Per essere ben visti e considerati, bisognò sbrigarsi alla svelta a diventare buoni amici dei borghesi perché quelli, nelle retrovie, man mano che la guerra andava avanti diventavano sempre più viziosi. L’ho capito sùbito tornando a Parigi e anche che le loro donne avevano il fuoco al culo, e i vecchi delle fauci grosse così, e le mani dappertutto, sui culi, nelle tasche.

Si ereditavano combattenti dalle retrovie, s’era imparata in fretta la gloria e i modi giusti di sopportarla con coraggio e senza dolore.

Le madri, un po’ infermiere, un po’ martiri, non lasciavano più i loro lunghi veli scuri, e nemmeno il diplomino che il Ministro gli faceva consegnare per tempo da un impiegato del Municipio. Insomma, le cose si andavano organizzando.

Durante dei funerali di classe, uno è anche molto triste ma pensa comunque all’eredità, alle vacanze imminenti, alla vedova che è carina, e che ha del temperamento, dicono, e a vivere ancora, tu, proprio tu, per contrasto, molto a lungo, a crepare mai, forse... Chi lo sa?

Quando vai dietro a una sepoltura, ti fanno tutti delle grandi scappellate. Quello fa piacere. Allora è il momento di comportarsi bene, di avere l’aria a posto, di non scherzare ad alta voce, di rallegrarsi solo nell’intimo. È permesso. Tutto è permesso, nell’intimo.

In tempo di guerra, invece di ballare nell’ammezzato, si ballava in cantina. I combattenti lo tolleravano, e, meglio ancora, gli piaceva. Lo chiedevano appena arrivati e nessuno trovava indecenti questi modi. È il coraggio che in fondo è indecente. Fare i coraggiosi col proprio corpo? Chiedete un po’ anche al verme di essere coraggioso, è roseo, pallido e molle, come tutti noi.

Per parte mia, non avevo più da lamentarmi. Stavo persino per affrancarmi con la medaglia militare che m’ero guadagnata, la ferita e tutto. In convalescenza, me l’avevano portata la medaglia, addirittura in ospedale. E lo stesso giorno, me ne andai a teatro, per esibirla ai borghesi durante gli intervalli. Grande effetto. Erano le prime medaglie che si vedevano a Parigi. Un affare!

È proprio in quell’occasione, che nel foyer dell’Opéra-Comique ho incontrato la piccola Lola d’America, ed è per merito suo che mi sono completamente scaltrito.

Ci sono date del genere che contano in mezzo ai tanti mesi in cui uno potrebbe benissimo fare a meno di vivere. ‘Sto giorno della medaglia all’Opéra-Comique fu uno di quelli, decisivo.

Per causa sua, di Lola, son diventato maniaco degli Stati Uniti, per via delle domande che le facevo sùbito e a cui lei rispondeva appena. Quando uno si lancia a ‘sto modo nei viaggi, torna quando può e come può...

All’epoca di cui parlo, a Parigi tutti volevano avere la loro bella uniforme. C’erano quasi solo i neutrali e le spie che non l’avevano, che poi erano circa gli stessi. Lola ce ne aveva una sua di uniforme ufficiale, molto carina, decorata con piccole croci rosse dappertutto, sulle maniche, sullo svelto berretto militare, civettuolo, sempre messo di traverso sui capelli ondulati. Era venuta ad aiutarci a salvare la Francia, confidò lei al direttore dell’hôtel, per quanto potevano le sue deboli forze, ma con tutto il cuore! Ci capimmo sùbito, però non completamente, perché gli slanci del cuore mi erano diventati completamente indigesti. Preferivo quelli del corpo, semplicemente. Bisogna diffidare moltissimo del cuore, l’avevo imparato e come! in guerra. E non me lo dimenticavo certo.

Il cuore di Lola era tenero, debole ed entusiasta. Il corpo era grazioso, molto gradevole, e dovetti prenderla tutta insieme come si ritrovava. Era una ragazza proprio carina Lola dopo tutto, solo che c’era la guerra tra noi, questa fottuta smisurata rabbia che spingeva metà degli umani volenti o no, a spedire l’altra metà al mattatoio. Allora disturbava nelle relazioni, per forza, una mania come quella. Per me che tiravo di lungo la convalescenza fin che potevo e che ci tenevo per niente a riprendere il turno nel cimitero ardente delle battaglie, il ridicolo del nostro massacro mi saltava fuori, nel suo falso splendore, ad ogni passo che facevo in città. Una furberia sconfinata si pavoneggiava dappertutto.

Tuttavia avevo poche speranze di farla franca, non avevo nessuna delle conoscenze indispensabili per tirarsi fuori. Conoscevo solo dei poveri, cioè gente la cui morte non interessa a nessuno. Quanto a Lola, non bisognava contare su di lei per imboscarsi. Anche se era infermiera, non si poteva immaginare, tranne Ortolan, forse, un essere più combattivo di quella ragazza incantevole. Prima di aver traversato la fricassea fangosa degli eroismi, la sua arietta da Giovanna d’Arco mi avrebbe forse eccitato, convertito, ma adesso, dopo il mio arruolamento a Place Clichy, davanti ad ogni eroismo verbale o reale ero diventato fobicamente ostico. Ero guarito, guarito bene.

Per la comodità delle dame del Corpo di spedizione americano, il gruppo di infermiere di cui Lola faceva parte alloggiava all’Hôtel Paritz e per renderle, specie a lei, le cose ancora più simpatiche, le avevano affidato (aveva delle conoscenze) nello stesso hôtel la direzione d’un servizio speciale, quello delle frittelle di mele per gli ospedali di Parigi. Ne distribuivano ogni mattino migliaia di dozzine. Lola svolgeva questa umana funzione con un certo zelo che doveva d’altronde un po’ più tardi mettersi a girare proprio male.

Lola, bisogna dirlo, non aveva mai preparato frittelle in vita sua. Lei arruolò un certo numero di cuoche mercenarie e le frittelle, dopo qualche prova, furono pronte per essere puntualmente consegnate sugose, dorate e zuccherate a meraviglia. Lola insomma non aveva da far altro che assaggiarle prima che fossero mandate ai vari servizi ospedalieri. Ogni mattina Lola si alzava verso le dieci e scendeva, dopo aver fatto il bagno, nelle cucine situate in profondità, vicino alle cantine. Questo, ogni mattina, dico, vestita soltanto d’un chimono giapponese nero e giallo che un suo amico di San Francisco le aveva regalato il giorno prima che partisse.

Tutto filava stupendamente insomma, e noi stavamo anche vincendo la guerra, quando un bel giorno, all’ora di pranzo, la trovai sconvolta, che si rifiutava di toccare un solo piatto del pasto. Fui assalito dal timore che fosse capitata una disgrazia, una malattia improvvisa. La scongiurai di contare sul mio vigile affetto.

Per aver assaggiato puntualmente le frittelle per tutto un mese, Lola era ingrassata di un buon chilo! D’altra parte la sua cintura, con un buco, testimoniava il disastro. Furono lacrime. Cercando di consolarla meglio che potevo, abbiamo passato in rassegna, sotto la sferza dell’emozione, in tassì, vari farmacisti, piazzati nei posti più diversi. Per combinazione, implacabili, tutte le bilance confermarono che il chilo c’era tutto bello e buono, innegabile. Le suggerii di passare il servizio a una collega che lei, al contrario, aspirava alle tettone. Lola non volle saperne di un compromesso che considerava come una vergogna e una vera piccola diserzione nel suo genere. Fu anzi in quella stessa occasione che mi rivelò che un suo pro-prozio aveva fatto parte, anche lui, dell’equipaggio nei secoli glorioso del Mayflower, sbarcato a Boston nel 1677, e che in considerazione di memorie di quel genere, non poteva sognarsi di sottrarsi, lei, al dovere delle frittelle, modesto, certo, ma comunque sacro.

Fatto sta che da quel giorno lei assaggiava le frittelle solo con la punta dei denti, che peraltro aveva tutti a posto e carini. ‘Sta angoscia d’ingrassare era arrivata a rovinarle ogni piacere. Deperiva. Ebbe in poco tempo una paura delle frittelle pari a quella che io avevo delle granate. Il più delle volte adesso andavamo a fare passeggiate igieniche in lungo e in largo, per colpa delle frittelle, sui viali, sui boulevards, ma non entravamo più dal Napolitain, perché i gelati, anche quelli, fanno ingrassare le signore.

Mai avevo sognato nulla di tanto confortevolmente abitabile come la sua camera, tutta in blu pallido, con bagno a fianco. Foto di suoi amici, dappertutto, dediche, poche di donne, molte di uomini, bei ragazzi, bruni e ricci, il suo tipo, lei mi parlava del colore dei loro occhi, e poi di quelle dediche tenere, solenni e, tutte, definitive. All’inizio, per educazione, provavo imbarazzo in mezzo a tutte quelle effigi, poi ci si abitua.

Quando smettevo di baciarla, lei ci tornava sopra, non potevo scappare, sul tema della guerra o delle frittelle. La Francia aveva un bel posto nelle nostre conversazioni. Per Lola, la Francia restava una specie di entità cavalleresca dai contorni poco definiti nello spazio e nel tempo, ma in quel momento gravemente ferita e proprio per questo molto eccitante. A me, quando mi parlavano della Francia, pensavo irresistibilmente alle mie trippe, per forza, ero molto più riservato su quel che riguardava l’entusiasmo. A ciascuno il suo terrore. Tuttavia, poiché lei era disponibile in fatto di sesso, l’ascoltavo senza mai contraddirla. Ma sul lato spirituale, non la contentavo affatto. Tutto una vibrazione, un irraggiamento, m’avrebbe voluto lei e io, da parte mia, non capivo assolutamente perché avrei dovuto essere in quello stato lì, sublime, vedevo al contrario mille ragioni, tutte inconfutabili, per restare d’un umore esattamente contrario.

Lola, dopo tutto, non faceva che divagare su felicità e ottimismo, come tutte le persone che sono dalla parte giusta della vita, quella dei privilegi, della salute, della sicurezza e che hanno ancora da vivere per un bel po’.

Lei mi tormentava con le cose dell’anima, se ne riempiva la bocca. L’anima, è la vanità e il piacere del corpo finché uno è in gamba, ma è anche la voglia di uscire dal corpo quand’è malato o le cose girano male. Delle due cose uno si prende quella che funziona meglio sul momento, ecco tutto! Fin che si può scegliere tra le due, va bene. Ma io, non potevo più scegliere, i giochi erano fatti! Stavo nella mia verità fino in fondo, e poi la mia stessa morte mi seguiva per così dire passo passo. Facevo fatica a pensare ad altro che al mio destino d’assassinato con la condizionale, che tutti d’altronde trovavano assolutamente normale per me.

Questa specie d’agonia differita, lucida, ben portante, durante la quale è impossibile capire altro che non siano le verità assolute, bisogna averla sperimentata per sapere per sempre quel che si dice.

La mia conclusione era che i tedeschi potevano arrivare qui, massacrare, saccheggiare, incendiare tutto, l’hôtel, le frittelle, Lola, le Tuileries, i ministri, i loro amichetti, la Coupole, il Louvre, i grandi magazzini, piombare sulla città, spararci fulmini e saette, il fuoco dell’inferno, in questa fiera putrefatta a cui non si poteva davvero aggiungere qualcosa di più sordido e che io, io non avevo però niente da perdere, niente, e tutto da guadagnare.

Non si perde gran che quando brucia la casa del padrone. Ne verrà sempre un altro, se non è sempre lo stesso, tedesco o francese, o inglese o cinese, per presentarti, vero?, il conto al momento giusto... In marchi o franchi? Dal momento che bisogna pagare...

Insomma, era maledettamente a terra, il morale. Se le avessi detto quel che pensavo della guerra, a Lola, mi avrebbe semplicemente preso per un mostro, e cacciato dalle residue dolcezze della sua intimità. Dunque me ne guardavo bene, dal farle queste confessioni. Sperimentavo d’altra parte varie difficoltà e rivalità. C’erano degli ufficiali che cercavano di soffiarmela, Lola. La loro concorrenza era temibile, armati com’erano, loro, del fascino della Legion d’onore. Ora, si misero a parlarne molto di questa famosa Legion d’onore i giornali americani. Credo anzi che le due o tre volte che mi ritrovai con le corna, le nostre relazioni avrebbero subìto gravi pericoli, se in quello stesso momento quella frivola non mi avesse scoperto all’improvviso un utilità superiore, che consisteva nell’assaggiare ogni mattina le frittelle al posto suo.

Questa specializzazione dell’ultimo minuto mi salvò. Da me, lei accettava la sostituzione. Non ero forse anch’io un valoroso combattente, dunque degno di quelle mansioni di fiducia! Da allora, noi non fummo solo amanti, ma soci. Così cominciarono i tempi moderni.

Il suo corpo era per me una gioia che non finiva mai. Non ne avevo mai basta di percorrerlo, quel corpo americano. A dire il vero ero un gran maiale. Lo restai.

Mi formai anche il grato e tonificante convincimento che un paese capace di produrre corpi così impudenti nella loro grazia e di uno slancio spirituale così invidiabile doveva offrire ben altre rivelazioni capitali, in senso biologico si capisce.

Decisi, a forza di pastrugnare Lola, di intraprendere prima o dopo un viaggio negli Stati Uniti, come un vero pellegrinaggio, e quello appena possibile. In effetti non conobbi tregua o riposo (pur attraverso una vita implacabilmente difficile e tormentata) prima di aver condotto a buon fine quell’avventura profonda, misticamente anatomica.

Ricevetti così nelle immediate vicinanze del didietro di Lola il messaggio d’un nuovo mondo. Lei non aveva solo un corpo, Lola, intendiamoci bene, era anche dotata di una testa fine, graziosa e un po’ crudele per via degli occhi blu-grigio che le risalivano un tantino agli angoli, come quelli dei gatti selvatici.

Al solo guardarla in faccia, mi faceva venire l’acquolina in bocca come quando ti pregusti un bel vino secco, corposo. Occhi duri, per riassumere, e per nulla animati da quella gentile vivacità commerciale, oriental-fragonardesca che hanno quasi tutti gli occhi di qui.

Il più delle volte ci si trovava in un caffè lì vicino. I feriti sempre più numerosi zoppicavano per le strade, spesso sciamannati. Per aiutarli si organizzavano delle collette, “Giornate” per questi, per quelli, e soprattutto per gli organizzatori delle “Giornate”. Mentire, scopare, morire. Avevano appena proibito di tentare qualcos’altro. Si mentiva con rabbia al di là dell’immaginabile, molto al di là del ridicolo e dell’assurdo, nei giornali, sui manifesti, a piedi, a cavallo, in vettura. Ci si erano messi tutti. Si faceva a chi mentiva molto più degli altri. Presto, non ci fu più verità in città.

Il poco che uno ci trovava nel 1914, adesso se ne vergognava. Tutto quel che toccavi era truccato, lo zucchero, gli aeroplani, i sandali, le marmellate, le foto; tutto quel che leggevi, inghiottivi, succhiavi, ammiravi, proclamavi, confutavi, difendevi, tutto quello non erano altro che fantasmi pieni d’odio, falsificazioni e mascherate. Perfino i traditori erano falsi. Il delirio di mentire e di credere ti si attacca come la rogna. La piccola Lola conosceva del francese solo poche frasi, ma tutte patriottiche: “On les aura!...”, “Madelon, viens!...” C’era da piangere.

Lei si chinava così sulla nostra morte con ostinazione, impudicizia, come tutte le donne d’altra parte, da quando è arrivata la moda di essere coraggiose per gli altri. E io che appunto mi scoprivo un gran gusto per tutte le cose che mi allontanavano dalla guerra! Le ho chiesto a più riprese informazioni sulla sua America, a Lola, ma lei rispondeva solo con commenti assolutamente vaghi, pretenziosi e manifestamente confusi, cercando di fare una brillante impressione sul mio spirito.

Ma diffidavo delle impressioni adesso. Mi avevano buggerato una volta con l’impressione, non m’avrebbero più cuccato con gli imbonimenti. Nessuno.

Credevo al suo corpo, non credevo al suo spirito. La consideravo un’incantevole imboscata, la Lola, sul rovescio della guerra, sul rovescio della vita.

Lei passava attraverso la mia angoscia con la mentalità del Petit Journal: Pompon, Fanfara, la mia Lorena e guanti bianchi... Nell’attesa le facevo delle carinerie sempre più frequenti, perché le avevo garantito che quello la farebbe dimagrire. Ma per arrivarci lei contava piuttosto sulle nostre lunghe passeggiate. Le detestavo, io, le lunghe passeggiate. Ma lei insisteva.

Così frequentammo assai sportivamente il Bois de Boulogne, per qualche ora, ogni pomeriggio, il “Giro dei Laghi”.

La natura è una cosa spaventosa e anche quando è decisamente addomesticata, come al Bois, continua a dare una sorta di angoscia ai veri cittadini. Allora si abbandonano facilmente alle confidenze. Niente che valga come il Bois de Boulogne, bello umido, recintato, unto e spelato com’è per fare affluire i ricordi, incoercibili, nella gente di città a passeggio tra gli alberi. Lola non sfuggiva a questa inquietudine malinconica e fiduciosa. Mi raccontò mille cose quasi sincere, mentre passeggiavamo a quel modo, sulla sua vita a New York, sulle sue amichette di laggiù.

Non arrivavo a sbrogliare completamente il verosimile, in quella trama complicata di dollari, fidanzamenti, divorzi, acquisti di vestiti e gioielli di cui la sua esistenza mi pareva colma.

Andammo quel giorno verso il campo delle corse. S’incontravano ancora in quei paraggi molte carrozze e bambini sugli asinelli, e altri bambini che facevano polvere e auto gremite di gente in permesso che non smetteva di cercare in velocità donne libere per i vialetti, fra due treni, sollevando ancora più polvere, con la fretta d’andare a mangiare e far l’amore, agitati e viscidi, in agguato, tormentati dall’ora implacabile e dalla smania di vita. Trasudavano passione e calore.

Il Bois era molto meno ben tenuto del solito, trasandato, amministrativamente in sospeso.

“‘Sto posto doveva essere proprio bello prima della guerra!... osservava Lola. Elegante!... Racconta, Ferdinand!... Le corse qui?... Era come da noi a New York?...”

A dire il vero, c’ero mai andato, io, alle corse prima della guerra, ma inventavo fulmineamente per distrarla cento dettagli colorati sul tema, aiutandomi con i racconti che mi avevano fatto, a destra e sinistra. I vestiti... Le elegantone... I coupés sfavillanti... La partenza... i corni allegri e caparbi... Il salto della riviera... Il Presidente della Repubblica... La febbre ondulante delle scommesse, ecc.

Le piacque tanto la mia descrizione inventata che quel racconto ci riavvicinò. A partire da quel momento, lei credette d’aver scoperto, Lola, che avevamo almeno un’inclinazione in comune, che io dissimulavo per bene, quella delle solennità mondane. Per l’emozione mi abbracciò perfino spontaneamente, cosa che le capitava di rado, devo dire. E poi la malinconia delle cose passate di moda la commuoveva. Ciascuno piange a suo modo il tempo che passa. Lola era con le mode morte che avvertiva il fuggire degli anni.

“Ferdinand, chiese lei, pensi che ce ne saranno ancora di corse in quel campo lì?

- Quando la guerra sarà finita, certo, Lola...

- Questo non è sicuro, vero?...

- No, non è sicuro...”

Questa eventualità che non ci fossero mai più corse a Longchamps la sconcertava. La tristezza del mondo assale gli esseri come può, ma ad assalirli sembra che ci riesca quasi sempre.

“Supponiamo che duri ancora molto la guerra, Ferdinand, degli anni per esempio... Allora sarà troppo tardi per me... Per tornare qui... Mi capisci Ferdinand?... Mi piacciono tanto, lo sai, i bei posti come questo... Molto mondani... Molto eleganti... Sarà troppo tardi... Per sempre troppo tardi... Forse... Sarò vecchia allora, Ferdinand. Quando ricominceranno le riunioni... Sarò già vecchia... Lo vedrai Ferdinand, sarà troppo tardi... Sento che sarà troppo tardi...”

Ed eccola tornata nel suo sgomento, come per il chilo in più. Per tranquillizzarla le davo tutte le speranze cui potevo pensare... Che insomma lei non aveva che ventitré anni... Che la guerra sarebbe passata in fretta... Che sarebbero tornati i bei giorni... Come prima, più belli di prima. Per lei almeno... Carina com’era... Il tempo perduto! Lei lo avrebbe ricuperato senza danno... Gli omaggi... L’ammirazione, non le sarebbero mancati tanto presto... Lei fece finta di non avere più il magone per farmi piacere.

“Dobbiamo camminare ancora? domandò.

- Per dimagrire?

- Ah! è vero, dimenticavo...”

Lasciammo Longchamps, i bambini se n’erano andati da lì intorno. Nient’altro che polvere. Quelli in permesso erano sempre alla caccia della felicità, ma fuori della boscaglia adesso, perché dovevano braccarla, la Felicità, fra le terrazze della Porte Maillot.

Costeggiammo l’argine verso Saint-Cloud, velato dall’alone ondeggiante delle brume che salivano dall’autunno. Vicino al ponte, qualche chiatta toccava col naso le arcate, il carbone le sprofondava duramente nell’acqua fino al bordo.

L’immenso ventaglio del verde del parco si dispiega sopra le inferriate. Quegli alberi hanno l’ampiezza dolce e la forza dei grandi sogni. Solo che gli alberi, io diffidavo anche di loro, da quando ero passato per le loro imboscate. Un morto dietro ogni albero. Il grande viale saliva tra due file rosa verso le fontane. A fianco del chiosco la vecchia signora delle gazzose sembrava radunare lentamente tutte le ombre della sera attorno alla sua gonna. Più lontano nei sentieri di fianco flottavano i grandi cubi e i rettangoli tesi di teli scuri, i baracconi di una festa che la guerra aveva sorpreso là, e riempito improvvisamente di silenzio.

“Ecco che è già un anno che son partiti! ci ricordava la vecchia delle bibite. Adesso, ci passano nemmeno due persone al giorno di qui... Ci vengo ancora per abitudine, io... Si vedeva tanta di quella gente qui!...”

Aveva capito niente la vecchia, del resto, di quello che era capitato, tranne quello. Lola volle passare vicino a quelle tende vuote, strana voglia triste che aveva.

Ne contammo una ventina, di lunghe fornite di specchi, di piccole, molto più numerose, confetterie ambulanti, lotterie, perfino un teatrino, tutto attraversato da correnti d’aria; sparsi fra gli alberi ce n’era dappertutto, di baracconi, a uno di quelli, verso il viale grande, gli era rimasto solo il sipario, sventrato come un vecchio mistero.

Si curvavano già verso le foglie e il fango, le tende. Ci fermammo vicino all’ultima, quella che pericolava più delle altre e beccheggiava sui suoi pali, nel vento, come un vascello, vele folli, pronte a rompere l’ultima sartia. Vacillava, la tela di mezzo batteva nel vento che saliva, si scuoteva verso il cielo, sopra il tetto. Sul frontone del baraccone si leggeva il vecchio nome in verde e rosso; era il baraccone di un tiro a segno: “Stand delle Nazioni”, si chiamava.

Non c’era più nessuno che lo custodiva. Adesso il proprietario sparava forse con gli altri, con i clienti.

Quante ne avevano ricevute di palle i piccoli bersagli della baracca! Tutti crivellati di puntini bianchi! Un matrimonio da burla c’era raffigurato: in primo piano, di zinco, la sposa con i fiori, il cugino, il militare, il promesso col suo faccione rosso, e poi in seconda fila anche gli invitati, che avevano accoppato chissà quante volte quando girava ancora, la fiera.

“Son sicura che devi sparare bene tu, Ferdinand! Ci fosse ancora la fiera, farei una gara con te!... Vero che spari bene Ferdinand?

- No, non sparo molto bene...”

In ultima fila dietro le nozze, un’altra fila a colori chiassosi, il Municipio con la sua bandiera. Dovevano spararci anche sul Municipio quando funzionava, nelle finestre che allora si aprivano con un colpo secco di campanello, anche sulla bandierina di zinco, ci sparavano. E poi sul reggimento che sfilava, in salita, di fianco, come il mio, a Place Clichy, quello tra le pipe e i palloncini, su tutto quello avevano sparato a più non posso, adesso su di me sparavano, ieri, domani.

“Anche su di me sparano Lola! non potei trattenermi dal gridarle.

- Vieni! fece lei allora... Dici delle sciocchezze, Ferdinand, e va a finire che prendiamo freddo.”

Scendemmo verso Saint-Cloud per il viale grande, il Royal, schivando il fango, lei mi teneva per mano, la sua era piccolina, ma io non potevo pensare ad altro che alle nozze di zinco dello stand di lassù che avevamo lasciato nell’ombra del viale. Mi dimenticavo perfino di baciare Lola, era più forte di me. Mi sentivo tutto strano. È proprio a partire da quel momento, credo, che la mia testa è diventata così difficile da tener tranquilla con le sue idee dentro.

Quando arrivammo al ponte di Saint-Cloud, faceva scuro del tutto.

“Ferdinand, vuoi cenare da Duval? Ti piace molto Duval, a te... Quello ti cambierebbe le idee... Ci si incontra sempre un sacco di gente... A meno che tu voglia mangiare in camera mia?” Era molto premurosa, insomma, quella sera.

Alla fine ci decidemmo per Duval. Ma appena ci siamo messi a tavola il posto mi sembrò insensato. Tutta ‘sta gente seduta in fila intorno a noi mi dava l’impressione di aspettare anche lei che le pallottole le saltassero addosso da ogni lato mentre s’abboffava.

“Andatevene tutti! ecco che li avvisai io. Squagliatevi! Sparano! Vi ammazzano! Ci ammazzano tutti!”

Mi hanno riportato all’hôtel di Lola, in tutta fretta. Vedevo dappertutto la stessa cosa. Tutti quelli che sfilavano per i corridoi del Paritz sembrava che andassero a farsi sparare addosso e gli impiegati dietro la grande Cassa, anche loro, proprio fatti per quello, e il tipo che stava da basso, anche, del Paritz, con la sua uniforme blu come il cielo e dorata come il sole, il portiere che chiamavi, e poi i militari, gli ufficiali a passeggio, i generali, meno belli di quello sicuro, ma comunque in uniforme, dappertutto un fuoco immenso, da cui non sarebbero usciti, né gli uni né gli altri. Non era più uno scherzo.

“Sparano! gli gridavo io, più forte che potevo, in mezzo al salone grande. Sparano! Squagliatevi tutti!...” E poi dalla finestra l’ho gridato anche. Ero invasato. Un vero scandalo. “Povero soldato!” dicevano. Il portiere m’ha portato pian piano al bar, per gentilezza. M’ha fatto bere e io ho bevuto, poi alla fine i gendarmi son venuti a prendermi, più brutalmente, loro. Nello “Stand delle Nazioni” ce n’erano anche, di gendarmi. Li avevo visti. Lola mi abbracciò e li aiutò a portarmi via in manette.

Allora mi sono ammalato, febbricitante, diventato matto, hanno spiegato loro all’ospedale, per la paura. Era possibile. La miglior cosa che puoi fare, no?, quando sei a ‘sto mondo, è di uscirne. Matto o no, paura o no.

 

Viaggio al termine della notte
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