Per strada, le bestie della foresta le sentii ancora molto spesso, con i loro lamenti e i loro tremoli e i loro richiami, ma non le vedevo quasi mai, non metto nel conto quel maialino selvatico sul quale una volta c’è mancato poco mettessi il piede nei dintorni del mio riparo. Da quelle raffiche di gridi, richiami, urli, si sarebbe potuto credere che erano là vicinissimi, a centinaia, a migliaia che brulicavano, gli animali. Però quando ti avvicinavi al posto dove strepitavano, più nessuno, a parte quelle grosse faraone blu, impacciate nel loro piumaggio come per nozze e così maldestre quando saltavano tossendo da un ramo all’altro, che si sarebbe detto che gli era appena capitato un accidente.

Più basso, sulle muffe del sottobosco, farfalle pesanti e larghe e bordate come delle partecipazioni tremano per la fatica d’aprirsi e poi, più ancora in basso stavamo noi, intenti a sguazzare nella fanga gialla. Avanzavamo solo a gran fatica, soprattutto perché mi portavano in una barella, i negri, confezionata con dei sacchi cuciti pezzo a pezzo. Avrebbero benissimo potuto scaricarmi nel brodo i portatori mentre guadavamo una palude. Perché non l’hanno fatto? L’ho saputo più tardi. Oppure mi avrebbero potuto anche mangiare visto che rientrava nelle loro usanze?

Di quando in quando, li interrogavo con la bocca impastata, quei compagni, e sempre mi rispondevano: sì, sì. Non ti contrariavano insomma. Della brava gente. Quando la diarrea mi lasciava un po’ di respiro, la febbre mi riprendeva sùbito. Non si può credere come stavo male a fare quella vita.

Cominciavo perfino a non vederci più chiaro o piuttosto vedevo tutte le cose in verde. Di notte tutte le bestie della terra venivano ad accerchiare il nostro accampamento, si accendeva un fuoco. E qua e là un grido traversava malgrado tutto l’enorme tendaggio nero che ci soffocava. Una bestia sgozzata che malgrado la sua paura degli uomini e del fuoco arrivava lo stesso a lagnarsi da noi, là, vicinissimo a lei.

A partire dal quarto giorno, non cercavo nemmeno di riconoscere il reale fra le assurdità della febbre che mi entravano nella testa le une nelle altre, insieme a brandelli di gente e pezzi di decisioni e scoraggiamenti che non finivano più.

Ma comunque, doveva pur esistere, mi dico oggi, quando ci penso, quel bianco barbuto che incontrammo un mattino su un promontorio di sassi alla congiunzione di due fiumi? E anche quel sentire un enorme fracasso molto vicino a una cataratta. Era un tipo del genere di Alcide, ma da sergente spagnolo. Eravamo appena passati a forza d andare a quel modo da un sentiero all’altro, bene o male, nella colonia di Rio del Rio, antico possedimento della Corona di Castiglia. Questo spagnolo povero militare, possedeva una capanna pure lui. S’è divertito un mondo, mi pare, quando gli ebbi raccontato tutte le mie disgrazie e quel che ne avevo fatto, io, della mia capanna! La sua, è vero, si presentava un po’ meglio, ma non tanto. Il tormento speciale che aveva lui, erano le formiche rosse. Avevano scelto di passare, per la loro migrazione annuale, giusto attraverso la capanna, le troiette, e non la smettevano di passare da più di due mesi.

Occupavano quasi tutto lo spazio; si faceva fatica a girarsi e poi, se le disturbavi, ti pizzicavano forte.

Fu immensamente felice che gli ho dato il mio spezzatino perché mangiava solo pomodoro, lui, da tre anni. Avevo niente da dire. Ne aveva già consumato, mi fece sapere lui, più di tremila scatole da solo. Stanco di cucinarsele in altro modo, adesso se le sorbiva nel modo più semplice del mondo attraverso due forellini praticati nel coperchio, come delle uova.

Le formiche rosse, appena lo seppero, che c’erano delle conserve nuove, montarono la guardia intorno al suo spezzatino. Si sarebbe mica potuto lasciare una sola scatola in giro, già cominciata, loro avrebbero fatto entrare l’intera razza delle formiche rosse nella capanna. Niente di più comunista. E quelle si sarebbero sbafate anche lo spagnolo.

Seppi dal mio ospite che la capitale di Rio del Rio si chiamava San Tapeta, città e porto celebre su tutta la costa e anche oltre, per l’armamento di galere di lungo corso.

La pista che noi seguivamo portava lì esattamente: era la strada, ci bastava continuare così per tre giorni e tre notti ancora. Solo per curarmi il delirio, domandai allo spagnolo se non conosceva alle volte qualche buona medicina indigena che m’avrebbe rimesso in sesto. La testa mi lavorava che era un disastro. Ma lui non voleva sentir parlare di quegli affari lì. Per un colonizzatore spagnolo era anche stranamente africanofobo, al punto che si rifiutava di servirsi al gabinetto, quando ci andava, delle foglie di banano e teneva a portata di mano, ritagliata per quell’uso, tutta una pila del “Boletìn de Asturias”, apposta. Non leggeva più nemmeno il giornale, proprio come Alcide, lo stesso.

Dopo tre anni che viveva là, solo con le formiche, qualche piccola mania e i suoi vecchi giornali, e poi anche con quel terribile accento spagnolo che è come una specie di seconda persona tanto è forte, era difficile riuscire a stuzzicarlo. Quando insultava i negri era come un uragano per esempio, Alcide non esisteva al suo confronto in fatto di urlate. Finii per cedergli tutto il mio spezzatino a ‘sto spagnolo tanto mi piaceva. Per sdebitarsi lui mi rilasciò un bellissimo passaporto su carta filigranata con le insegne di Castiglia con una di quelle firme così lavorate che gli ci vollero per la minuziosa esecuzione dieci minuti buoni.

Per San Tapeta, non ci si poteva dunque sbagliare, aveva detto il vero, era proprio sempre diritto. Non so più come ci arrivammo, ma sono sicuro di una cosa, che mi affidarono appena arrivati nelle mani di un prete che mi sembrò così mal messo che sentirmelo a fianco mi ridiede come una specie di coraggio comparato. Non per molto.

La città di San Tapeta era attaccata sul fianco di una rupe proprio davanti al mare, e verde che bisognava vedere come. Un magnifico spettacolo, senza dubbio, visto dalla rada, qualcosa di sontuoso, di lontano, ma da vicino solo carni sovraffaticate come a Fort-Gono, e che non finivano nemmeno quelle di far pustole e cuocere. Quanto ai negri della mia piccola carovana, in un momento di lucidità li congedai. Avevano traversato un gran pezzo di foresta e temevano al ritorno per la loro vita, dicevano loro. Ci piangevano in anticipo lasciandomi, ma la forza di compiangerli a me mi mancava. Avevo troppo sofferto e troppo sudato. E non la finiva.

Per quel che mi ricordo, un sacco d’esseri gracchianti di cui quell’agglomerato era indubbiamente assai popolato, venne giorno e notte da quel momento ad affaccendarsi attorno alla mia cuccia che era stata sistemata appositamente nel presbiterio, le distrazioni erano rare a San Tapeta. Il prete mi riempiva di tisane, una lunga croce dorata gli oscillava sul ventre e dalle profondità della sua sottana saliva quando si avvicinava al mio capezzale un gran tinnire di monete. Ma non era più questione di conversare con la gente, il solo balbettare già mi sfiancava oltre ogni dire.

Credevo proprio che era finita, cercavo di guardare ancora un po’ di quel che si poteva scorgere di questo mondo dalla finestra del prete. Non oserei affermare che oggi possa descrivere quei giardini senza commettere grossolani errori di fantasia. Di sole, questo è sicuro che ce n’era, sempre lo stesso, come se vi aprissero una grossa caldaia sempre in piena faccia e poi, sotto, ancora sole e quegli alberi insensati, e ancora dei viali, quelle specie di lattughe rigogliose come querce e quei tipi di denti di leone che ne basterebbero tre o quattro per farne un bel castagno dei nostri normali. Aggiungeteci un rospo o due nel mucchio, pesanti come degli spaniel e che trottano al riparo da un cespuglio all’altro.

È con gli odori che finiscono gli esseri, i paesi e le cose. Tutte le avventure se ne vanno per il naso. Ho chiuso gli occhi perché davvero non potevo più aprirli. Allora l’odore acre dell’Africa, notte dopo notte s’è attenuato. Mi riuscì sempre più difficile ritrovare il suo pesante miscuglio di terra morta, di cavallo dei pantaloni e di zafferano tritato.

Del tempo, del passato e ancora del tempo e poi venne un momento in cui subii una quantità di choc e nuove revulsioni e poi di scosse più regolari, di quelle che ti cullano...

Coricato, lo ero ancora di sicuro, ma questa volta su una materia in movimento. Mi lasciavo andare e poi vomitavo e mi risvegliavo ancora e mi riaddormentavo. Era in mare. Stracco morto come mi sentivo avevo appena la forza di percepire il nuovo odore di cordame e di catrame. Faceva fresco nel recesso ballonzolante in cui ero stivato proprio sopra un oblò spalancato. Mi avevano lasciato tutto solo. Il viaggio evidentemente continuava... Ma quale? Sentivo dei passi sul ponte, un ponte in legno, sopra il mio naso e delle voci e le onde che venivano a sciabordare e a rompersi contro le fiancate.

È molto raro che la vita torni al vostro capezzale, ovunque voi siate, in un modo che non abbia la forma di uno sporco scherzo da prete. Quello che m’avevano giocato i tipi di San Tapeta poteva bastare. Non avevano forse profittato del mio stato per vendermi scassato com’ero all’armamento di una galera? Un bella galera, in fede mia, lo ammetto, alta di fiancata, ben munita di remi, coronata di belle vele porpora, un castello di poppa dorato, una nave che era tutto quel che c’era di imbottito nelle sale per ufficiali, con a prua un superbo ritratto a olio di fegato di merluzzo raffigurante l’Infanta Combitta in abbigliamento da polo. Patrocinava, mi spiegarono poi, l’Altezza Reale, col suo nome, le sue tettone e il suo onore reale il naviglio che ci trasportava. Era lusinghiero.

Dopo tutto, meditavo io a proposito della mia avventura, se resto a San Tapeta, continuo a essere malato come un cane, gira tutto e sarei sicuramente crepato da quel prete o dove i negri m’avevano piazzato... Ritornare a Fort-Gono? Non me li schivavo allora i miei quindici anni con la faccenda dei conti... Qui almeno ci si muoveva e questo era già una speranza. A pensarci, ‘sto capitano dell’Infanta Combitta aveva avuto un bel coraggio a comperarmi, anche a basso prezzo dal mio prete al momento di levare l’àncora. Rischiava tutti i suoi soldi in quella transazione il capitano. Avrebbe potuto perdere tutto... Aveva speculato sulla benefica azione dell’aria di mare per rimettermi in sesto. Meritava la sua ricompensa. Stava per guadagnarci visto che mi sentivo già meglio e lo trovai contento. Deliravo ancora parecchio ma con una certa logica... Da quando cominciai ad aprire gli occhi venne spesso a trovarmi nel mio stesso bugigattolo, e adorno del suo cappello piumato, il capitano. Mi appariva in quel modo.

Si divertiva alquanto a vedere che cercavo di sollevarmi sul saccone malgrado la febbre che mi attanagliava. Vomitavo “Presto, su, cacasotto, che remerai con gli altri!” mi predisse lui. Era gentile da parte sua, e scoppiava a ridere dandomi dei piccoli colpi di frustino, ma comunque amichevoli, e sulla nuca, non sulle chiappe. Voleva che mi divertissi anch’io, che mi rallegrassi con lui del buon affare che aveva concluso comperandomi.

Il mangiare di bordo mi sembrò accettabilissimo. Non la smettevo di farfugliare. Rapidamente, come aveva predetto il capitano, mi ritrovai con abbastanza forze per andare a remare di quando in quando con i compagni. Ma dove ce n erano dieci di soci ne vedevo cento: le traveggole.

Ci si stancava poco comunque durante quella traversata perché navigavamo la più parte del tempo con le vele. La nostra condizione nei sottoponti non era affatto più nauseabonda di quella dei normali viaggiatori di terza classe in un vagone della domenica e meno pericolosa di quella che avevo affrontato a bordo dell’Amiral-Bragueton per venire. Avemmo sempre vento fresco durante quel passaggio dall’est all’ovest dell’Atlantico. La temperatura s’abbassò. Non ci si lamentava affatto nei sottoponti. Trovavamo solo che era un po’ lunga. Quanto a me, me ne ero già fatti di spettacoli di mare e di foresta per l’eternità.

Avrei proprio voluto chiedere dei particolari al capitano sui fini e i mezzi della nostra navigazione, ma da quando andavo decisamente meglio, lui aveva smesso di interessarsi della mia sorte. E poi vaneggiavo comunque troppo per una conversazione. Lo vedevo solo di lontano, come un vero padrone.

A bordo, fra i galeotti, mi misi a cercare Robinson e a più riprese durante la notte, in pieno silenzio, lo chiamai ad alta voce. Nessuno rispose salvo qualche ingiuria e minaccia: la Ciurma.

Tuttavia, più riflettevo sui dettagli e le circostanze della mia avventura più mi sembrava probabile che glielo avessero fatto anche a lui il colpo di San Tapeta. Solo che Robinson adesso doveva remare su un’altra galera. I negri della foresta dovevano essere tutti nel commercio e nel combino. A ognuno il suo giro, era regolare. Bisogna pur vivere e prenderle per venderle le cose e le persone che non si mangiano sùbito. La relativa gentilezza degli indigeni nei miei confronti si spiegava nel più sordido dei modi.

L’Infanta Combitta viaggiò ancora per settimane e settimane attraverso i cavalloni atlantici, tra un mal di mare e un accesso, e poi una bella sera tutto s’è calmato intorno a noi. Non avevo più il delirio. Ci crogiolavamo intorno all’àncora. L’indomani al risveglio, capimmo aprendo gli oblò che eravamo arrivati a destinazione. Era la fine del mondo come spettacolo!

 

Viaggio al termine della notte
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