Una volta partito Robinson da Rancy, mi credevo proprio che decollasse la vita, che avrei per esempio un po’ di malati, e invece niente. Prima è arrivata la disoccupazione, la crisi nei dintorni e questo è quel che è peggio. E poi il tempo è girato, malgrado l’inverno, al dolce e al secco, mentre è l’umido e il freddo che ci vuole per la medicina. Niente più epidemie, insomma una stagione storta, proprio persa.
Ho perfino visto dei colleghi che andavano a fare le loro visite a piedi, con un’arietta divertita per la passeggiata, ma di fatto alquanto seccati e unicamente per non far uscire l’auto, per risparmiare. Io, non avevo che un impermeabile per uscire. È per quello che mi sono preso un raffreddore così ostinato? O è che mi ero abituato a mangiare davvero troppo poco? Tutto è possibile. Sono le febbri che mi sono tornate? Insomma, fatto sta che dopo un piccolo colpo di freddo, giusto verso primavera, mi sono messo a tossire senza freno, ammalato di brutto. Un disastro. Certe mattine mi riuscì assolutamente impossibile tirarmi su. La zia di Bébert stava proprio passando davanti alla porta. La feci chiamare. Lei sale. La mandai sùbito a riscuotere una piccola parcella che ancora mi dovevano nel quartiere. La sola, l’ultima. Questa somma ricuperata a metà mi bastò dieci giorni, steso a letto.
Si ha tempo di pensare quando si sta dieci giorni sdraiati. Appena sarei stato meglio me ne sarei andato da Rancy, era quel che avevo deciso. Due trimestri di ritardo con l’affitto, poi... Addio dunque ai miei quattro mobili! Senza dir niente a nessuno beninteso, me la batterei, tranquillamente e non mi rivedrebbero mai più a La Garenne Rancy. Partirei senza lasciare né tracce né indirizzo. Quando la bestia della miseria, puzzolente, ti bracca, perché discutere? C’è niente da dire e se uno è furbo impaglia i tondi.
Con la mia laurea, potevo andarmi a piazzare dovunque, questo era vero... Ma d’altra parte non sarebbe né meglio ne peggio... Un po’ migliore un posto quando cominci, per forza, perché ci vuole sempre un po’ di tempo perché la gente arrivi a conoscerti e si dia da fare e trovi il sistema di fregarti. Mentre stanno ancora a cercare il posto da dove è più facile farti del male, hai un po’ di tranquillità, ma appena hanno trovato il verso giusto diventa la stessa cosa dappertutto. Insomma, è il breve intervallo in cui in un qualunque posto nuovo non ti conoscono ancora, che è la cosa più piacevole. Dopo, è la stessa cattiveria che ricomincia. È la loro natura. Tutto sta nel non aspettare troppo che abbiano individuato i tuoi punti deboli i compagni. Bisogna schiacciare le cimici prima che abbiano ritrovato i loro pertugi. Non è così?
Quanto ai malati, ai clienti, non mi facevo illusioni sul loro conto... In un altro quartiere non sarebbero meno rapaci, meno ottusi, meno vigliacchi di quelli di qui. Lo stesso trincare, lo stesso cinema, le stesse chiacchiere di sport, la stessa sottomissione entusiasta ai bisogni naturali, della gola e del culo, ne farebbero là come qui la stessa orda greve, burina, ciondolante da una sparata all’altra, sempre fanfarona, trafficona, malevola, aggressiva tra uno spavento e altro.
Ma visto che il malato lui, cambia spesso lato a letto, nella vita, abbiamo il diritto anche noi, di rigirarci da un fianco all’altro, è tutto quel che si può fare e che si è trovato per difendersi dal proprio Destino. Non si può sperare di mollare la propria pena in qualche angolo di strada. È come una donna mostruosa la Pena, e tu te la sei sposata. Forse è ancora meglio finire per amarla un po’ invece di dannarsi a picchiarla tutta la vita. Perché è chiaro che non la puoi accoppare.
Fatto sta che me la sono filata zitto zitto dal mio ammezzato di Rancy. Stavano intorno al vino in tavola e alle castagne dalla mia portinaia quando passai davanti alla loro guardiola, per l’ultima volta. Né visto né conosciuto. Lei si grattava e lui, chino sul tegame, fuso dal caldo, era già così bevuto che la ciucca gli faceva chiudere gli occhi.
Per quella gente io scivolavo nell’ignoto come in un grande tunnel senza fine. Sono sempre tre persone in meno che ti conoscono, dunque ti spiano e ti fanno del male, che non sanno nemmeno più cosa sei diventato. È una buona cosa. Tre, perché conto anche la figlia, la loro bambina Thérèse che si feriva fino a far suppurare i foruncoli, tanto le prudeva di continuo tra pulci e cimici. È vero che uno si pungeva talmente da loro, i miei portinai, che entrando nella loro guardiola sembrava di penetrare a poco a poco in una spazzola.
Il lungo becco del gas nell’entrata, crudo e sibilante, poggiava sui passanti sul bordo del marciapiede e li mutava in fantasmi stralunati e pieni, in un sol colpo, nel riquadro nero della porta. Andavano poi a cercarsi un po di colore, i passanti, qua e là, davanti alle finestre e ai lampadari e si perdevano finalmente come me nella notte, neri e molli.
Non ero nemmeno più costretto a riconoscerli i passanti. Però mi sarebbe piaciuto fermarli nel loro incerto deambulare, un secondo, solo il tempo di dirgli, una buona volta, che io, io me ne andavo a perdermi al diavolo, che partivo, ma così lontano, che li mandavo proprio a cagare e che non potevano più farmi niente tutti quanti, tentare niente...
Arrivando al boulevard della Liberté, i carri delle verdure salivano ondeggiando verso Parigi. Ho seguito la loro strada. Insomma, ero già proprio quasi partito da Rancy. Faceva nemmeno troppo caldo. Allora per riscaldarmi, ho fatto un giretto fino alla guardiola della zia di Bébert. La lampada agganciava l’ombra in fondo al corridoio. “Per farla finita, mi son detto, bisogna pure che la saluti alla zia.”
Lei era là sulla sua sedia come al solito, tra gli odori della portineria, e la piccola marmitta che scaldava tutto quanto e la vecchia faccia sempre pronta a piangere adesso da quando Bébert era morto e poi al muro, sopra il cestino da lavoro, una grande foto di scuola di Bébert, col suo grembiule, un berretto e la croce. Era un ingrandimento che aveva avuto in premio coi buoni del caffè. Io la sveglio.
“Buongiorno Dottore”, fa lei di soprassalto. Mi ricordo ancora bene quel che m’ha detto. “Ha un’aria come malata! ha notato lei sùbito. Si sieda un po’... Nemmeno io sto tanto bene...
- Eccomi dietro a fare un giretto, ho risposto io, per darmi un contegno.
- È un po’ tardi, ha fatto lei, per un giretto specie se va verso Place Clichy... Il viale è freddo col vento a quest’ora qui!”
Allora lei si alza e si mette barcollando qua e là a fare un grog e sùbito a parlare di tutto insieme, e degli Henrouille e di Bébert necessariamente.
Impedirle di parlarne di Bébert, non c’era proprio verso, e tuttavia la cosa le dava tristezza e pena e lei lo sapeva bene. L’ascoltavo senza interromperla mai, ne ero come intorpidito. Lei cercava di farmi ricordare tutte le buone qualità che aveva avuto Bébert e ne faceva come una vetrina con gran fatica perché non bisognava dimenticare niente delle qualità di Bébert e ricominciava e poi quando tutto era a posto e mi aveva raccontato per bene tutte le circostanze di come l’aveva tirato su col biberon, lei ripescava ancora una piccola qualità di Bébert che bisognava assolutamente mettere accanto alle altre, allora lei riprendeva tutta la storia da capo e tuttavia dimenticava qualcosa lo stesso e alla fine era costretta a piagnucolare un po’, dall’impotenza. Ammattiva dalla fatica. S’addormentava a colpi di piccoli singhiozzi. Già non aveva più la forza di strappare per molto tempo all’ombra il ricordo del piccolo Bébert che aveva tanto amato. Il nulla le stava sempre addosso e già quasi sopra. Un niente di grog e di stanchezza ed era fatta, s’addormentava ronfando come un aereoplanino lontano che le nuvole se lo portano. Non c’era più nessuno per lei sulla terra.
Mentre lei s’accasciava a quel modo in mezzo agli odori pensavo che me ne stavo andando e mai la rivedrei di sicuro la zia di Bébert, che Bébert se n’era proprio andato, lui, e senza far storie e sul serio, che lei anche partirebbe la zia per seguirlo e fra non molto. Il suo cuore era non solo vecchio, ma anche malato. Spingeva il sangue nelle arterie come poteva il suo cuore, faceva fatica a risalire nelle vene. Se ne andrebbe al grande cimitero lì vicino per prima cosa la zia, dove i morti sono come una folla che attende. È là che lei andava a far giocare Bébert prima che si ammalasse, al cimitero. E allora dopo quello sarebbe proprio finita. Verrebbero a dare una mano di bianco alla portineria e si potrebbe dire che stiamo tutti aggrappati come palle di bigliardo vacillanti sull’orlo della buca a far complimenti prima di cascarci.
Partono belle violente e tonanti anche loro, le palle, e non vanno mai da nessuna parte, in definitiva. Noi nemmeno, e tutta la terra serve a questo, a farci ritrovare tutti. Non doveva più andar molto lontano la zia di Bébert adesso, non aveva quasi più slancio. Non ci si può ritrovare fin tanto che si sta nella vita. Ci sono troppi colori che ti distraggono e troppa gente che gira intorno. Ci si ritrova solo nel silenzio, quando è troppo tardi, come i morti. Io anche dovevo ancora muovermi e andarmene altrove... Avevo un bel fare, un bel sapere... Non potevo restare sul posto con lei.
Il mio diploma di laurea in tasca faceva un rigonfio sporgente, molto più sporgente dei soldi e dei documenti d’identità. Davanti al posto di polizia, l’agente di guardia aspettava il cambio di mezzanotte e sputava più che poteva. Ci siamo salutati.
Dopo la luce intermittente dell’insegna all’angolo del boulevard, per la benzina, c’era il dazio e gli addetti verdognoli nella loro gabbia di vetro. I tram non andavano più. Era il momento giusto per parlargli dell’esistenza ai dazieri, dell’esistenza che è sempre più difficile, più cara. Erano in due là, uno giovane e uno vecchio, con la forfora tutti e due, chini su dei registri grossi così. Attraverso il loro vetro si scorgevano le grosse banchine d’ombra delle fortificazioni che avanzano alte nella notte per attendere i battelli di lontano, quei navigli così nobili, che non se ne vedranno più di barche così. Sicuro. Li aspettiamo.
Abbiamo chiacchierato insieme per un po’ con i dazieri, e ci siamo anche presi un cafferino che stava a riscaldare sul fornello. Mi chiesero se andavo in vacanza alle volte, per scherzare, così, di notte, col mio fagotto in mano. “Esatto” gli ho risposto io. Inutile spiegargli cose fuori dell’ordinario ai dazieri. Non potevano aiutarmi a capire. E un po’ irritato dalla loro osservazione, m’ha preso comunque la voglia d’essere interessante, di stupirli perfino, e mi son messo a parlare a rotta di collo, così, della campagna del 1816, quella esattamente che portò i cosacchi nel posto dove stavamo, alla cinta daziaria, sulle piste del grande Napoleone.
Questo evocato con disinvoltura, beninteso. Avendoli convinti con poche parole quei due squallidi della mia superiorità culturale, della mia spumeggiante erudizione, ecco che me ne riparto rasserenato verso Place Clichy lungo il viale in salita.
Avrete notato che ci sono sempre due prostitute in attesa all’angolo della rue des Dames. Occupano quelle poche ore stremate che separano la fine del giorno dal primo mattino. Grazie a loro la vita continua attraverso le ombre. Assicurano il collegamento con la loro borsetta zeppa di prescrizioni, fazzoletti multiuso e foto di bambini in campagna. Quando ci si avvicina a loro nell’ombra, bisogna fare attenzione perché esistono appena quelle donne, tanto sono specializzate, tanto restano in vita quel che basta per rispondere a due o tre frasi che riassumono tutto quello che si può fare con loro. Sono degli spiriti d’insetto in stivaletti coi bottoni.
Bisogna dirgli niente, solo accostarle. Loro sono cattive. Avevo spazio. Mi sono messo a correre in mezzo alle rotaie. Il viale è lungo.
Proprio in fondo c’è la statua del maresciallo Moncey. Difende sempre la Place Clichy dal 1816 contro i ricordi e l’oblio, contro il nulla, con una coroncina di perle a buon mercato. Arrivai anch’io nei suoi pressi correndo con centododici anni di ritardo per il viale tutto vuoto. Niente più Russi, niente battaglie, né cosacchi, nessun soldato, nient’altro sulla piazza che un bordo del piedistallo da prendere, sotto la corona. E il fuoco d’un bracieretto con intorno tre intirizziti che guardavano storto nel fumo puzzolente. C’era mica da stare allegri.
Qualche auto fuggiva fin che poteva verso una via di scampo.
Ci si ricorda dei grandi boulevard quando c’è un’urgenza come di un posto meno freddo di altri. La testa mi andava solo a forza di volontà per via della febbre. Invasato dal grog della zia, sono sceso scappando davanti al vento che è meno freddo quando lo prendi da dietro. Una vecchia signora col cappellino vicino al metrò di Saint-Georges piangeva sul destino della nipote malata all’ospedale, di meningite diceva lei. Ne approfittava per chiedere l’elemosina. Cascava male.
Le ho dato delle parole. Le ho parlato anche del piccolo Bébert e anche d’una ragazzina che avevo curato in città, io, e che era morta durante i miei studi, di meningite, anche lei. Tre settimane che era durata l’agonia e in più sua madre nel letto di fianco non poteva più dormire dal dolore, allora s’è masturbata sua madre tutto il tempo delle tre settimane d’agonia, e poi non potevano più farla smettere dopo che tutto era finito.
Questo prova che non si può vivere senza il piacere nemmeno un secondo, e che è ben difficile provare davvero del dolore. È così l’esistenza.
Ci siamo lasciati con la vecchia addolorata davanti alle Galeries. Lei doveva scaricare delle carote dalla parte delle Halles. Seguiva la via dei legumi, come me, la stessa.
Ma il “Tarapout” m’ha attirato. È piazzato sul boulevard come un grosso dolce in piena luce. E la gente ci viene da ogni dove pigiandosi come dei fantasmi. Esce dalla notte tutt’intorno la gente, con gli occhi già tutti spalancati per venirseli a riempire d’immagini. Non si ferma mica l’estasi. Sono gli stessi del metrò del mattino. Ma lì davanti al Tarapout sono contenti, come a New York si grattano la pancia davanti alla cassa, cacciano un po’ di monete e sùbito eccoli tutti gasati che si precipitano gioiosamente nei coni di luce. Si era come spogliati dalla luce, tanta che ce n’era sulla gente, i movimenti, le cose, pieno di ghirlande e anche di lampade. Non si sarebbe potuto parlare d’affari privati in quell’entrata, era tutto il contrario della notte.
Alquanto frastornato anch’io, approdo a un piccolo caffè lì vicino. Al tavolo a fianco, guardo ed ecco Parapine il mio ex professore, che si faceva un boccale di birra, con la sua forfora e tutto. Ci ritroviamo. Siamo contenti. Sono capitati dei grandi cambiamenti nella sua esistenza, mi dice lui. Gli ci vogliono dieci minuti per raccontarmeli. Mica da star allegri. Il professor Jaunisset all’Istituto era diventato così aggressivo nei suoi confronti, l’aveva perseguitato al punto che aveva dovuto andarsene Parapine, dare le dimissioni e lasciare il suo laboratorio e poi erano anche le madri delle ragazze del liceo che erano venute a loro volta ad aspettarlo alla porta dell’Istituto per spaccargli il muso. Storie. Inchieste. Angosce.
All’ultimo momento, per via d’un ambiguo annuncio su un giornale medico, aveva potuto acchiappare al volo un altro piccolo spazio di sopravvivenza. Non granché evidentemente, ma comunque una faccenda poco impegnativa e proprio nelle sue corde. Si trattava d’una astuta applicazione delle recenti teorie del professor Baryton sullo sviluppo dei piccoli cretini per mezzo del cinema. Un ragguardevole passo in avanti sulla via del subconscio. Non si parlava d’altro in città. Faceva moderno.
Parapine accompagnava questi clienti speciali al Tarapout moderno. Passava a prenderli alla moderna casa di salute di Baryton in periferia e poi li riportava dopo lo spettacolo, inciucchiti, gonfi di visioni, felici e salvi e ancora più moderni. Ecco tutto. Una volta seduti davanti allo schermo nessun bisogno di occuparsi di loro. Un pubblico d’oro. Tutti contenti, lo stesso film dieci volte di fila li estasiava. Non avevano memoria. Si godevano continuamente la sorpresa. Le famiglie estasiate. Parapine anche. Io pure. Ce la godevamo dal piacere e sotto a bere boccali e boccali per festeggiare questa ricostruzione materiale di Parapine sul piano del moderno. Ce ne saremmo andati solo alle due del mattino dopo l’ultima proiezione del Tarapout, abbiam deciso, per cercare i cretini, riunirli e riportarli a gran velocità in auto alla casa del dottor Baryton a Vigny-sur-Seine. Un affare.
Poiché eravamo contenti tutti e due di ritrovarci ci siamo messi a parlare per il solo piacere di raccontarci delle fantasie, e prima sui viaggi che avevamo fatto tutti e due e poi su Napoleone, così, che è capitato a proposito di Moncey a Place Clichy nel corso della conversazione. Tutto diventa piacere quando hai come scopo soltanto lo star bene insieme, perché allora diresti che sei finalmente libero. Ti dimentichi la tua vita, vale a dire le faccende della grana.
Di palo in frasca, anche su Napoleone abbiamo trovato delle amenità da raccontarci. Parapine la conosceva bene lui la storia di Napoleone. Ci si era appassionato tempo fa m’informò lui, in Polonia, quand’era ancora al liceo. Era stato educato bene, Parapine, non come me.
Così a quel proposito mi raccontò che durante la ritirata di Russia, i generali di Napoleone hanno avuto il loro bel daffare per impedirgli d’andarsi a far fare un pompino a Varsavia un’ultima suprema volta dalla polacca del suo cuore. Era così, Napoleone, anche in mezzo ai più grandi disastri e sventure. Niente serio insomma. Anche lui, l’aquila della sua Joséphine! Il fuoco al culo, è il caso di dirlo per e contro tutto. Niente da fare d’altronde fin quando ci hai il gusto di godere e spassartela ed è un gusto che hanno tutti. Ecco la cosa più triste. Non si pensa che a quello! In culla, al caffè, sul trono, nei gabinetti. Dappertutto! Dappertutto! L’uccello! Napoleone o no! Cornuto o no! Prima di tutto godere! Che crepino i quattrocentomila allucinati imberesinati fino al pennacchio! si diceva il grande sconfitto, purché Poleone spari ancora un colpo! Che maiale! E alé! Così è la vita! è così che tutto finisce! Mica serio! Il tiranno è disgustato della parte che recita molto prima degli spettatori! Se ne va a scopare il tiranno quando non ne può più di secernere deliri per il pubblico. Allora bisogna saldargli il conto! Il Destino lo lascia cadere in men che si dica! Non è il massacrare a man salva, che i fanatici gli rimproverano! Certo che no! Quello è niente! Glielo perdonerebbero eccome! Ma esser diventato noioso in un sol colpo, è questo che non gli perdonano. Le cose serie si sopportano solo per finta. Le epidemie finiscono solo nel momento in cui i microbi non ne possono più delle loro tossine. Robespierre l’hanno ghigliottinato perché ripeteva sempre le stesse cose e Napoleone non ha resistito, per quel che lo riguarda, a più di due anni d’una inflazione di Legion d’onore. Fu il suo tormento, di quel pazzo, l’esser costretto a fornire delle voglie d’avventura a mezza Europa stravaccata. Mestiere impossibile. Lui ci restò.
Mentre il cinema, questo nuovo piccolo stipendiato dei nostri sogni, te lo puoi comperare quello, procurartelo per un ora o due, come una prostituta.
E poi in più di artisti, ai nostri giorni, ne hanno messo dappertutto per precauzione tanto ci si annoia. Anche nelle case chiuse ne hanno messo di artisti con i loro brividi che traboccano dappertutto e le sincerità che schizzano da un piano all’altro. Fanno vibrare le porte. Vince chi freme di più e con più faccia tosta, di tenerezza, e s’abbandonerà più intensamente del collega. Adesso decorano tanto i vespasiani quanto i mattatoi e pure i Monti di Pietà, tutto quello per divertirvi, distrarvi, farvi uscire dal vostro Destino.
Vivere per vivere, che gattabuia! La vita è una classe in cui la noia è il professore, è lì tutto il tempo che ti spia, bisogna aver l’aria d’essere indaffarati, costi quel che costi, in qualcosa di appassionante, altrimenti arriva e ti mangia il cervello. Un giorno, che sia solo una semplice giornata di 24 ore non è tollerabile. Non dev’essere altro che un lungo piacere quasi insostenibile, una giornata, un lungo coito una giornata, con le buone o con le cattive.
Ti vengono anche delle idee spregevoli quando sei frastornato dalla necessità, quando in ognuno dei tuoi secondi si sfracella un desiderio di mille altre cose e altri posti.
Robinson era un uomo tormentato dall’infinito anche lui, nel suo genere, prima che gli capitasse la disgrazia, ma adesso aveva avuto quel che si meritava. Almeno credevo.
Ne approfittai che eravamo al caffè, tranquilli, per raccontare anch’io a Parapine tutto quello che mi era capitato dopo la nostra separazione. Capiva le cose lui, e anche le mie e gli confessai che avevo appena interrotto la mia carriera medica lasciando Rancy in quello strano modo. È così che si deve dire. E non c’era mica da scherzare. Tornare a Rancy, nemmeno a pensarci, viste le circostanze. Ne conveniva anche lui, Parapine.
Ecco che mentre stavamo a parlarci tanto piacevolmente a quel modo, che ci confessavamo insomma, arrivò l’intervallo del Tarapout e i musicisti del cinema che sbarcano in massa nel bistrot. Ci facciamo un bicchiere tutti insieme. Parapine lo conoscevano bene i musicisti.
Di palo in frasca, sento da loro che cercavano proprio un Pascià per le comparse dell’intermezzo. Una parte muta. Se n’era andato quello che faceva il Pascià senza dir niente. Una bella parte anche ben pagata in un prologo. Nessuna fatica. E poi, non bisogna dimenticarlo, maliziosamente attorniato da un magnifico stormo di ballerine inglesi, migliaia di muscoli agitati e precisi. Proprio il mio tipo, quel che ci voleva.
Faccio il simpatico e aspetto le proposte del regista. Mi presento insomma. Dal momento che era tardi e non avevano più il tempo d’andare a cercare un’altra comparsa fino alla Porte Saint-Martin, fu ben contento il regista di trovarmi sul posto. Gli evitava delle corse. Anche a me. M’ha studiato appena. Mi adotta dunque seduta stante. Mi imbarcano. Basta che non zoppichi, non mi domandano altro, e ancora...
Penetro in quei bei sotterranei caldi e imbottiti del cinema Tarapout. Un vero alveare di camerini profumati in cui le inglesi in attesa dello spettacolo si sfogano in bestemmie e corse ambigue. Sùbito raggiante d’aver ritrovato la bistecca, mi affrettai ad avviare relazioni con quelle colleghe giovani e disinvolte. Loro mi fecero d’altronde gli onori del gruppo nel modo più garbato del mondo. Degli angeli. Degli angeli discreti. È bello non essere né confessato né disprezzato, è l’Inghilterra.
Grandi incassi al Tarapout. Anche tra le quinte tutto era lusso, spigliatezza, cosce, luci, saponi, sandwich. Il soggetto dell’intermezzo in cui comparivamo noi aveva qualcosa a che fare col Turkestan, credo. Era un pretesto per delle storielle coreografiche e ancheggiamenti musicali e violenti tambureggiamenti.
Il ruolo che avevo io, semplice, ma essenziale. Infagottato d’oro e d’argento, provavo all’inizio qualche difficoltà a installarmi in mezzo a tanti tralicci e lampadari instabili, ma ci feci la mano e una volta arrivato là, simpaticamente valorizzato, non avevo che da lasciarmi andare a fantasticare sotto i proiettori opalescenti.
Per un buon quarto d’ora venti baiadere londinesi si dimenavano in melodie e baccanali impetuosi per convincermi diciamo così della realtà delle loro attrattive. Io non chiedevo di meglio e pensavo che cinque volte al giorno, ripetere quella prestazione era molto per delle donne, e senza perdere mai un colpo come non bastasse, da una volta all’altra, dimenando implacabilmente le chiappe, con quella energia di razza un po’ noiosa, quella continuità intransigente che hanno le navi in rotta, i tagliamare, nel loro infinito faticare lungo gli Oceani...