Per i pasti, a Vigny, avevamo conservato le abitudini dei tempi di Baryton, cioè che ci si ritrovava tutti a tavola, ma di preferenza adesso nella sala del biliardo sopra la portinaia. Era più familiare della vera sala da pranzo che si tirava dietro i ricordi non troppo divertenti delle conversazioni inglesi. E poi c’erano mobili troppo belli per noi nella sala da pranzo, dei “1900” autentici con vetrate del genere opale.
Dal biliardo, si poteva vedere nella strada tutto quello che capitava. Quello poteva essere utile. Stavamo in quella stanza settimane intere. Quanto a invitati avevamo qualche volta a pranzo i medici dei dintorni, qua e là, ma il nostro convitato abituale era piuttosto Gustave, l’agente del traffico. Lui, si poteva dire, c’era sempre. Ci eravamo conosciuti così dalla finestra, guardandolo la domenica, fare il suo servizio, all’incrocio della strada all’entrata del paese. Aveva un gran daffare con le automobili. Ci eravamo detti prima qualche parola e poi di domenica in domenica eravamo diventati proprio dei conoscenti. Avevo avuto l’occasione in città di curare i suoi due figli, uno dopo l’altro, per il morbillo e gli orecchioni. Un nostro fedele, Gustave Mandamour, così si chiamava, del Cantal. Per la conversazione era un po’ negato, perché s’impappinava con le parole. Le trovava le parole, ma non le faceva uscire, gli restavano piuttosto in bocca, a far dei rumori.
Una sera come un’altra Robinson l’ha invitato al biliardo, per scherzo credo. Ma era il suo carattere continuare a fare le stesse cose, allora era sempre tornato da quel momento, Gustave alla stessa ora, ogni sera, alle otto. Si trovava bene con noi Gustave, meglio che al caffè, ci diceva lui stesso, per via delle discussioni politiche che degeneravano spesso tra habitués. Non discutevamo mai di politica noi. Nel caso suo, di Gustave, era una faccenda alquanto delicata la politica. Al caffè aveva avuto delle noie con quello. Di regola, non avrebbe dovuto parlare di politica, soprattutto quando aveva bevuto un po’, e gli succedeva. Era famoso per trincare, era il suo debole. Mentre da noi si trovava al sicuro sotto tutti gli aspetti. Lo ammetteva lui stesso. Noi non bevevamo per niente. Poteva lasciarsi andare nella casa, quello non provocava conseguenze. Era con fiducia che veniva.
Quando pensavamo, Parapine e io, alla situazione da cui ci eravamo tirati fuori e quella che c’era toccata da Baryton, non ci lamentavamo per niente, avremmo fatto proprio male, perché insomma avevamo avuto una specie di fortuna miracolosa e avevamo tutto quel che ci voleva sia in fatto di reputazione che di benessere materiale.
Solo che a me, mi veniva sempre il dubbio che non sarebbe durato ‘sto miracolo. Avevo un passato appiccicoso e mi tornava già su come rutti del Destino. Sin nei primi tempi che eravamo a Vigny, avevo ricevuto tre lettere anonime che m’erano sembrate quanto di più losco e minaccioso. E poi ancora dopo quello, molte altre lettere tutte altrettanto astiose. È vero che ne ricevevamo spesso noialtri a Vigny di lettere anonime e non ci prestavamo una grande attenzione di solito. Arrivano il più delle volte da ex-malati che le loro manie persecutorie continuavano a sfruculiare a domicilio.
Ma queste lettere qui, i loro giri m’inquietavano di più, non assomigliavano alle altre, le loro accuse si facevano precise e poi non si trattava mai d’altri che di me e Robinson. Per dirla tutta, ci accusavano di stare insieme. Vero letame come supposizione. Mi seccava all’inizio parlarne con lui e poi comunque mi son deciso perché non la finivo di riceverne di nuove lettere dello stesso genere. Abbiamo cercato insieme da chi potevano arrivare. Facemmo degli elenchi di tutta la gente possibile tra le nostre conoscenze comuni. Non si trovava. D’altronde non stava in piedi come accusa. Io, gli invertiti non erano il mio tipo e poi Robinson, lui delle cose del sesso, se ne sbatteva altamente, da un lato e dall’altro. Se qualcosa lo tormentava, certo non erano faccende di culo. Bisognava almeno che ci fosse di mezzo una gelosa per immaginare delle porcherie del genere.
Riassumendo non conoscevamo altri che Madelon capace di venire a perseguitarci con delle invenzioni così zozze fino a Vigny. Mi faceva niente che lei continui a scrivere le sue menate, ma c’era da temere che esasperata di non avere risposta, lei venga a perseguitarci, lei stessa in persona, un giorno o l’altro, e fare uno scandalo nell’istituto. Bisognava aspettarsi il peggio.
Passammo qualche settimana durante le quali facevamo dei salti a ogni colpo di campanello. Mi aspettavo una visita di Madelon, o peggio ancora, quella della polizia.
Ogni volta che l’agente Mandamour arrivava per la partita un po’ prima del solito, mi chiedevo se non aveva un mandato di comparizione nel cinturone, ma a quell’epoca era ancora quanto di più simpatico e riposante si possa immaginare, Mandamour. È più tardi soltanto, che s’è messo a cambiare anche lui in modo notevole. A quel tempo, perdeva ancora quasi ogni giorno a tutti i giochi con tranquillità. Se ha cambiato carattere, fu d’altra parte proprio per colpa nostra.
Una sera, solo per sapere, gli ho chiesto perché non riusciva mai a vincere alle carte, non c’era alcuna ragione in fondo per chiedergli quello a Mandamour, solo la mia mania di sapere il perché, e il percome. Soprattutto dal momento che non si giocava a soldi! E mentre stavamo a discutere della sua sfortuna, mi sono avvicinato a lui e studiandolo bene, mi sono accorto che soffriva di una grave presbiopia. In verità, con l’illuminazione di dove noi stavamo, lui faceva fatica a distinguere il seme dei quadri sulle carte. Non poteva durare.
Ho messo a posto il suo disturbo offrendogli dei begli occhiali. In principio lui era tutto contento di provare gli occhiali, ma non durò mica. Poiché giocava meglio, grazie agli occhiali, perdeva meno di prima e si mise in testa di non perdere più del tutto. Non era possibile, allora barava. E quando gli capitava di perdere malgrado gli imbrogli ci faceva il broncio per ore intere. In breve, diventò impossibile.
Ero costernato, s’incavolava per un sì, per un no, lui, Gustave, e in più, cercava di scocciare noi a sua volta, di attaccarci l’inquietudine, la preoccupazione perfino. Si vendicava quando aveva perduto, a modo suo... Non era tuttavia per i soldi, lo ripeto, che giocavamo, ma solo per la distrazione e la gloria... Ma lui era furioso lo stesso.
Così una sera che aveva avuto sfortuna, ci apostrofò andandosene. “Signori, vi voglio dire di stare in guardia!... Con la gente che frequentate, io, fossi in voi, farei attenzione!... C’è una bruna tra gli altri che passa da giorni davanti a casa vostra!... Troppo spesso secondo me!... Ha i suoi motivi!... Ce li avrebbe con uno di voi, per essere chiari, e non ne sarei molto stupito!...”
Ecco come ci ha buttato addosso la cosa, insidiosa, prima di andarsene. Non l’aveva certo mancato il suo effettuccio!... Comunque mi sono ripreso all’istante. “Bene. Grazie Gustave! gli ho risposto io bello tranquillo... Non vedo bene chi possa essere la brunetta di cui lei parla... Nessuna donna tra le nostre ex malate ha avuto motivi, per quel che io so, di lamentarsi delle nostre cure... Si tratta senza dubbio d’una povera agitata... La ritroveremo... Comunque lei ha ragione, sempre meglio sapere... Grazie ancora Gustave d’averci avvertiti... E buonanotte!”
Robinson di colpo, non riusciva più alzarsi dalla sedia. Partito l’agente, studiammo l’informazione che ci aveva appena fornito, in tutti i sensi. Poteva anche essere, malgrado tutto, un’altra donna diversa da Madelon... Ne venivano molte altre, a ‘sto modo, a gironzolare sotto le finestre dell’Asilo... Ma comunque esisteva una seria possibilità che fosse lei e quel dubbio bastava a riempirci di strizza. Se era lei, quali erano le sue nuove intenzioni? E poi di cosa poteva vivere in primo luogo per tanti mesi a Parigi? Se lei alla fine doveva ricomparire di persona, bisognava provvedere, prendere decisioni, sùbito.
“Senti Robinson, ho concluso io allora, deciditi, è il momento, e non tornarci più sopra... cosa vuoi fare? Hai voglia di tornare con lei a Tolosa?
- No! ti dico. No e no!” Ecco la risposta. Era chiara.
“Va be’! ho detto allora io. Ma in quel caso, se davvero non vuoi più tornare con lei, il meglio, a mio avviso, sarebbe che te ne riparti a guadagnarti il pane almeno per qualche tempo all’estero. In quel modo te ne sarai sbarazzato di sicuro... Lei mica ti seguirà fin laggiù no?... Sei ancora giovane... Sei tornato robusto... Sei riposato... Ti diamo un po’ di soldi e buon viaggio!... Ecco la mia idea! Ti rendi conto che qui per giunta non è una situazione che fa per te... Non può durare sempre?...”
Se m’avesse ascoltato, se fosse partito in quel momento, quello m’avrebbe fatto comodo, m’avrebbe fatto piacere. Ma lui non c’è stato.
“Te ne freghi di me, Ferdinand, di’! m’ha risposto lui... Mica è simpatico alla mia età... Guardami bene, via!...” Non voleva più andarsene. Era stanco insomma di escursioni.
“Non voglio andare più lontano... ecco che ti ripeteva... Avrai un bel dire... Avrai un bel fare... Me ne andrò più...”
Ecco come rispondeva alla mia amicizia. Tuttavia insistetti.
“E se lei andasse a denunciarti Madelon, supponiamo, per la faccenda della vecchia Henrouille?... Sei tu stesso che me l’hai detto, che lei ne era capace...
- Allora tanto peggio! ha risposto lui. Faccia come vuole...”
Era una novità delle parole così in bocca sua, perché la Fatalità, prima, non era il suo genere...
“Almeno, vatti a cercare un lavoretto qui vicino, in una fabbrica, così non sarai obbligato a stare tutto il tempo con noi... Se arrivano per cercarti, ci sarebbe il tempo di avvertirti.”
Parapine era assolutamente della mia stessa idea e perfino nella circostanza è tornato a riparlarci un po’. Bisognava dunque che gli sembrasse grave e urgente quel che capitava tra noi. Abbiamo dovuto allora ingegnarci a sistemarlo, a nasconderlo Robinson. Tra le nostre relazioni contavamo un industriale dei dintorni, un carrozziere che ci doveva un po’ di riconoscenza per dei servizietti alquanto delicati, resi in momenti critici. Ha acconsentito a prendere Robinson in prova per delle pitture a mano. Era un lavoro delicato, niente pesante e pagato bene.
“Léon, gli abbiamo detto il mattino che cominciava, datti una regolata nel nuovo posto, non farti beccare per le tue idee balenghe... Arriva puntuale... Non uscire prima degli altri... Saluta tutti... Comportati bene insomma. Sei in una officina decente e sei raccomandato...”
Ma ecco che s’è fatto sùbito beccare lo stesso e non per colpa sua, per un soffia d’una officina di fianco che l’aveva visto entrare nello studio privato del padrone. È bastato quello. Rapporto. Sospetto. Licenziamento.
Ci ritorna dunque indietro Robinson ancora una volta, senza posto, qualche giorno più tardi. Fatalità!
E poi si rimette a tossire quasi lo stesso giorno. Lo auscultiamo e troviamo tutta una serie di rantoli per tutta l’altezza del polmone destro. Non gli restava che starsene in camera.
Capitava un sabato sera giusto prima di cena, qualcuno chiede di me personalmente nella sala accettazione.
Una donna, mi dicono.
Era lei con un cappellino da vera signora e dei guanti. Me ne ricordo bene. Nessun bisogno di preamboli, capitava a fagiolo. Spiffero tutto.
“Madelon, la fermo io, se è Léon che vuol rivedere, voglio comunque avvertirla sùbito, che non vale la pena insistere, se ne può tornare indietro... è malato ai polmoni e in testa... Abbastanza gravemente comunque... Non può vederlo... D’altronde non ha niente da dirle...
- Nemmeno a me? ecco che insiste lei.
- No, nemmeno a lei... Specialmente a lei...” aggiungo io.
Mi credevo che scattasse. No, lei piegava soltanto la testa, lì davanti a me, da destra a sinistra, le labbra serrate e con gli occhi cercava di ritrovarmi dove mi aveva lasciato nel suo ricordo. Non c’ero più. Ero sloggiato anch’io dal suo ricordo. Nella situazione in cui eravamo, un uomo, un forzuto, m’avrebbe fatto paura, ma da lei non avevo nulla da temere. Era meno forte di me, come si dice. Da sempre avevo voglia di prendere a sberle una testa così in preda alla collera per vedere com’è che girano le teste in collera in quei casi lì. Quello o un bell’assegno, è quel che ci vuole per vedere in un sol colpo virare di scatto tutte le passioni che stanno a sciaguattare in una testa. È bello come una bella manovra in vela su un mare agitato. Tutta la persona si piega al vento nuovo. Volevo vedere quello.
Da vent’anni almeno, mi perseguitava quella voglia. Per strada, al caffè, dovunque le persone più o meno aggressive, sofistiche e fanfarone stanno a litigare. Ma non avrei mai osato per paura delle botte e soprattutto della vergogna che segue le botte. Ma l’occasione, lì, per una volta, era magnifica.
“Te ne vuoi andare?” feci io, solo per provocarla ancora un po’ di più, per cuocerla a puntino.
Lei non mi riconosceva più, a parlarle a quel modo. Lei s’è messa a sorridere, orripilante al massimo, come se mi avesse trovato ridicolo e insignificante... “Flac! Flac!” Le ho rifilato due schiaffi da rintronare un asino.
Lei è andata a schiacciarsi sul grande divano rosa di fronte, contro il muro, la testa fra le mani. Respirava a piccoli colpi, e gemeva come un cagnetto che ne aveva prese troppe. E poi, ha come riflettuto e bruscamente s’è rialzata, tutta leggera, elastica e ha varcato la porta senza nemmeno girare la testa. Avevo visto niente. Bisognava ricominciare tutto.