Ce la si può cavare in due modi per penetrare nella foresta, ossia ritagliarsi un tunnel alla maniera dei topi nei covoni di fieno. È il modo soffocante. Tentennai. O invece adattarsi a risalire il fiume, bello pigiato in fondo a un tronco d’albero, sospinto con le pagaie da un’ansa a una palude e spiando così il susseguirsi dei giorni offrirsi in pieno a tutta la luce, senza scampo. E poi stordito da quei caciaroni di negri, arrivare dove si deve nello stato che si può.

Ogni volta, alla partenza, per mettersi in cadenza, gli ci vuole un po’ di tempo ai canottieri. La litigata. Prima la punta della pala in acqua e poi due o tre urli cadenzati e la foresta che risponde, ondeggiamenti, quella scivola, due rami, poi tre, ci si cerca ancora, onde, farfugliamenti, uno sguardo all’indietro ti riporta al mare che s’appiattisce laggiù, s’allontana e davanti la lunga distesa levigata contro la quale si va faticando, e poi Alcide ancora un po’ sul suo imbarcadero che intravedo lontano, già quasi inghiottito dai vapori del fiume, sotto il suo casco enorme, a campana, solo un pezzo di testa, un formaggino di faccia e il resto di Alcide sotto a flottare nella tunica come già perso in un buffo ricordo in pantaloni bianchi.

È tutto quel che mi resta di quel posto, di quella Topo.

L’avranno potuto difendere ancora a lungo quel gruppo di case che brucia contro la falsa sornioneria del fiume dalle acque nocciola? E le sue tre capanne pulciose riescono ancora a stare in piedi? E dei nuovi Grappa e degli Alcide sconosciuti stanno ancora ad addestrare nuovi fucilieri a battaglie immaginarie? Esercitano sempre quella giustizia alla buona? L acqua che cercano di bere è sempre così rancida? così tiepida? Da rovinarti la bocca per otto giorni dopo ogni volta... E sempre niente ghiacciaia? E le battaglie nelle orecchie che gli infaticabili calabroni del chinino scatenano contro le mosche? Solfato? Cloridrato?... Ma anzitutto esistono ancora dei negri da disseccare e ridurre in pustole in quel forno? Può anche darsi di no...

Può darsi che niente di tutto quello esista ancora, che il piccolo Congo abbia leccato Topo con un gran colpo della sua lingua fangosa una sera di tornado, incidentalmente, e che sia finita, proprio finita, che persino il nome sia sparito dalle carte, che ci sono solo io a ricordarmi ancora di Alcide... Che anche la nipote l’ha dimenticato. Che il tenente Grappa non abbia più rivisto la sua Tolosa... Che la foresta che da sempre spiava la duna allo scoccare della stagione delle piogge s’è ripresa tutto, tutto schiantato sotto l’ombra dei mogani immensi, tutto, e anche gli imprevedibili fiorellini della sabbia che Alcide non voleva che innaffiassi... Che non esista più niente.

Quel che furono i dieci giorni di risalita di quel fiume, me lo ricorderò a lungo... Passati a sorvegliare i mulinelli limacciosi, sul bordo della piroga, a scegliere un passaggio furtivo dopo l’altro, tra enormi ramaglie alla deriva, agilmente evitate. Lavoro da galeotti in fuga.

Dopo ogni crepuscolo, facevamo sosta su un promontorio roccioso. Certe mattine, lasciavamo finalmente quello sporco canotto selvaggio per entrare nella foresta attraverso un sentiero nascosto che si insinuava nella penombra verde e umidiccia, illuminata soltanto di tratto in tratto da un raggio di sole spiovente dal punto più alto di quella infinita cattedrale di foglie. Mostri d’alberi abbattuti costringevano il nostro gruppo a molte deviazioni. Nella loro concavità un metrò intero avrebbe manovrato a suo agio.

A un certo punto, siamo tornati in piena luce, eravamo arrivati davanti a uno spazio diboscato, dovemmo arrampicarci ancora, altro sforzo. L’altura che raggiungemmo coronava l’infinita foresta, ondeggiante di cime gialle e rosse e verdi, a colmare, a gravare su monti e vallate, mostruosamente abbondante come il cielo e l’acqua. L’uomo di cui cercavamo l’abitazione stava, mi fecero segno, ancora un po’ più lontano... in un altro valloncello. Ci aspettava là l’uomo.

Tra due grosse rocce si era sistemato una sorta di baita, al riparo, mi fece notare lui, dai tornado dell’est, i più cattivi, i più rabbiosi. Volli ammettere che era proprio un vantaggio, ma quanto al capanno in sé, apparteneva certo all’ultima categoria scalcinata, dimora quasi teorica, sfilacciata dappertutto. Mi aspettavo proprio qualcosa del genere in fatto di abitazione, ma comunque la realtà superava le mie previsioni.

Dovetti sembrargli completamente costernato all’amico perché mi interpellò alquanto bruscamente per farmi uscire dalle mie riflessioni. “Suvvia, starà meno peggio qui che in guerra! Qui, dopo tutto, ce la si può sbrogliare! Si mangia male, esatto, e quanto a bere, è fango autentico, ma si può dormire fin che si vuole... Niente cannoni qui amico! Pallottole nemmeno! Insomma è un affare!” Mi parlava un po’ con lo stesso tono dell’Agente generale, ma occhi chiari come quelli dell’Alcide, aveva.

Doveva avvicinarsi alla trentina, e barbuto... Non l’avevo guardato bene arrivando, tanto arrivando ero sconcertato dalla povertà della sua installazione, quella che mi doveva lasciare in retaggio e che mi doveva riparare per interi anni forse... Ma gli trovai, osservandolo, in seguito, una faccia indubbiamente avventurosa, una faccia dagli angoli ben marcati e perfino una di quelle teste da rivoltoso che entrano troppo nel vivo dell’esistenza invece di scivolarci sopra, con un grosso naso tondo per esempio e gote piene a ciabatta, di quelle che vanno a sciabordare contro il destino con il rumore di un cicaleccio. Questo qui era un disgraziato.

“È vero, ripresi io, c’è niente peggio della guerra!”

Era abbastanza per il momento come confidenze, non avevo voglia di dire altro. Ma fu lui che continuò sullo stesso tema:

“Soprattutto adesso che le fanno così lunghe le guerre... aggiunse lui. Insomma, lei vedrà amico mio che qui non è mica molto divertente, ecco tutto! C’è niente da fare... è come una specie di vacanza... Solo che ecco, delle vacanze qui! vero!... Insomma, dipende forse dal carattere, posso dire niente...

- E l’acqua?” chiesi io. Quella che vedevo nella ciotola che mi ero versato da solo mi spaventava, giallastra, ne bevvi, nauseante e calda come quella di Topo. Un fondo di pitale al terzo giorno.

“È ‘sta roba qui l’acqua?” Lo strazio dell’acqua stava per ricominciare.

“Sì, non c’è che quella da queste parti e poi la pioggia... Solo che quando pioverà la capanna non resisterà mica a lungo. Lo vede in che stato è la capanna?” Lo vedevo.

“Per il mangiare, riprese lui, c’è solo conserva, me la pappo da un anno io... Ci sono mica morto!... In un certo senso è molto comodo, ma è una roba che al corpo non basta; gli indigeni loro, si sbafano manioca marcia, affar loro, a loro gli piace... Da tre mesi vomito tutto... La diarrea. Forse è anche la febbre; ce l’ho tutt’e due... E anche che non ci vedo più bene verso le cinque. È da lì che vedo che ho la febbre perché per il caldo, nevvero, è difficile avere più caldo di quello che hai qui solo con la temperatura del posto!... Insomma, sono piuttosto i brividi che ti avvertono che hai la febbre... E poi anche perché ti annoi un po’ meno... Ma questo ancora dipende forse dai temperamenti.. si potrebbe forse bere dell’alcool per tirarsi su, ma non mi piace a me l’alcool... Non lo sopporto...”

Sembrava avere una grande considerazione per quelli che lui chiamava “i temperamenti”.

E poi, già che c’era, mi passò qualche altra informazione allettante: “Di giorno è il caldo, ma la notte, è il rumore che è il più difficile da sopportare... C’è da non crederci... Sono le bestiole della zona che si rincorrono per scoparsi o per mangiarsi, so niente, ma è quello che m’han detto... fatto sta che allora è un baccano da non dire!... Quelle che fanno più rumore in mezzo, sono ancora le iene! Vengono lì vicinissimo alla capanna... Allora le sentirà... Non potrà sbagliare... Non è come per i rumori del chinino... Ci si può sbagliare qualche volta con gli uccelli, i mosconi e il chinino... Succede... Mentre con le iene c’è da divertirsi un mondo... è proprio la tua carne che loro si sniffano... Quello le fa ridere!... Che fretta di vederti crepare quelle bestie!... Si possono anche vedere gli occhi che gli brillano a quel che dicono... Gli piace la carogna... Io non le ho guardate negli occhi... Mi rincresce in un certo senso...

- È divertente qui!” gli rispondo io.

Ma non era tutto per il divertimento notturno.

“C’è ancora il villaggio, aggiunse lui... Ci sono neanche cento negri dentro, ma fanno un casino per diecimila, ‘sti froci!... Me ne racconterà di storie anche di quei lì! Ah! se lei è venuto per il tam-tam, non ha mica sbagliato colonia!... Perché qui, una volta è perché c’è la luna che li suonano, e poi, perché non c’è più la luna... E poi perché l’aspettano la luna... Insomma, è sempre per qualcosa! Si direbbe che si mettono d’accordo con le bestie per romperti i coglioni ‘ste carogne! Da creparci glielo dico io! Io, li accopperei tutti in un colpo solo se non fossi così stanco... Ma preferisco ancora mettermi il cotone nelle orecchie... Prima, quando mi restava ancora un po’ di vaselina nell’armadietto dei medicinali, ce ne mettevo dentro, sul cotone, adesso ci metto il grasso di banana al suo posto. È altrettanto buono il grasso di banana... Con quello, loro possono sempre godersela con tuoni e fulmini se quello li eccita, ‘ste pelli di salsiccia! Io, me ne strabatto proprio col mio cotone col grasso! Sento più niente! I negri, lei si renderà sùbito conto, son tutti morti e tutti marci!... Di giorno, stanno accovacciati, ti crederesti che non sono capaci di alzarsi nemmeno per andare a pisciare contro un albero e poi appena fa notte, va’ a farti vedere! Diventa tutto vizioso! tutto nervi! tutto isterico! Pezzi di notte che diventano isterici! Ecco cos’è che sono i negri, glielo dico io! Alla fin fine, degli sporcaccioni... Dei degenerati insomma!...

- Vengono spesso a comperare da lei?

- Comperare? Ah! si rende conto! Bisogna rubargli prima che rubino a te, è questo il commercio e basta! Durante la notte con me d’altra parte, non si fanno scrupoli, per forza, col mio cotone bello grasso per ogni orecchio eh! Avrebbero torto a fare complimenti, non è così? E poi, come vede, ci sono nemmeno le porte alla capanna allora loro si servono, eh, lei può dirlo... è la bella vita qui per loro...

- Ma, e l’inventario? chiesi io, assolutamente sbalordito da quelle precisazioni. Il Direttore generale mi ha proprio raccomandato di stendere l’inventario appena arrivato, per filo e per segno!

- Per quel che mi riguarda, mi rispose allora lui in perfetta calma, il Direttore generale, io gli vado in culo... Come ho l’onore di dirle...

- Ma, comunque lo deve vedere a Fort-Gono, ripassando?

- Non rivedrò mai, né Fort-Gono, né il Direttore... è grande la foresta amico mio...

- Ma allora, dove andrà?

- Se glielo chiedono, lei risponderà che non ne sa niente! Ma poiché lei ha l’aria di uno curioso, lasci che, finché c’è tempo, le dia proprio un consiglio di quelli buoni! Se ne strafreghi degli affari della Compagnie Pordurière, come quella se ne fotte dei suoi e se lei riesce a correre tanto in fretta quanto quella rompe, la Compagnia, posso dirle fin da adesso, che lei vincerà certamente il Gran Premio!... Se ne stia contento che le lascio un po’ di numerario e non mi chieda altro!... Quanto alla merce se è vero che le ha raccomandato di prenderla in carico... Gli risponderà al Direttore che non ce n’era più, ecco fatto!... Se lui rifiuta di crederci, eh be’, avrà nessuna importanza lo stesso!... Ci considerano già tutti in blocco dei ladri, comunque! Cambierà dunque niente nell’opinione pubblica e per una volta ecco che questo ci frutterà qualcosina... Il Direttore, d’altronde, non abbia paura, se ne intende di pastette come nessuno e non è il caso di contraddirlo! è il mio parere! è anche il suo? Si sa bene che per venire qui, vero, bisogna esser pronti a far fuori padre e madre! Allora?...”

Non ero molto sicuro che fosse vero, tutto quello che mi raccontava, ma fatto sta che ‘sto predecessore mi faceva l’effetto istantaneo d’un grande sciacallo.

Proprio niente tranquillo, ero io. “Ecco che m’è cascata addosso un’altra brutta storia”, confessai a me stesso, e sempre più forte. Smisi di conversare con quel pirata. In un angolo, alla rinfusa, scoprii a casaccio le mercanzie che voleva scaricarmi, cotonine insignificanti... Ma in compenso perizomi e babbucce a dozzine, del pepe in scatola, dei lampioncini, un recipiente per clisteri, e soprattutto una quantità disarmante di spezzatino alla bordolese in conserva, infine una cartolina a colori: “la Place Clichy”.

“Vicino al palo, troverai il caucciù e l’avorio che ho comperato dai negri... All’inizio, mi davo da fare, e poi, ecco, tieni, trecento franchi... Son quelli del tuo conto.”

Non sapevo di che conto si trattava, ma rinunciai a chiederglielo.

“Ci avrai forse ancora qualche scambio di merce, mi avvertì lui, perché i soldi qui sai non ce n’è bisogno, servono solo a squagliarsela i soldi...”

E si mise a sghignazzare. Non avendo alcuna intenzione di contrariarlo per il momento, feci lo stesso e sghignazzai con lui proprio come se fossi stato tutto contento.

A dispetto delle ristrettezze in cui vegetava da mesi, s’era circondato di una servitù molto complessa composta soprattutto di garzoncelli, assai premurosi nel porgergli l’unico cucchiaio del servizio o la tazza spaiata, o ancora nel l’estrargli dalla pianta dei piedi, abilmente, le insonni e classiche pulci penetranti che ci si infilavano. In cambio, gli passava, benevolmente, una mano tra le cosce tutti i momenti. La sola fatica che gli vidi intraprendere, era il grattarsi di persona, ma allora ci si abbandonava, come il negoziante di Fort-Gono, con una agilità meravigliosa, che si può osservare solo nelle colonie.

Il mobilio che mi lasciò in eredità mi rivelò tutto quello che l’ingegnosità poteva ottenere con delle casse di sapone spaccate, in fatto di sedie, tavolini e poltrone. Il tenebroso mi insegnò ancora come si scagliavano lontano con un sol colpo secco, per distrarsi, di punta, a esser lesti di piede, i grossi bruchi corazzati che salivano sempre nuovi ronzanti e bavosi all’assalto della nostra capanna forestale. Se li schiacci, da imbranato, guai a te! Sei punito da otto giorni consecutivi di puzzo spaventoso, che si sprigiona lentamente dalla loro indimenticabile poltiglia. Lui aveva letto in qualche raccolta che quei grossi obbrobri rappresentavano in fatto di bestie quel che c’era di più vecchio al mondo. Datavano, asseriva lui, dal secondo periodo geologico! “Quando noialtri verremo da così lontano come loro, amico, non puzzeremo forse anche noi?” Tal quale.

I tramonti di quell’inferno africano si rivelavano straordinari. Non te li toglieva nessuno. Ogni volta tragici come mostruosi assassinii del sole. Un immenso bluff. Soltanto che c’era troppo da ammirare per un uomo solo. Il cielo per un’ora si pavoneggiava tutto spruzzato da un capo all’altro d uno scarlatto delirante, e poi il verde scoppiava in mezzo agli alberi e s’innalzava dal suolo a strisce tremanti fino alle prime stelle. Dopo di che il grigio riprendeva tutto l’orizzonte e poi di nuovo il rosso, ma allora stanco il rosso e non per molto. Finiva così. Tutti i colori ricadevano a brandelli, afflosciati sulla foresta come vecchi stracci alla centesima replica. Ogni giorno verso le sei era esattamente così che andava.

E la notte con tutti i suoi mostri entrava allora in ballo tra mille e mille rumori di gole di rospo.

La foresta aspetta solo il loro segnale per mettersi a tremare, fischiare, muggire da tutte le sue profondità. Un’enorme stazione amorosa e senza luce, piena da schiattare. Alberi interi gonfi di scorpacciate viventi, d’erezioni mutilate, d’orrore. Si finiva per non sentirci più tra noi nella capanna. Dovevo gridare a mia volta sopra la tavola come un barbagianni perché il compagno mi capisse. Ero servito, io che non amavo la campagna.

“Com’è che si chiama lei? Non è Robinson che mi ha detto?” gli chiesi io.

Era intento a ripetermi l’amico, che gli indigeni dei paraggi soffrivano sino all’apatia di tutte le malattie che si potevano prendere e proprio non erano in grado i poveracci di dedicarsi a qualsiasi commercio. Mentre parlavamo dei negri, mosche e insetti, grossi così, che non li potevi contare, vennero ad abbattersi sulla lanterna, a raffiche così dense che si dovette spegnere.

Il volto di Robinson m’apparve ancora una volta, prima che spegnesse, velato da quella rete d’insetti. È per questo forse che i suoi tratti si incisero più sottilmente nella mia memoria, mentre prima non mi ricordavano niente di preciso. Nell’oscurità continuava a parlarmi mentre risalivo nel mio passato con un tono di voce che era come un richiamo sulla soglia degli anni e dei mesi, e poi dei miei giorni, a chiedermi dove avevo mai potuto incontrarlo quell’essere. Ma non trovai nulla. Non avevo risposte. Ci si può perdere andando a tentoni tra le forme trascorse. È spaventoso quante ce ne sono di cose e persone che non si muovono più nel tuo passato. I vivi che si smarriscono nelle cripte del tempo dormono così bene con i morti che perfino un’ombra già li confonde.

Non si sa più chi risvegliare quando si invecchia, se i vivi o i morti.

Cercavo di identificare ‘sto Robinson quando delle specie di risate atrocemente esagerate, non lontano nella notte, mi fecero sussultare. E si zittirono. Lui mi aveva avvertito, le iene di sicuro.

E poi nient’altro che i neri del villaggio e i loro tam-tam, questa percussione farneticante su legno cavo, termiti del vento.

È il nome stesso di Robinson che mi tormentava, sempre più nettamente. Ci mettemmo a parlare dell’Europa nella nostra oscurità, dei pasti che ti puoi far servire laggiù quando hai dei soldi e anche il bere poi! così bello fresco! Non parlammo dell’indomani in cui dovevo restare solo, là, per degli anni forse, con tutti gli spezzatini... Bisognava ancora preferire la guerra? Era peggio di sicuro. Era peggio!... Ne conveniva anche lui... C’era stato anche lui in guerra... Però se ne andava di qui... Ne aveva abbastanza della foresta, malgrado tutto... Cercavo di riportarlo sul tema della guerra. Ma si defilava adesso.

Alla fine, nel momento in cui ci siamo coricati ciascuno nel suo angolo di quello sfascio di foglie e tramezze, mi confessò senza troppi complimenti che tutto considerato preferiva ancora essere condannato da un tribunale civile per alienazione fraudolenta che sopportare più a lungo la vita di spezzatino che faceva qui da quasi un anno. Ero avvisato.

“Non ha del cotone per le orecchie? mi chiese lui ancora... Se non ne ha, se lo faccia coi peli della coperta e il grasso di banana. Ci vengono così fuori dei piccoli tamponi che vanno benissimo... Io non voglio mica sentirle schiamazzare quelle vacche là!”

C’era assolutamente di tutto in quella tormenta, tranne le vacche, ma lui teneva a quel termine improprio e generico.

La faccenda del cotone m’impressionò repentinamente come se dovesse nascondere un qualche spaventevole inganno da parte sua. Non potevo evitare d’essere invaso dalla paura tremenda che si mettesse ad assassinarmi là, sul mio “smontabile”, prima di andarsene portando via quel che restava della cassa... Quest’idea mi stordiva. Ma che fare? Chiamare? Chi? Gli antropofagi del villaggio?... Scomparso? lo ero già quasi, in verità! A Parigi, senza beni, senza debiti, senza eredità, già esisti appena, fai fatica a non essere già scomparso... Qui allora? Chi si darebbe soltanto la pena di venire fino a Bikomimbo a sputare soltanto nell’acqua, niente di più, per far piacere al mio ricordo? Nessuno evidentemente.

Passarono ore attraversate da pause ed angosce. Lui non russava. Tutti quei rumori, quei richiami che venivano dalla foresta mi impedivano di sentirlo respirare. Nessun bisogno di cotone. Quel nome di Robinson a forza di accanirmi finì comunque per rivelarmi un corpo, un’andatura, anche una voce che avevo conosciuto... E poi nel momento in cui stavo davvero per cedere al sonno l’individuo si drizzò tutto intero davanti al mio letto, acchiappai il suo ricordo, non lui certo, ma il ricordo preciso di quel Robinson, l’uomo di Noirceur-sur-la-Lys, lui, laggiù nelle Fiandre, che io avevo accompagnato sul limitare di quella notte in cui cercavamo insieme un buco per sfuggire alla guerra e poi ancora lui più tardi a Parigi... Tutto è ritornato... Anni che passavano in un sol colpo. Ero stato molto malato alla testa, arrancavo... Adesso che sapevo, che l’avevo ripescato, non potevo evitare di avere una gran paura. Mi aveva riconosciuto lui? In ogni caso poteva contare sul mio silenzio e la mia complicità.

“Robinson! Robinson! chiamai, ringalluzzito, come per annunciargli la buona notizia. Ehi vecchio mio! Ehi Robinson!...” Nessuna risposta.

Col cuore che batteva forte, mi alzai e mi preparai a prendere una saracca nello stomaco... Niente. Allora con grande audacia, mi avventurai fino all’altra estremità della capanna, a tentoni, dove l’avevo visto coricarsi. Era partito.

Aspettai il giorno sfregando un fiammifero di quando in quando. Il giorno arrivò in una tromba di luce e poi sopraggiunsero i negri domestici per offrirmi, ilari, la loro smisurata inutilità, salvo però che erano allegri. Provavano già a insegnarmi la spensieratezza. Avevo un bel cercare con una serie di gesti molto studiati, di fargli capire quanto la sparizione di Robinson m’inquietava, questo non aveva per niente l’aria di impedirgli di fottersene completamente. C’è, è vero, molta follia nell’occuparsi di un’altra cosa che non sia quello che si vede. Insomma, io, era la cassa che rimpiangevo soprattutto in questa storia. Ma è poco comune rivedere gente che porta via la cassa... Questa circostanza mi fece presumere che Robinson rinuncerebbe a tornare solo per assassinarmi. Era sempre tanto di guadagnato.

Tutto mio dunque il paesaggio! Avrei ormai tutto il tempo di tornarci, riflettevo io, alla superficie, alla profondità di quell’immensità di fogliame, di quell’oceano di rosso, di giallo marmorizzato, di venature fiammeggianti magnifiche senza dubbio per quelli che amano la natura. A me non piaceva proprio per niente. La poesia dei Tropici mi disgustava. Il mio sguardo, i miei pensieri su quegli insiemi mi tornavano su come il tonno. Si avrà un bel dire, sarà sempre un paese per zanzare e pantere. A ciascuno il suo posto.

Preferivo ancora ritornare alla mia capanna e rimetterla in sesto in previsione del tornado, che non poteva tardare. Ma anche lì, dovetti rinunciare molto presto alla mia azione di consolidamento. Quel che era sbilenco[9] in quella struttura poteva ancora crollare ma non si raddrizzava più, il tetto di paglia corroso dagli insetti si sfilacciava, con la mia magione non si sarebbe davvero messo in piedi un pisciatoio come si deve.

Dopo aver descritto a lenti passi qualche cerchio nella savana dovetti rientrare per buttarmi giù e star zitto, a causa del sole. Sempre lui. Tutto tace, tutto ha paura di bruciare verso i mezzogiorni, ci vuole un niente d’altra parte, erbe, animali e uomini, caldi a puntino. È l’apoplessia meridiana.

Il mio pollo, l’unico, la temeva anche lui quell’ora, tornava dentro con me, lui, l’unico, lascito di Robinson. Ha vissuto con me per tre settimane, il pollo, passeggiando, seguendomi come un cane, chiocciando a proposito e a sproposito, scorgendo serpenti dappertutto. Un giorno di grandissima noia, l’ho mangiato. Non aveva alcun sapore, la carne stinta al sole come un calicò. È stato forse lui che mi ha fatto stare così male. Insomma, fatto sta che il giorno dopo quel pasto non potevo più alzarmi. Verso mezzogiorno, rintronato, mi sono trascinato verso la scatoletta delle medicine. Dentro non c’era più che della tintura di iodio e una pianta della seconda linea del metrò. Clienti, non ne avevo ancora visti venire alla fattoria, soltanto dei neri bighelloni, gesticolatori interminabili e masticatori di cola, erotici e malarici. Adesso, se ne tornavano in cerchio intorno a me i negri, avevano l’aria di discutere sulla mia brutta faccia. Malato, lo ero completamente, al punto che mi sembravo di non aver più bisogno delle gambe, pendevano semplicemente dal bordo del letto come cose trascurabili e un po’ comiche.

Da Fort-Gono, dal Direttore, mi arrivavano per corriere solo lettere che puzzavano di cicchetti e di scemenze, anche minacciose. Quelli del commercio che si reputano tutti dei piccoli e grandi furbi di professione il più delle volte nella pratica si rivelano degli insuperabili balordi. Mia madre, dalla Francia, m’incitava a stare attento alla mia salute, come in guerra. Sotto la mannaia, mia madre m’avrebbe sgridato perché avevo dimenticato il foulard. Non rinunciava a niente mia madre per cercare di farmi credere che il monda era benevolo e che lei aveva fatto bene a concepirmi. È il grande inganno dell’incuria materna, questa Provvidenza presunta. Mi era proprio facile d’altra parte non rispondere a tutte quelle menate del padrone e di mia madre, e non rispondevo mai. Soltanto che questo atteggiamento non migliorava nemmeno la situazione.

Robinson aveva all’incirca rubato tutto di quel che aveva contenuto quel fragile insediamento e chi mi crederebbe se andavo a dirlo? Scriverlo? A che serve? A chi? Al padrone? Ogni sera verso le cinque, battevo i denti dalla febbre a mia volta, e di quella vivace, al punto che il mio letto cigolante ne tremava come quello di un vero segaiolo. Dei negri del villaggio s’erano impadroniti senza complimenti del servizio e della capanna; io non li avevo chiesti, ma rimandarli era già troppo sforzo. S’accapigliavano intorno a quel che restava della fattoria, smanacciando i barili di tabacco, provando gli ultimi perizomi, valutandoli, togliendoseli, contribuendo ancora se fosse possibile allo sfacelo generale della mia installazione. Il caucciù tutto per terra, strascicato, mescolava il suo sugo ai meloni di savana, a quelle papaye dolciastre dal gusto di pere all’orina, il cui ricordo, quindici anni dopo, tante ne ho mangiate al posto dei fagiolini, ancora mi nausea.

Cercavo di calcolare a quale livello d’impotenza ero caduto ma non ci riuscivo. “Rubano tutti!” mi aveva ripetuto per tre volte Robinson prima di sparire. Era anche il parere dell’Agente generale. Nella febbre, quelle parole mi tormentavano. “Bisogna che ti arrangi!”... mi aveva detto lui ancora. Cercavo di alzarmi. Non ci riuscivo proprio. Per l’acqua che bisognava bere, lui aveva ragione, fango era, peggio, un fondo di pitale. Dei negroni mi portavano un sacco di banane, di quelle grosse, di quelle piccole e sanguigne, e sempre di quelle papaye, ma mi faceva talmente male alla pancia tutto quello e quant’altro! Avrei vomitato la terra intera.

Appena mi sentivo di cavarmela un po’ meglio, che mi trovavo meno stravolto, la paura tremenda mi riprendeva per intero, quella di dover mandare i conti alla “Société Pordurière”. Cosa gli avrei detto a quella gente malefica? In che modo mi avrebbero creduto? Mi farebbero arrestare sicuro! Chi mi avrebbe giudicato allora? Dei tipi speciali armati di leggi terribili prese chissà dove, come il Consiglio di guerra, ma di cui non ti dicono mai le vere intenzioni e si divertono a farti rampicare, perdendo sangue, il sentiero a picco sopra l’inferno, la strada che conduce i poveri alla morte. La legge, è il grande Luna Park del dolore. Quando il poveraccio si lascia prendere da quella, lo si sente ancora gridare secoli e secoli dopo.

Preferivo restare stranito là, tremante, a sbavare nei 40o, che esser costretto, da lucido, a immaginare quello che mi aspettava a Fort-Gono. Arrivavo a non prendere più chinino per lasciare che la febbre mi nascondesse la vita. Uno si sbronza con quello che ha. Mentre cuocevo a fuoco lento a quel modo, per giorni e settimane, i miei fiammiferi finirono. Ne mancavamo. Robinson non mi aveva lasciato dietro di sé che lo spezzatino alla bordolese. Ma allora di quello, posso dire che me ne aveva lasciato davvero. Ne ho vomitato delle scatole. E per arrivare a quel risultato, bisognava però ancora scaldarlo.

Questa penuria di fiammiferi mi offrì l’occasione di una piccola distrazione, quella di guardare il mio cuciniere accendere il fuoco tra due pietre ad acciarino tra le erbe secche. È guardandolo fare così che mi venne l’idea. Aggiungeteci molta febbre, e l’idea che mi venne prese una singolare consistenza. Malgrado fossi naturalmente maldestro, dopo una settimana d’applicazione sapevo anch’io, proprio come un negro, attizzare il mio focherello fra due pietre acuminate. Insomma, cominciavo a cavarmela nello stadio primitivo. Il fuoco, è il più importante, c’era pure la caccia, ma non avevo ambizione. Il fuoco di selce mi bastava Mi ci esercitavo coscienziosamente. Non avevo altro da fare, giorno dopo giorno. Al gioco di ricacciare i bruchi del “secondario” ero diventato molto meno bravo. Ne schiacciavo molti di bruchi. Me ne disinteressavo. Li lasciavo entrare liberamente nella capanna, da amici. Sopraggiunsero due grandi uragani in successione, il secondo durò tre giorni interi e soprattutto tre notti. Si bevve finalmente pioggia in bidone, tiepida è vero, ma comunque. Le stoffe del piccolo stock si misero a sciogliersi sotto i rovesci, senza ritegno, le une nelle altre, una immonda mercanzia

Dei negri compiacenti cercarono anche nella foresta dei ciuffi di liane per ormeggiare la capanna al suolo, ma invano, il fogliame delle coperture, al minimo vento, si metteva a sbattere follemente sopra il tetto, come ali ferite. Ci Si poté far niente. Tutto da ridere insomma.

I neri piccoli e grandi si decisero a vivere nel mio sfacelo con totale familiarità. Erano giulivi. Gran distrazione. Entravano e uscivano da casa mia (per così dire) come volevano. Libertà. Ci scambiammo dei gesti in segno di grande comprensione. Senza la febbre, mi sarei forse messo a imparare la loro lingua. Mi mancò il tempo. Quanto al fuoco con le pietre, malgrado i miei progressi, non avevo ancora imparato per accenderlo il loro sistema migliore, quello sbrigativo. Un sacco di scintille mi saltava ancora negli occhi e questo li faceva proprio sghignazzare i neri.

Quando non ero ad ammuffire di febbre sul mio “smontabile”, o a battere il mio accendino primitivo, non pensavo che ai conti della “Pordurière”. È strana la fatica che si fa a liberarsi dal terrore dei conti irregolari. Certo, dovevo aver preso quel terrore da mia madre che mi aveva contaminato con le sue tradizioni: “Si ruba un uovo... E poi un bue, e poi si finisce per assassinare la madre.” Cose che tutti abbiamo fatto una gran fatica a sbarazzarcene. Le impari troppo da piccolo, e vengono a terrorizzarti senza scampo, più tardi, nei momenti cruciali Che debolezze! Per disfarsene si può appena contare sulla forza delle cose. Fortunatamente, è enorme, la forza delle cose. Stando ad aspettare, noi, la fattoria e me, sprofondavamo. Stavamo sparendo nel fango dopo ogni rovescio più vischioso, più spesso. La stagione delle piogge. Quel che ancora ieri aveva l’aria di una roccia, oggi non era che melassa floscia. Dai rami penduli, l’acqua tiepida ti perseguitava a cascate, si spandeva ovunque nella capanna e intorno come nel letto d’un vecchio fiume abbandonato. Tutto fondeva in polta di cianfrusaglie, speranze e conti e anche nella febbre, umidiccia pure quella. Quella pioggia così densa che ti tappava la bocca quando ti aggrediva come un bavaglio tiepido. Quel diluvio non impediva agli animali di cercarsi, gli usignoli si misero a fare rumore come gli sciacalli. L’anarchia dappertutto e nell’arca, io Noè, rincretinito. Mi sembrò giunto il momento di finirla.

Mia madre aveva proverbi solo per l’onestà, diceva anche, me ne ricordai a proposito, quando lei in casa bruciava le vecchie fasciature: “Il fuoco purifica tutto!” Uno trova di tutto da sua madre, per tutte le occasioni del Destino. Basta saper scegliere.

Arrivò il momento. Le mie selci non erano molto ben scelte, male appuntite, le scintille mi restavano quasi tutte nelle mani. Finalmente, a ogni modo, le prime mercanzie presero fuoco a dispetto dell’umidità. Era uno stock di calzette completamente zuppe. Questo capitava dopo il calar del sole. Le fiamme s’alzarono rapide, impetuose. Gli indigeni del villaggio vennero a radunarsi intorno al focolare, berciando furiosamente. Il caucciù grezzo che aveva comperato Robinson sfrigolava al centro e il suo odore mi ricordava inesorabilmente il famoso incendio della Società dei Telefoni, quai de Grenelle, che eravamo andati a vedere con lo zio Charles, quello che cantava così bene le romanze. L’anno prima dell’Esposizione era capitato, quella Grande, quando ero piccolo. Niente costringe i ricordi a manifestarsi come gli odori e le fiamme. La mia capanna, lei, aveva lo stesso odore. Anche se inzuppata, è bruciata interamente e decisamente, mercanzie e tutto. I conti erano fatti. La foresta si zittì per una volta. Silenzio completo. Si dovevano essere riempiti gli occhi le civette, i leopardi, i rospi e i pappagalli. Ce ne vuole per stupirli. Come noi la guerra. La foresta poteva tornare adesso a prendersi gli avanzi sotto il suo scroscio di foglie. Non avevo salvato che il mio poco bagaglio, il letto pieghevole, i trecento franchi e beninteso qualche scatola di spezzatino ahimè! per il viaggio.

Dopo un’ora d’incendio, non restava quasi niente del mio capanno. Qualche fiammella sotto la pioggia e qualche negro scombinato che trifolava le ceneri con la punta della lancia negli sbuffi di quell’odore fedele a tutte le miserie, odore ritagliato in tutti i disastri del mondo, l’odore della polvere fumante.

Non restava che squagliarsela in fretta e furia. Tornare a Fort-Gono, sui miei passi? Cercare di andare là a spiegare la mia condotta e le circostanze di quell’avventura? Esitavo... Non per molto. Non si può spiegare nulla. Il mondo sa solo ucciderti come un dormiente quando si gira, il mondo, su di te, come un dormiente uccide le sue pulci. Ecco quel che sarebbe di sicuro un morire da stupidi, mi dissi io, come tutti cioè. Fidarsi degli uomini è già farsi uccidere un po’.

Decisi, malgrado lo stato in cui mi trovavo, di prendere per la foresta davanti a me nella direzione che aveva preso quel Robinson di tutte le disgrazie.

 

Viaggio al termine della notte
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