lui era esattamente coricato nello stesso letto in cui avevo curato Robinson dopo l’incidente, qualche mese prima.
In qualche mese come cambia una camera, anche quando non si tocca niente. Per quanto vecchie, per quanto degradate siano, le cose, trovano ancora, non si sa dove, la forza d’invecchiare. Tutto era già cambiato intorno a noi. Non gli oggetti al loro posto, certo, ma le cose stesse, in profondità. Sono diverse quando le ritrovi le cose, loro possiedono, si direbbe, più forza per andare dentro di noi più tristemente, più profondamente ancora, più dolcemente di prima, per fondersi in quella specie di morte che cresce lentamente in noi, quietamente, giorno dopo giorno, vilmente, davanti alla quale ci si prepara ogni giorno a difendersi un po’ meno del giorno prima. Da una volta all’altra, la si vede frollare, raggrinzirsi in noi stessi la vita, gli esseri e le cose insieme, che avevamo lasciato banali, preziosi, temibili qualche volta. La paura della fine ha marcato tutto con le sue rughe mentre trottavamo per la città dietro il piacere o il pane.
Presto non ci saranno più che persone e cose inoffensive, miserande e disarmate tutt’intorno al nostro passato nient’altro che errori diventati muti.
La donna mi lasciò solo col marito. Non era brillante il marito. Non aveva più molta circolazione. Era al cuore che aveva ‘sta cosa.
“Sto morendo”, ripeteva lui, con gran semplicità d’altronde.
Quando mi trovavo in casi del genere mi veniva una specie di estro da sciacallo. Lo ascoltavo battere il suo cuore, solo per fare qualcosa di circostanza, i pochi gesti che si aspettavano. Correva il suo cuore, si poteva dirlo, dietro le costole, rinchiuso, correva dietro la vita, a strappi, ma aveva un bel saltare, non la beccava più la vita. Era cotto. Presto a forza di incespicare, finirebbe in vacca il suo cuore tutto zuppo, rosso e sbavante come una vecchia melagrana schiacciata. Così lo si vedrebbe il suo cuore floscio, sul marmo, tagliato dal coltello dopo l’autopsia, di lì a pochi giorni. Perché tutto finirebbe con una bella autopsia giudiziaria. Lo prevedevo, visto che tutta la gente del quartiere ne avrebbe raccontate di storie pepate su quella morte che avrebbe trovato per niente normale, dopo il resto.
L’aspettavano al varco nel quartiere sua moglie con il cancan accumulato con la faccenda precedente che restava sul piatto. Quello sarebbe capitato più in là. Al momento il marito non sapeva come comportarsi, né come morire. Era come già un po’ uscito dalla vita, ma non riusciva lo stesso a disfarsi dei suoi polmoni. Cacciava l’aria, l’aria tornava. Avrebbe voluto proprio lasciarsi andare, ma doveva vivere lo stesso, fino alla fine. Era uno sfogo atroce, che lo faceva strabuzzare.
“Non mi sento più i piedi, gemeva lui... Sento freddo fino alle ginocchia...” Voleva toccarsi i piedi, non poteva più.
Anche bere, non ci riusciva lo stesso. Era quasi finito. Passandogli la tisana preparata dalla moglie, mi chiedevo cosa poteva mai averci messo dentro. Aveva mica un buon odore la tisana, ma l’odore non è una prova, la valeriana ha un cattivo odore del suo. E poi a soffocare come soffocava il marito non aveva più molta importanza che fosse strana la tisana. Lui si dava comunque un gran daffare, lavorava moltissimo, con tutto quel che gli restava di muscoli sotto la pelle, per riuscire a soffrire e soffiare ancora. Si batteva tanto contro la vita che contro la morte. Sarebbe giusto scoppiare in quei casi lì. Quando la natura comincia a fottersene si direbbe che non ci sono più limiti. Dietro la porta, la moglie ascoltava la visita che facevo, ma la conoscevo bene io sua moglie. Zitto zitto, sono andato a sorprenderla. “Cucù! Cucù!” le ho fatto io. Quello non l’ha irritata per niente e lei stessa è venuta a parlarmi all’orecchio.
“Bisognerebbe, mi mormora lei, che lei gli faccia togliere la dentiera... Deve disturbarlo a respirare la dentiera...” Io, volevo proprio che se la togliesse in effetti la dentiera.
“Ma glielo dica lei stessa!” le ho consigliato io. Era delicata come incombenza da fare nel suo stato.
“No! No! sarebbe meglio lo facesse lei! insiste quella. Da me, gli farebbe un nonsoché...
- Ah! Mi stupisco io, perché?
- È trent’anni che la porta e mai me ne ha parlato...
- Si può forse lasciargliela allora? propongo io. Visto che è abituato a respirare con quella...
- Oh no! mi farei dei rimproveri!” ha risposto lei con una certa emozione nella voce...
Ritorno pian piano nella camera. Mi sente tornare vicino a lui il marito. Gli fa piacere che torni. Tra le crisi di soffoco mi parlava ancora, cercava d’essere un po’ gentile con me. Mi chiedeva notizie, se avevo trovato un’altra clientela... “Sì, sì” rispondevo io a tutte ‘ste domande. Sarebbe stato troppo lungo e complicato stare a spiegargli i dettagli. Non era il momento. Nascosta dietro il battente della porta, la moglie mi faceva dei segni che gli domandassi ancora di togliersi la dentiera. Allora m’avvicinai all’orecchio al marito e gli consigliai a voce bassa di togliersela. Che gaffe! “L’ho gettata nel cesso!...” fa lui allora con occhi ancora più spaventati. Una civetteria insomma. Rantola per un bel po’, dopo di quello.
Uno fa l’artista con quello che trova. Lui era per la dentiera che aveva provato un grande imbarazzo estetico tutta la vita.
Il momento delle confessioni. Avrei voluto approfittarne per farmi dire quello che pensava su quel che era capitato a proposito di sua madre. Ma lui non poteva più. Vaneggiava. S’è messo a sbavare moltissimo. La fine. Non c era più modo di cavargli una frase. Gli asciugai la bocca e tornai giù. Sua moglie nel corridoio da basso non era per niente contenta e m ha quasi gridato per via della dentiera, come se fosse colpa mia.
“D’oro! era, Dottore... Io lo so! Io so quanto l’ha pagata!... Non ne fanno più così!...” Tutta una storia. “Salgo a provare ancora” le propongo io tanto ero imbarazzato. Ma allora viene anche lei.
Stavolta, non ci riconosceva quasi più il marito. Solo un po’. Rantolava un po’ meno forte di quando stavamo vicino a lui, come se avesse voluto sentire tutto quello che dicevamo tra noi, sua moglie ed io.
Non sono andato ai funerali. Non c’è stata autopsia come avevo un po’ temuto. È filata via alla chetichella. Ma questo non toglie che ci eravamo arrabbiati sul serio tutti e due, con la vedova Henrouille, per la dentiera.