I ricchi non hanno bisogno di uccidere con le loro mani per mangiare. Fanno lavorare gli altri, come si dice. Il male non lo fanno loro stessi, i ricchi. Loro pagano. Si fa di tutto per piacergli e tutti sono contenti. Mentre le loro donne sono belle, quelle dei poveri sono brutte. È un risultato che viene dai secoli, vestiti a parte. Belle carine, ben nutrite, ben lavate. Da quando c’è, la vita non è arrivata che a questo.

Quanto al resto, si ha un bel darsi da fare, si scivola, si sbanda, si ricasca nell’alcool che conserva i vivi e i morti, non si arriva a niente. È assolutamente provato. È da tanti di quei secoli che possiamo guardare i nostri animali che nascono, faticano e muoiono davanti a noi senza che a loro gli sia mai capitato nient’altro di speciale che non fosse ricominciare lo stesso insulso fallimento là dove tanti altri animali l’avevano lasciato. Avremmo dunque dovuto capire quello che capitava. Ondate incessanti di esseri inutili vengono dal fondo dei tempi a morire in continuazione davanti a noi, e tuttavia restiamo lì, a sperare qualcosa... Nemmeno capaci di pensare la morte che siamo.

Le donne dei ricchi ben nutrite, ben sistemate, ben riposate loro, diventano belle. È vero. Dopo tutto questo forse basta. Non si sa. Sarebbe almeno una ragione per esistere.

“Le donne in America, non trovi che sono più belle di queste di qui?” Mi chiedeva cose del genere da quando ruminava i ricordi di viaggio Robinson. Aveva delle curiosità, si metteva perfino a parlare di donne.

Adesso andavo a vederlo un po’ meno spesso perché è verso quella stessa epoca che sono stato assegnato al consultorio d’un piccolo dispensario per i tubercolosi dei dintorni. Bisogna chiamare le cose col loro nome, quello mi fruttava ottocento franchi al mese. Come malati erano piuttosto quelli delle borgate che avevo, quella specie di villaggio che non arriva mai a liberarsi fino in fondo del fango, incastrato nelle immondizie e orlato di sentieri dove ragazzine troppo sveglie e petulanti, lungo le palizzate, scappano da scuola per beccarsi tra un satiro e l’altro venti soldi, patatine fritte e la blenorragia. Paese da cinema d’avanguardia dove la biancheria sporca avvelena gli alberi e tutte le insalate gocciolano d’urina il sabato sera. Nel mio campo, durante quei pochi mesi di pratica specializzata non realizzai alcun miracolo. E dire che ce n’era un gran bisogno di miracoli. Ma i miei clienti non ci tenevano che facessi dei miracoli, contavano al contrario sulla loro tubercolosi per farsi passare dallo stato di miseria assoluta in cui deperivano da sempre allo stato di miseria relativa che conferiscono le microscopiche pensioni del governo. Si tiravano dietro i loro sputi più o meno positivi di riforma in riforma da dopo la guerra. Dimagrivano a colpi di febbre alimentata dal mangiar poco, dal vomitare spesso, dal bere spaventosamente e dal lavorare lo stesso, un giorno su tre a dire il vero.

La speranza della pensione li possedeva anima e corpo. Gli sarebbe discesa un giorno come la grazia, la pensione, purché avessero la forza d’aspettare ancora un po’ invece di morire del tutto. Non si sa mica cosa significa ritornare e aspettare qualcosa fin tanto che non si è osservato quel che possono aspettare e ritornare i poveri che sperano in una pensione.

Ci passavano pomeriggi e settimane intere a sperare, nell’ingresso e sulla soglia del mio dispensario pulcioso, mentre fuori continuava a piovere, e a rimenarsela con le loro speranze di percentuali, la voglia di sputi decisamente infetti, dei veri sputi, sputi tubercolotici al cento per cento. La guarigione veniva solo molto dopo la pensione nei loro sogni, certo che ci pensavano alla guarigione, ma appena un po’, tanto la voglia di vivere di rendita, una rendita anche piccolissima, non importa in quali condizioni li abbagliava totalmente. Non poteva esistere altro al di là di quel desiderio intransigente, estremo, che qualche piccola voglia subalterna e la loro stessa morte diventava al confronto qualcosa di abbastanza accessorio, un rischio sportivo tutt’al più. La morte dopo tutto non è questione che di qualche ora, perfino di minuti, mentre una rendita è come la miseria, dura tutta la vita. I ricchi sono ubriachi in un altro modo e non possono riuscire a capire queste frenesie previdenziali. Essere ricco, è un’altra ebbrezza, è dimenticare. È proprio per questo che si diventa ricchi, per dimenticare.

Avevo perso poco a poco la cattiva abitudine di promettergli la salute ai miei malati. Non poteva fargli un gran piacere, la prospettiva d’essere ben portanti. Serve a lavorare essere ben portanti, e dopo? Mentre una pensione dello Stato, anche infima, è una cosa divina, puramente e semplicemente.

Quando non si hanno dei soldi da dare ai poveri, è meglio star zitti. Quando gli si parla d’altro che non siano i soldi, li si inganna, si mente, quasi sempre. I ricchi, è facile divertirli, bastano degli specchi per esempio, perché ci si possano contemplare, perché non c’è nulla di meglio al mondo che guardare i ricchi. Per tonificarli, li tirano su i ricchi, ogni dieci anni, di un gradino nella Legion d’onore, come delle vecchie tette, ed eccoli occupati per altri dieci anni. È tutto. I miei clienti, loro, erano degli egoisti, dei poveri, materialisti tutti immiseriti nei loro sporchi progetti di pensione, con l’aiuto dello sputo di sangue positivo. Il resto gli faceva lo stesso. Anche le stagioni gli facevano lo stesso. Loro delle stagioni sentivano e volevano sapere solo quello che ha un rapporto con la tosse e la malattia. che d’inverno, per esempio, si prendono più raffreddori che d’estate, ma che si sputa per contro facilmente sangue in primavera e che quando fa caldo si può arrivare a perdere tre chili a settimana... Qualche volta li sentivo parlare tra loro, quando mi credevano fuori, aspettando il loro turno. Raccontavano sul mio conto orrori a non finire e menzogne da farsi scoppiare l’immaginazione. Doveva dargli coraggio sputtanarmi a quel modo, non so quale coraggio misterioso che gli era indispensabile per essere sempre più spietati, coriacei e cattivi, per durare, per resistere. Dir male così, spettegolare, disprezzare, minacciare, ‘sta cosa gli faceva del bene, c’è da credere. Comunque, avevo fatto del mio meglio, io, per riuscirgli simpatico, in tutti i modi, sposavo la loro causa, e cercavo di essergli utile, gli davo molto ioduro per cercare di fargli sputare i loro sporchi bacilli e tutto comunque senza arrivare mai a neutralizzare la loro carogneria.

Restavano lì davanti a me, sorridenti come dei domestici quando li interrogavo, ma non mi amavano, anzitutto perché gli facevo del bene, poi perché non ero ricco e essere curati da me, voleva dire essere curati gratis e questo non è mai lusinghiero per un malato, anche se ha fatto domanda di pensione. Alle mie spalle, non c’era dunque sconcezza che non avessero propagato sul mio conto. Non avevo la macchina io come la maggior parte degli altri medici dei dintorni, ed era anche come una malattia ai loro occhi il fatto che andavo a piedi. Non appena venivano eccitati un po’ i miei malati, e i colleghi non andavano al risparmio, si vendicavano si sarebbe detto di tutte le mie cortesie, di com’ero servizievole, disponibile. Tutto questo è normale. Il tempo passava lo stesso.

Una sera, che la mia sala d’aspetto era quasi vuota, entrò un prete a parlarmi. Non lo conoscevo mica quel prete e per poco lo misi alla porta. Non li amavo i preti, avevo le mie ragioni, soprattutto dopo che mi avevano fatto il col po dell’imbarco a San Tapeta. Ma questo qui, avevo un bel cercare di identificarlo, per insultarlo con delle cose precise, davvero non l’avevo mai incontrato da nessuna parte prima d’allora. Doveva comunque girare mica male di notte come me a Rancy, poiché era uno di quelle parti. Forse che allora mi evitava quando usciva? Ci pensavo. Insomma avevano dovuto dirglielo che non amavo i preti. Questo si capiva dal modo furtivo con cui avviava la confabulazione. Dunque, non c’eravamo mai dati da fare intorno agli stessi malati. Faceva servizio in una chiesa, lì, di fianco, da vent’anni, mi fece sapere lui. Di fedeli, ne aveva in quantità, ma pochi che lo pagavano. Piuttosto un accattone insomma. Questo ci avvicinava. La sottana che lo copriva mi sembrò un drappeggio scomodissimo per andare in giro in quel cacciucco delle borgate. Glielo feci notare. Insistetti perfino sulla stravagante scomodità di un armamentario del genere.

“Ci si abitua!” mi rispose lui.

L’impertinenza della mia osservazione non lo scoraggiò dall’essere ancora più gentile. Aveva evidentemente qualcosa da chiedermi. La sua voce non superava quasi quella tal monotonia confidente, che gli veniva, almeno immaginavo, dalla professione. Mentre parlava prudente e introduttivo, cercavo d’immaginarmi tutto quel che poteva fare ogni giorno il prete per guadagnarsi le sue calorie, un sacco di smorfie e promesse, del tipo delle mie... E poi me l’immaginavo, per divertirmi, tutto nudo davanti all’altare... è così che bisogna abituarsi a spiazzare a botta calda quelli che ti vengono a trovare, li capisci molto più in fretta dopo una cosa del genere, scorgi sùbito in qualsiasi individuo la sua realtà di grosso verme ingordo. È un bel giochetto di fantasia. Il suo sporco prestigio si disperde, evapora nudo, se ne resta insomma davanti a te come un vecchio mendicante pretenzioso e smargiasso che s’accanisce a farfugliare futilità di questo o quel genere. Niente resiste a questa prova. Ti ci ritrovi all’istante. Restano solo le idee, e le idee non fanno mai paura. Con quelle, niente è perduto, si sistema tutto. Mentre qualche volta è difficile da sopportare il prestigio d’un uomo vestito. Se li tiene i suoi cattivi odori e i suoi misteri, ne ha pieni gli abiti.

Aveva dei denti proprio in cattivo stato, l’abate, marci, scuri e cerchiati in alto da un tartaro verdastro, una bella piorrea alveolare insomma. Gliene volevo parlare della sua piorrea ma era troppo occupato a raccontarmi cose. Non la smettevano di venire a sbavazzare contro le radici le cose che mi raccontava, sotto la spinta d’una lingua di cui spiavo tutti i movimenti. In parecchi minuscoli punti era escoriata la lingua sui bordi sanguinanti.

Avevo l’abitudine e anche il gusto di quelle meticolose osservazioni intime. Quando ci si sofferma per esempio sul modo in cui vengono formate e dette le parole, quasi non resistono le nostre frasi al disastro del loro arredo di bave. È più complicato e più penoso della defecazione il nostro sforzo meccanico di conversare. Questa corolla di carne tumefatta, la bocca, che va in convulsione se soffia, se aspira, e si dimena, che spinge ogni genere di suoni vischiosi attraverso la barriera puzzolente della carie dentaria, che punizione! Ecco lì quel che ci scongiurano di trasformare in ideale. È difficile. Poiché non siamo che un sacco di trippe tiepide e corrotte faremo sempre una gran fatica coi sentimenti. Innamorarsi è niente, è restare insieme che è difficile. La porcheria, quella, non cerca di durare o di crescere. Qui, su ‘sto punto siamo molto più sfortunati della merda, questa ostinazione a perseverare nel nostro stato costituisce un’incredibile tortura.

Decisamente non adoriamo niente di più divino del nostro odore. Tutte le nostre disgrazie nascono dal fatto che ci tocca restare Jean, Pierre o Gaston ad ogni costo durante ogni genere d’anni. Il corpo che abbiamo, travestito da molecole convulse e banali, si rivolta tutto il tempo contro questa farsa atroce del durare. Vogliono andarsi a perdere le nostre molecole, il più in fretta possibile, in mezzo all’universo le carine! Soffrono d’essere soltanto “noi”, cornuti dell’infinito. Scoppieremmo se avessimo un po’ di coraggio, Ci limitiamo a decadere da un giorno all’altro. La nostra tortura prediletta è rinchiusa lì, atomica, nella nostra stessa pelle, col nostro orgoglio.

Dal momento che tacevo, costernato dall’evocazione di quelle ignominie biologiche, l’abate credette d’avermi in pugno e ne approfittò anche per diventare benevolo e perfino fraterno, con me. Evidente che s’era preventivamente informato sul mio conto. Con infinite precauzioni abbordò il tema spinoso della mia reputazione medica nel circondario. Avrebbe potuto esser migliore, mi fece capire, la reputazione, se avessi proceduto in tutt’altro modo sistemandomi qui, e quello fin dai primi mesi del mio praticare a Rancy. “I malati, caro Dottore, non bisogna dimenticarlo mai, sono in primo luogo dei conservatori... Essi temono, quel che si può facilmente intendere, che terra e cielo vengano a mancar loro...”

Secondo lui, avrei dunque dovuto sin dal debutto riavvicinarmi alla Chiesa. Questa era la sua conclusione d’ordine spirituale e anche pratico. L’idea non era cattiva. Mi guardavo bene dall’interromperlo, ma attendevo con pazienza che venisse al nocciolo della visita.

Se uno voleva un tempo triste e adatto alle confidenze non poteva chiedere di meglio del tempo che faceva fuori. Si sarebbe detto tanto era brutto il tempo, e in una maniera così fredda, così insistente, che uno non lo avrebbe più rivisto il resto del mondo uscendo, che sarebbe fuso il mondo, dal disgusto.

La mia infermiera era finalmente riuscita a redigere le sue schede, tutte le schede, fino all’ultima. Non aveva più scuse per stare lì ad ascoltarci. Se ne è dunque andata, ma alquanto irritata e sbattendosi la porta dietro, attraverso un furioso scroscio di pioggia.

 

Viaggio al termine della notte
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