La nostra pace ringhiosa buttava già semi nella stessa guerra.
Si poteva indovinare quel che sarebbe stata, l’isterica, solo a vederla agitarsi nella taverna dell’Olympia. Giù nella lunga cantina-dancing strabica di cento specchi, lei trapestava nella polvere la gran disperazione musicale negrogiudaico-sassone. Britannici e neri mischiati. Levantini e russi, se ne trovavano dappertutto, a fumare, berciare, malinconici e marziali, per tutti i sofà cremisi. Quelle uniformi di cui ci si comincia a ricordare solo a gran fatica furono le sementi dell’oggi, questa cosa che cresce ancora e che diventerà un vero letamaio fra un po’, alla lunga.
Ben allenati al desiderio da qualche ora d’Olympia ogni settimana, andavamo in gruppo a far poi visita alla nostra lingerista-guantaia-libraia Madame Herote, all’Impasse des Beresinas, dietro le Folies-Bergères, oggi scomparsa, dove i cagnetti venivano con le padroncine, al guinzaglio, a fare i loro bisogni.
Ci venivamo, noi, a cercare a tentoni la nostra felicità che il mondo intero ci insidiava con rabbia. Ci vergognavamo di quella voglia, ma bisognava pur farci qualcosa! è più difficile rinunciare all’amore che alla vita. Si passa il tempo a uccidere o ad adorare a ‘sto mondo, tutt’e due insieme. “Ti odio! Ti adoro!” Si tira avanti, ci si tiene compagnia, si appioppa la vita al bipede del secolo dopo, con frenesia, a ogni costo, come se fosse straordinariamente divertente perpetuarsi, come se quello ci potesse rendere, in fin dei conti, eterni. Voglia di abbracciarsi malgrado tutto, come ci si gratta.
Andavo meglio con la testa, ma la mia situazione militare restava assai incerta. Mi permettevano di andare in città di quando in quando. La nostra lingerista si chiamava dunque Madame Herote. La sua fronte era bassa e così stretta che uno restava, davanti a lei, un po’ a disagio all’inizio, ma le sue labbra erano invece così sorridenti, e così carnose che poi non si sapeva più come fare a sottrarsi. Protetta da una volubilità straordinaria, da un temperamento indimenticabile, lei albergava una serie di intenzioni semplici, rapaci, piamente commerciali.
Una fortuna si mise a fare in qualche mese, grazie agli alleati e soprattutto al suo ventre. L’avevan liberata delle ovaie bisogna dire, operata di una salpingite l’anno prima. Questa castrazione liberatoria fece la sua fortuna. Ce ne sono di queste blenorragie femminili che si dimostrano provvidenziali. Una donna che passa il tempo a paventare gravidanze non è che una specie di impotente e non arriverà mai molto lontano col successo.
I vecchi e anche i giovani credono, io lo credevo, che si poteva trovare il modo di fare l’amore facilmente e a buon prezzo nel retrobottega di qualche negozio di libri o biancheria. Quello era ancora vero, una ventina d’anni fa, ma dopo, molte cose non si fanno più, soprattutto quelle più gradevoli. Il puritanesimo anglosassone ci rinsecchisce ogni mese che passa, ha quasi ridotto al nulla la goduria estemporanea dei retrobottega. Tutto va verso il matrimonio e la correttezza.
Madame Herote seppe mettere a profitto le ultime possibilità che ancora c’erano per scopare in piedi e a buon mercato. Un banditore disoccupato di aste pubbliche passò davanti al negozio una certa domenica, ci entrò e ci sta ancora. Arteriosclerotico lo era un po’, lo restò, e basta. La loro fortuna non fece alcun scalpore. All’ombra di giornali deliranti di appelli a sacrifici umani e patriottici, la vita, rigorosamente calcolata, infarcita di lungimiranza, andava avanti, perfino più accorta di prima. Tali sono il rovescio e il diritto, come la luce e l’ombra, della stessa medaglia.
Il banditore di Madame Herote piazzava in Olanda dei fondi per gli amici, quelli che la sapevano lunga, e per Madame Herote a sua volta, quando entrarono in confidenza. Le cravatte, i reggiseni, le finte camicie che lei vendeva, attiravano clienti su clienti e soprattutto li spingevano a ritornare spesso.
Gran parte degli incontri stranieri e nazionali ebbero luogo all’ombra rosata di quelle tendine tra i commenti incessanti della padrona la cui persona polposa, chiacchierona e profumata sino allo svenimento avrebbe fatto arrapare il più acido dei fegatosi. In queste mescolanze, lungi dal perdere lo spirito, lei ci trovava il suo tornaconto, Madame Herote, in denaro anzitutto, perché lei prelevava la sua decima sulle vendite di sentimenti, poi perché si faceva molto amore intorno a lei. Unendo e disunendo le coppie con un trasporto almeno uguale, a colpi di pettegolezzi, di insinuazioni, di tradimenti.
Lei architettava felicità e drammi senza posa. Provvedeva alla manutenzione della vita delle passioni. Il commercio non poteva che guadagnarci.
Proust, mezzo fantasma lui stesso, si è perduto con una straordinaria tenacia nell’infinita, inconsistente futilità dei riti e delle pratiche che s’attaccano alla gente di mondo, gente del vuoto, fantasmi dei desideri, festaioli sempre indecisi in attesa del loro Watteau, cercatori esangui d’improbabili Citere. Ma Madame Herote, popolare e concreta per nascita, era ancora solidamente ancorata a terra da appetiti robusti, stupidi ed esatti.
Se la gente è così cattiva, forse è solo perché soffre, ma è lungo il tempo che separa il momento in cui smettono di soffrire da quello in cui diventano un po’ migliori. Il bel successo materiale e passionale di Madame Herote non aveva ancora avuto il tempo di addolcire la sua predisposizione alla conquista.
Lei non era più astiosa della maggior parte dei commercianti dei dintorni, ma si dava molto da fare per dimostrarti il contrario, ecco perché uno si ricorda il caso. Il suo negozio non era solo un luogo d’incontri, ma anche una specie di entrata furtiva in un mondo di ricchezza e di lusso in cui non ero mai, malgrado tutti i miei desideri, penetrato sino ad allora, e da cui fui d’altra parte eliminato prontamente e penosamente dopo un’incursione clandestina, la prima e unica.
I ricchi a Parigi vivono insieme, i loro quartieri, in blocco, formano una fetta di torta urbana la cui punta tocca il Louvre, mentre il bordo arrotondato si ferma agli alberi tra il ponte di Auteuil e la Porte des Ternes. È la fetta buona della città. Tutto il resto è fatica e letame.
Quando si passa dalle parti dei ricchi non si vedono in un primo momento grandi differenze con gli altri quartieri, non fosse che lì le strade sono un po’ più pulite e basta. Per andare a fare un’escursione all’interno di quella gente, di quelle cose, bisogna affidarsi al caso o alla dimestichezza.
Attraverso il negozio di Madame Herote ci si poteva spingere un po’ innanzi in quella riserva, per via degli argentini che scendevano dai quartieri privilegiati per rifornirsi da lei di mutande e camicie e stuzzicare anche il suo bel mazzo d’amiche ambiziose, teatranti e musiciste, ben fatte, che Madame Herote attirava a bella posta.
A una di queste, io che avevo da offrire solo la mia giovinezza, come si dice, mi son messo però ad attaccarmi un po’ troppo. La piccola Musyne, la chiamavano nel giro.
Al Passage des Beresinas, si conoscevano tutti di negozio in negozio, come in un vero angolo di provincia, incastrato da anni tra due strade di Parigi, come a dire che ci si spiava e calunniava umanamente fino al delirio.
Per quel che riguarda il lato materiale, prima della guerra, i commercianti campavano una vita grama e disperatamente economa. Tra le tante prove miserande c’era l’angoscia cronica di ‘sti negozianti, l’esser costretti dalla loro penombra a ricorrere alle lampade a gas dalle quattro del pomeriggio, per via delle vetrine. Ma così invece ci veniva fuori, appartato, un ambiente propizio alle proposte raffinate.
Molti negozi stavano malgrado tutto andando a ramengo per via della guerra, mentre quello di Madame Herote, a forza di giovani argentini, d’ufficiali col gruzzolo e di consigli dell’amico banditore, spiccava un volo che tutti, nei dintorni, commentavano, si può immaginarlo, in termini spaventosi.
Osserviamo per esempio che a quella stessa epoca il celebre pasticciere del numero 112 perse all’improvviso le sue belle clienti per effetto della mobilitazione. Le abituali degustatrici dai lunghi guanti, costrette dalla requisizione dei cavalli ad andare a piedi non tornarono più. Non dovevano mai più tornare. Quanto a Sambanet, rilegatore di musica, si difese male, lui, improvvisamente, dalla voglia di sodomizzare qualche soldato che era sempre stata la sua ossessione. L’audacia d’una sera, capitata in un momento sbagliato, gli procurò grane irrimediabili da parte di alcuni patrioti che l’accusarono su due piedi di spionaggio. Dovette chiudere baracca.
Invece Mademoiselle Hermance, al numero 26, la cui specialità fino a quel giorno era l’articolo in caucciù confessabile o no, se la sarebbe sbrogliata benissimo, grazie alle circostanze, se non avesse sperimentato per l’appunto tutte le difficoltà di ‘sto mondo nel rifornirsi di quei “preservativi” che le arrivavano dalla Germania.
Solo Madame Herote, insomma, alle soglie della nuova era della biancheria fine e democratica incontrò facilmente la prosperità.
Ci si scriveva un sacco di lettere anonime tra negozi, e pepate. Madame Herote, preferiva, quanto a lei, per distrarsi un po’, rivolgersi ad alti personaggi; proprio in questo ella manifestava la forte ambizione che costituiva la base stessa del suo temperamento. Al Presidente del Consiglio, per esempio ne mandava, solo per garantirgli che era cornuto, e al Maresciallo Pétain, in inglese, con l’aiuto di un dizionario, per farlo arrabbiare. La lettera anonima? Acqua sulle piume! Madame Herote se ne riceveva ogni giorno un pacchettino per suo conto di queste lettere non firmate che non avevano un buon odore, vi assicuro. Lei ci restava sovrappensiero, sconcertata per dieci minuti all’incirca, ma si ricostituiva in men che si dica il suo equilibrio, non importa come, non importa con cosa, ma sempre e saldamente, perché non c’era nella sua vita interiore spazio alcuno per il dubbio e ancor meno per la verità.
Tra le sue clienti e protette, un buon numero di piccole artiste le arrivava con più debiti che vestiti. A tutte, Madame Herote dava consigli e loro se ne trovavano bene, Musyne fra le altre, che mi sembrava, a me, la più carina di tutte. Un vero angioletto musicista, un amore di violinista, un amore ben smaliziato tanto per dire, lei me ne diede le prove. Implacabile nella voglia di riuscire su questa terra, e non in cielo, al momento che la conobbi s’arrabattava in un atto unico, tutto quel che c’era di carino, molto parigino e molto superato, ai varietà.
Lei se ne compariva con il violino in una specie di prologo improvvisato, versificato, melodioso. Un genere adorabile e complicato.
Con quel sentimento che le dedicai il mio tempo diventò frenetico e si svolgeva a balzelloni tra l’ospedale e l’uscita del suo teatro. Non ero d’altra parte quasi mai solo ad aspettarla. Dei fanti di terra la portavano via sgomitando, anche degli aviatori e ancora più facilmente, ma la palma della seduzione toccava senza dubbio agli argentini. Il traffico di carni congelate, a quelli, gli prendeva grazie al pullulare di nuovi contingenti le proporzioni d’una forza della natura. La piccola Musyne se n’è approfittata per bene di quei giorni mercantili. Ha fatto bene, gli argentini non esistono più.
Io non riuscivo a capire. Ero cornuto con tutto e con tutti, con le donne, i soldi e le idee. Cornuto e niente contento. Ancora adesso, mi càpita di incontrarla Musyne, per caso, ogni due anni o quasi, come la maggior parte degli esseri che si sono conosciuti bene. È lo spazio che ci vuole, due anni, per renderci conto, con un sol colpo d’occhio, infallibile proprio, come l’istinto, delle bassezze di cui un viso, anche delizioso al tempo suo, s’è caricato.
Si resta lì davanti come un attimo esitanti e poi si finisce per accettarlo così come è diventato il viso con quella disarmonia crescente, ignobile, di tutta la faccia. Bisogna pure accettarla, questa accurata e lenta caricatura bulinata da due anni. Accettare il tempo, questo quadro di noi. Si può dire allora che ci si è proprio riconosciuti (come la moneta straniera che uno esita a prendere a prima vista), che non si era sbagliato strada, che si era proprio seguito la via giusta, senza essersi messi d’accordo, l’immancabile strada per due anni in più, la strada della corruzione. Ecco tutto.
Musyne, quando lei mi incontrava così, per caso, la spaventavo talmente con il mio testone, che sembrava volesse fuggirmi nel modo più assoluto, evitarmi, voltarsi dall’altra parte, non importa cosa... Le mandavo il cattivo odore era evidente, di tutto un passato, ma a me che so la sua età, da troppi anni, lei ha un bel fare, non può assolutamente scapparmi. Lei resta lì con l’aria imbarazzata davanti alla mia esistenza, come davanti a un mostro. Lei così delicata, si crede in obbligo di farmi delle domande balorde, imbecilli, come le farebbe una serva colta in fallo Le donne hanno una natura da serve. Ma lei s’immagina forse soltanto quella repulsione, più che provarla; è la specie di consolazione che mi resta. Forse le suggerisco solo che sono immondo. Sono forse un artista in quel genere lì. Dopotutto, perché non ci potrebbe essere un’arte nella bruttezza come c’è nella bellezza? è un genere da coltivare, ecco tutto.
Ho creduto a lungo che fosse sciocca la piccola Musyne, ma era soltanto l’opinione di un congedato vanitoso. Sapete, prima della guerra, eravamo tutti ancora molto più ignoranti e più fatui di oggi. Sapevamo quasi niente delle cose del mondo in generale, insomma degli incoscienti... I tipetti del mio genere prendevano molto più facilmente di oggi le lucciole per lanterne. Essere innamorato di Musyne così carina pensavo che mi avrebbe dotato d’ogni potere e in primo luogo e soprattutto del coraggio che mi mancava, tutto questo perché lei era così carina e così graziosamente musicista, la mia amichetta! L’amore è come l’alcool, più sei impotente e sbronzo e più ti credi forte e scaltro, e sicuro dei tuoi diritti.
Madame Herote, cugina di numerosi eroi deceduti, non usciva più dal suo buco che in lutto stretto; per di più, andava in città solo di rado, perché l’amico banditore fingeva di essere molto geloso. Noi ci riunivamo nella sala da pranzo sul retro che, con l’arrivo della prosperità, prese proprio l’aria d’un salottino. Ci si andava a conversare, a distrarsi, discretamente, decorosamente sotto il gas. La piccola Musyne, al piano, ci deliziava con i classici, solo con classici, come conveniva a quei tempi dolorosi. Stavamo là, per interi pomeriggi, gomito a gomito, il banditore in mezzo, a cullare insieme segreti, timori, speranze.
La serva di Madame Herote, di recente assunta, teneva molto a sapere quando gli uni si sarebbero alfine decisi a sposare gli altri. Dalle sue parti in campagna non si concepiva la libera unione. Tutti quegli argentini, quegli ufficiali, quei clienti ficcanaso le provocavano un’inquietudine quasi animale.
Musyne si ritrovava sempre più sequestrata dai clienti sudamericani. Finii a ‘sto modo per conoscere a fondo tutte le cucine e i domestici di questi signori, a forza d’andare ad aspettare la mia amata nelle stanze di servizio. I camerieri di quei signori mi prendevano d’altra parte per il magnaccia. E poi tutti han finito col prendermi per un magnaccia, ivi compresa la stessa Musyne, insieme credo a tutti gli habitués del negozio di Madame Herote. Ci potevo far niente. D’altronde, bisogna pure che succeda prima o poi, che ti classificano.
Ottenni dall’autorità militare un’altra convalescenza della durata di due mesi, e si parlò persino di riformarmi. Con Musyne decidemmo di andare ad abitare insieme a Billancourt. Era per seminarmi in realtà ‘sto sotterfugio perché lei approfittò che abitavamo lontano per tornare sempre più raramente a casa. Sempre trovava nuovi pretesti per restare a Parigi.
Le notti di Billancourt erano dolci, animate talvolta da quei puerili allarmi di aerei e di zeppelin, grazie ai quali i cittadini trovavano il modo di provare brividi giustificabili. Aspettando la mia amante, andavo a passeggiare, venuta la notte, fino al ponte di Grenelle, là dove l’ombra sale dal fiume fino alla piattaforma del metrò, con i suoi lampioni a corona, tesa in piena oscurità, con la sua ferraglia immane che s’avventa con un rumore di tuono nelle fiancate dei grossi palazzi del lungosenna di Passy.
Esistono certi posti così nelle città, tanto stupidamente brutti che ci stai quasi sempre da solo.
Musyne finì per tornare alla nostra specie di focolare non più di una volta alla settimana. Accompagnava sempre più frequentemente delle cantanti dagli argentini. Avrebbe potuto suonare e guadagnarsi da vivere nei cinema, dove sarebbe stato molto più facile per me andarla a prendere, ma gli argentini erano allegri e pagavano bene, mentre i cinema erano tristi e pagavano poco. C’è tutta la vita in queste preferenze.
Per colmo di sfortuna arrivò il “Teatro dell’Esercito”. Lei si creò all’istante, la Musyne, cento relazioni militari al Ministero e sempre più di frequente se ne partiva per distrarre al fronte i nostri soldatini, per intere settimane. Lei gli vendeva al minuto, all’esercito, la suonata e l’adagio davanti alle platee dello Stato Maggiore, ben piazzate per vederle le gambe. Ai soldati ammucchiati sui gradini dietro i capi gli arrivavano soltanto, a loro, degli echi melodiosi. Poi lei passava necessariamente notti molto complicate negli hôtel della zona militare. Un giorno mi è tornata tutta vispa dall’Esercito e munita di un diploma di eroismo, firmato da uno dei nostri grandi generali, a piacer vostro. Quel diploma fu l’origine del suo definitivo successo.
Nella colonia argentina, seppe rendersi di colpo estremamente popolare. La festeggiarono. Impazzivano per la mia Musyne, violinista di guerra tanto carina! Così fresca e ricciolina, e poi eroina per giunta. ‘Sti argentini avevano la riconoscenza del ventre, riservavano ai nostri grandi capi un’ammirazione sconfinata, e quando gli è ricomparsa, la mia Musyne, col suo documento autentico, il suo bel musetto, i ditini agili e gloriosi, si misero ad amarla a gara, all’asta per così dire. La poesia eroica conquista senza colpo ferire quelli che non vanno in guerra e meglio ancora quelli che la guerra sta arricchendo spaventosamente. Regolare.
Ah! l’eroismo sbarazzino, c’è da svenirci, vi assicuro! Gli armatori di Rio offrivano i loro nomi e i loro capitali alla bella che con tanta grazia femminilizzava a loro uso il valore francese e guerresco. Musyne aveva saputo inventarsi, bisogna ammettere, un piccolo repertorio molto civettuolo d’incidenti di guerra che, come un cappello sbarazzino, le stava a meraviglia. Mi stupiva sovente, a me, col suo tatto e ho dovuto confessare a me stesso, ascoltandola, che in fatto di frottole ero solo un volgare simulatore al suo confronto. Aveva il dono di collocare le sue trovate in una certa eco drammatica dove tutto diventava e restava prezioso e penetrante. In fatto di fanfaluche, noi combattenti restiamo, me ne rendevo conto all’improvviso, grossolanamente estemporanei e precisi. Lei lavorava sull’eterno, la mia bella. Ha ragione Claude Lorrain, i primi piani di un quadro fanno sempre schifo, e l’arte vuole che quel che interessa in un quadro venga collocato sullo sfondo, nell’inafferrabile, là dove si rifugia la menzogna, questo sogno colto sul fatto, unico amore degli uomini. La donna che sa tener conto della nostra indole miseranda diventa facilmente la nostra prediletta, indispensabile e suprema speranza. Noi ci attendiamo da lei che ci conservi la nostra menzognera ragion d’essere, ma nell’attesa lei può, esercitando questa splendida funzione, guadagnarsi largamente di che vivere. Musyne non se la lasciava scappare d’istinto.
Trovavi i suoi argentini dalle parti di Ternes, e poi soprattutto ai confini del Bois, in piccoli palazzi privati, ben chiusi, splendenti, dove in quei tempi invernali regnava un calore così confortevole che entrando dalla strada, il corso dei tuoi pensieri volgeva all’ottimismo, anche se non volevi.
Nella mia disperazione tremebonda, avevo cominciato, per colmo di goffaggine, ad andare il più spesso possibile, l’ho detto, ad aspettare la mia compagna nelle stanze di servizio. Pazientavo, qualche volta fino al mattino, avevo sonno, ma la gelosia mi teneva sveglio, anche il vino bianco, che i domestici mi servivano con larghezza. I padroni argentini, loro, li vedevo molto di rado, sentivo le loro canzoni e il loro spagnolo fracassone e il piano che non si fermava mai, ma suonato il più delle volte da mani che non erano quelle di Musyne. Cosa faceva lei dunque nel frattempo, ‘sta troietta, con le mani?
Quando ci ritrovavamo al mattino davanti alla porta lei faceva una smorfia, rivedendomi. Ero ancora brado come un animale a quel tempo, non volevo mollare la mia bella, e basta, come un osso.
Si perde la maggior parte della propria gioventù a colpi di goffaggini. Era chiaro che stava per abbandonarmi la beneamata, presto e per sempre. Non avevo ancora imparato che esistono due umanità molto diverse, quella dei ricchi e quella dei poveri. Mi ci son voluti, come a tanti, vent’anni e la guerra, per imparare a starmene nella mia categoria, a chiedere il prezzo delle cose e degli esseri prima di prenderli, e soprattutto prima di attaccarmici.
Scaldandomi dunque nelle stanze di servizio con i miei amici domestici, non capivo che sopra la mia testa danzavano gli dèi argentini, avrebbero potuto essere tedeschi, francesi, cinesi, quello non aveva affatto importanza, ma dèi, e ricchi, ecco quel che bisognava capire. Loro in alto con Musyne, io in basso, con niente. Musyne pensava seriamente al suo avvenire; allora preferiva farlo con un dio. Anch’io di certo pensavo all’avvenire, ma in una sorta di delirio, perché per tutto il tempo avevo, in sordina, la paura di essere ammazzato in guerra e anche la paura di morir di fame in pace. Ero in rinvio di morte e innamorato. Non era solo un incubo. Non molto lontano da noi, a meno di cento chilometri, milioni di uomini, coraggiosi, ben armati, ben addestrati, mi aspettavano per sistemare la faccenda, e c’erano anche dei francesi che mi aspettavano per farla finita con la mia pelle, se non volevo farmela ridurre a brandelli sanguinolenti da quelli di fronte.
Ci sono per il povero a ‘sto mondo due grandi modi di crepare, sia con l’indifferenza generale dei suoi simili in tempo di pace, sia con la passione omicida dei medesimi quando vien la guerra. Se si mettono a pensare a te, è a torturarti che pensano sùbito gli altri, e nient’altro che quello. Li interessi solo se sei al sangue, ‘ste carogne! Princhard a ‘sto riguardo aveva proprio ragione. Nell’imminenza del macello, non si specula più molto sulle cose dell’avvenire, si pensa solo ad amare per i giorni che ti restano perché è il solo modo di dimenticare un po’ il proprio corpo, che te lo scorticheranno presto dall’alto in basso.
Poiché lei mi sfuggiva, Musyne, mi credevo un idealista, è così che uno chiama i propri piccoli istinti vestiti di paroloni. La mia licenza era vicina al suo termine. I giornali stamburavano il richiamo di tutti i combattenti possibili, ben inteso prima di tutto di quelli che non avevano relazioni. Era ufficiale che non si doveva pensare ad altro che a vincere la guerra.
Musyne desiderava ardentemente, come Lola, che me ne tornassi in fretta e furia al fronte e ci restassi e poiché avevo l’aria di tardare ad andarci, si decise ad affrettare le cose, anche se tuttavia quello non era nel suo stile.
Una sera, in cui eccezionalmente eravamo rientrati insieme, ecco che passano i pompieri strombettanti e tutta la gente di casa nostra si precipita nelle cantine in onore di non so quale zeppelin.
Questo panico sottile durante il quale un intero quartiere in pigiama, dietro la candela, spariva chiocciando nelle profondità per fuggire un pericolo quasi interamente immaginario misurava l’angosciante futilità di quegli esseri che stavano fra la gallina spaventata e la pecora vanesia e consenziente. Simili mostruose inconsistenze sono proprio fatte per disgustare per sempre il più paziente, il più tenace dei sociofili.
Al primo squillo della tromba d’allarme Musyne dimenticava che le avevano appena scoperto un grande eroismo al “Teatro dell’Esercito”. Insisteva perché mi precipitassi con lei in fondo ai sotterranei, nel metrò, nelle fogne, non importa dove, ma al riparo e nelle profondità remote e soprattutto immediatamente! A vederli precipitarsi a quel modo, grandi e piccoli, gli inquilini, frivoli o maestosi, quattro a quattro, verso il buco salvifico, finì che anch’io mi feci la provvista d’indifferenza. Vigliacco o coraggioso, quello non vuol dire molto. Coniglio qui, eroe là, è sempre lo stesso uomo, non pensa più lì che altrove. Tutto quello che non è guadagnare soldi lo sconcerta davvero, senza limiti. Tutto quel che è vita o morte gli sfugge. Anche la sua stessa morte, ci specula male e di traverso. Capisce solo i soldi e il teatro.
Musyne piagnucolava davanti alle mie resistenze. Altri inquilini insistevano che li accompagnassimo, finii per lasciarmi convincere. Quanto alla scelta della cantina, fu emessa una serie di enunciati differenti. La cantina del macellaio finì per raccogliere la maggioranza delle adesioni, asserivano che quella fosse situata più profondo d’ogni altra della casa. Fin dal limitare ti arrivavano le zaffate di un odore acre e a me ben noto, che mi riuscì all’istante assolutamente insopportabile.
“Te ne vuoi scendere lì dentro Musyne con la carne appesa ai ganci? le chiesi io.
- Perché no? m’ha risposto lei, sorpresa.
- E be’ io, dissi io, ho dei ricordi, e preferisco tornar su...
- Te ne vai allora?
- Verrai a prendermi, quando finirà!
- Ma può durare molto...
- Preferisco aspettarti fuori, dissi. Non mi piace la carne, e finirà presto.”
Durante l’allarme, protetti nelle loro ridotte, gli inquilini si scambiavano cortesie e frivolezze. Certe dame in vestaglia, ultime arrivate, si pigiavano con eleganza e misura verso quella volta olezzante in cui il macellaio e la macellaia facevano gli onori di casa, scusandosi del freddo artificiale indispensabile per la buona conservazione della mercanzia.
Musyne sparì con gli altri. L’ho attesa, a casa, in alto, una notte, un giorno intero, un anno... Non è mai tornata a trovarmi.
Quanto a me diventai a partire da quel momento sempre più difficile da contentare, avevo solo due idee in testa: salvar la pelle e partire per l’America. Ma sfuggire alla guerra costituiva già un’opera iniziale che mi tenne senza fiato per mesi e mesi.
“Cannoni! uomini! munizioni!” esigevano senza mai sembrarne stanchi i patrioti. Pareva che non si potesse più dormire fino a che il povero Belgio e la piccola innocente Alsazia non fossero stati strappati al giogo germanico. Era un’ossessione che impediva, asserivano, ai migliori di noi di respirare, mangiare, copulare. Quello non aveva comunque l’aria di impedirgli di fare affari, ai superstiti. Il morale era buono nelle retrovie, si poteva dirlo.
Bisognava reintegrare in fretta i nostri reggimenti. Ma me, dalla prima visita, mi trovarono ancora troppo sotto la media e giusto buono per essere dirottato su un altro ospedale, per malati d’ossa e di nervi, quello. Un mattino uscimmo in sei dal Deposito, tre artiglieri e tre dragoni, feriti e malati alla ricerca del luogo dove si riparavano il valore perduto, i riflessi saltati e le braccia rotte. Passammo per cominciare, come tutti i feriti dell’epoca, per il controllo, al Val-de-Grâce, cittadella panciuta, così nobile e fronzuta d’alberi, e che puzzava dannatamente d’omnibus per i corridoi, odore oggi e certo per sempre scomparso, un misto di piedi, paglia e lampade a petrolio. Non andò per le lunghe al Val, appena visti ci hanno fatto un cicchetto come si deve, due ufficiali dell’amministrazione, forforosi e occupatissimi, minacciando di spedirci al Consiglio e altri amministratori ci hanno nuovamente buttato in strada. Non avevano posto per noi, dicevano loro, indicando destinazioni vaghe: un bastione, da qualche parte, nelle borgate attorno alla città.
Tra un’osteria e un bastione, un bicchierino di pastis e un cappuccino, in sei partimmo dunque alla ventura per direzioni sbagliate, alla ricerca del nuovo rifugio che sembrava specializzato nella guarigione di eroi inetti del nostro tipo.
Uno solo di noi possedeva un rudimento di averi, che teneva tutto intero, bisogna dire, in una scatoletta zincata dei biscotti Pernot, marca celebre allora e di cui non ho più sentito parlare. Là dentro, nascondeva, il camerata, delle sigarette, e uno spazzolino da denti, anche se scherzavamo tutti, su questa cura allora poco comune che aveva per i suoi denti, al punto che gli davamo, per la raffinatezza insolita, dell’“omosessuale”.
Alla fine abbordammo, dopo molte esitazioni, a metà della notte, gli argini gonfi di tenebre di quel bastione di Bicêtre, il “43” s’intitolava. Era quello giusto.
L’avevano appena rimesso a nuovo per accogliere degli sciancati e dei vecchietti. Il giardino non era nemmeno finito.
Quando arrivammo, in fatto di abitanti non c’era che la portinaia, nella parte militare. Pioveva fitto. Ha avuto paura di noi la portinaia sentendoci, ma noi la facemmo ridere mettendole sùbito la mano sul posto giusto. “Credevo che fossero dei tedeschi! fece lei. - Son lontani! le rispondemmo. - Dov’è che siete malati? s’inquietava lei. - Dappertutto; ma non sul bigolo!” le fece un artigliere di rimando. Allora, si poteva dire che quello era vero spirito, e lei lo apprezzava eccome, la portinaia. In quello stesso bastione soggiornarono in seguito con noi dei vecchi dell’Assistenza pubblica. Avevano costruito per loro, d’urgenza, nuovi fabbricati forniti di chilometri di vetrate, li tenevano lì dentro fino alla fine delle ostilità, come degli insetti. Sulle collinette intorno, un’eruzione di lotti striminziti si contendevano dei mucchi di fango sfuggente mal contenuto da una serie di capannoni precari. A quel riparo vengono su ogni tanto una lattuga e tre ravanelli, che non si sa perché, delle lumache schifate si degnano di farne omaggio al proprietario.
Il nostro ospedale era pulito, bisogna sbrigarsi a vederle quelle cose lì, qualche settimana, quando sono agli inizi, perché per la manutenzione delle cose da noi, non c’è nessun gusto, siamo proprio a ‘sto riguardo dei veri porcelli. Ci siamo dunque coricati, dico, a casaccio nei letti metallici, e alla luce della luna, erano così nuovi i locali che l’elettricità non ci arrivava ancora.
Al risveglio, il nostro nuovo medico-capo è venuto a presentarsi, tutto contento di vederci, sembrava, tutto cordiale a vederlo. Ci aveva delle ragioni da parte sua per essere contento, lo avevano appena promosso a quattro galloni. L’uomo possedeva inoltre i più begli occhi del mondo, vellutati e sovrannaturali, se ne serviva molto per turbare le quattro belle infermiere volontarie che l’attorniavano di premure e gesti e non si perdevano una briciola del loro medico-capo. Sin dal primo contatto, lui si impadronì del nostro morale, come ci aveva annunciato. Con semplicità, mettendo familiarmente una mano sulla spalla di uno di noi, scrollandolo paternamente, con voce di conforto, ci tracciò le regole e la via più breve per andare coraggiosamente e anche al più presto a rifarci rompere il grugno.
Da dovunque venissero, non pensavano davvero che a quello. Si sarebbe detto che quello gli faceva del bene. Era il nuovo vizio. “La Francia, amici miei, ha fiducia in voi, è come una donna, la più bella delle donne la Francia! intonò lui. Conta sul vostro eroismo la Francia! Vittima della più vile, della più abominevole delle aggressioni. Ha il diritto di esigere dai suoi figli d’essere vendicata fino in fondo la Francia! D’essere ristabilita nell’integrità del suo territorio anche a prezzo dei maggiori sacrifici la Francia! Faremo tutti qui, per quel che ci riguarda, il nostro dovere, amici miei, voi fate il vostro! La nostra scienza vi appartiene! è vostra! Tutte le sue risorse sono al servizio della vostra guarigione! Aiutateci a vostra volta a misura della vostra buona volontà! E che possiate presto riprendere il vostro posto accanto ai vostri cari camerati delle trincee! Il vostro sacro posto! Per la difesa del nostro amato suolo. Viva la Francia! Avanti!” Lui sapeva parlare ai soldati.
Noi stavamo ciascuno ai piedi del letto, sull’attenti, ad ascoltarlo. Dietro di lui, una bruna del gruppo delle belle infermiere dominava male l’emozione che l’attanagliava e che qualche lacrima rese visibile. Le altre infermiere, le compagne, si prodigarono sùbito: “Cara! Cara! Ti assicuro... Tornerà, suvvia!...”
Era una delle sue cugine, la bionda un po’ grassottella, quella che la consolava meglio. Passando vicino a noi, sostenendola con le braccia, mi confidò la grassottella che la bella cugina soffriva per la recente partenza del fidanzato mobilitato in marina. Il maestro della passione, sconcertato, si sforzava d’attenuare la bella e tragica commozione propagata dalla sua breve e vibrante allocuzione Restava tutto confuso e afflitto davanti a lei. Risveglio di una troppo dolorosa inquietudine in un cuore d’élite, evidentemente languido, tutto sensibilità e tenerezza. “Avessimo saputo, maestro! sussurrava ancora la bionda cugina, l’avremmo avvertita... Si amano così teneramente, sapesse!...” Il gruppo delle infermiere e il Maestro medesimo sparirono continuando a parlottare e ronzando per il corridoio. Non si occupavano più di noi.
Cercavo di ricordare e comprendere il senso di questa allocuzione che aveva appena pronunciato, l’uomo dagli occhi splendidi, ma lungi dal rattristarmi, a me, quelle parole mi parvero a ripensarci straordinariamente efficaci a farmi venire la nausea della morte. Era quel che pensavano anche gli altri compagni, ma loro non ci trovavano come me quel di più, quel tipo di sfida e d’insulto. Loro non cercavano affatto di capire quel che capitava attorno a noi nella vita, capivano soltanto e a malapena che il normale delirio del mondo era cresciuto da qualche mese, in tali proporzioni che non si poteva più fondare la propria esistenza su alcunché di stabile.
Qui all’ospedale, proprio come nella notte delle Fiandre la morte ci braccava; solo che qui, ci minacciava da più lontano la stessa morte irrevocabile di laggiù, è vero, una volta che le cure dell’Amministrazione la scagliavano sulla vostra tremante carcassa.
Qui, non ci urlavano addosso, certo, ci parlavano perfino con dolcezza, per tutto il tempo non ci parlavano d’altro che di morte, ma la nostra condanna figurava tuttavia bella chiara nell’angolo di ogni foglio di carta che ci chiedevano di firmare, in ognuna delle precauzioni che prendevano nei nostri confronti: Medaglie... Braccialetti... Il minimo permesso... Qualunque consiglio... Ci sentivamo contati, spiati, numerati nella grande riserva dei partenti di domani. Allora per forza, tutto il mondo civile e l’ambiente sanitario avevano l’aria molto più leggera di noi, al confronto. Le infermiere, ‘ste troiette, non lo condividevano mica, loro, il nostro destino, loro non pensavano per contrasto che a vivere a lungo, e molto più a lungo ancora e ad amare, era chiaro, ad andare a passeggio e a fare e rifare l’amore mille e diecimila volte. Ciascuno di quegli esseri angelici si teneva il suo piccolo bossolo[4] nel perineo, come i forzati, per più tardi, il piccolo bossolo amoroso, per quando saremmo crepati, noi, in un fango qualunque e dio sa come!
Allora quelle vi farebbero dei sospiri commemorativi speciali di tenerezza che le renderebbero ancora più attraenti, evocherebbero in silenzi commossi i tragici tempi di guerra, gli scomparsi... “Ve lo ricordate il piccolo Bardamu, direbbero all’ora del tramonto pensando a me, quello che era così difficile fargli passare la tosse? Aveva sempre il morale a terra, quello, poverino... Come sarà finito?”
Qualche rimpianto poetico piazzato al punto giusto sta bene a una donna quanto certi capelli vaporosi sotto i raggi della luna.
Sotto ciascuna delle loro parole e della loro sollecitudine d’ora in poi bisognava intendere: “Tu creperai caro militare... Creperai... è la guerra... A ciascuno la sua vita... A ciascuno il suo ruolo... A ciascuno la sua morte... Noi facciamo finta di condividere il tuo sconforto... Ma non si condivide la morte di nessuno... Tutto dev’essere per anime e corpi ben portanti, un modo per distrarsi, niente di più e niente di meno, e noi siamo, noialtre, ragazze solide, belle, stimate, sane e ben educate... Per noi tutto diventa biologia automatica, spettacolo gioioso e si converte in gioia! Così vuole la nostra salute! E le brutte licenze che si prendono i dispiaceri per noi non esistono... Ci vogliono degli eccitanti per noi, solo degli eccitanti... Voi sarete presto dimenticati, soldatini... Siate gentili, crepate in fretta... E che la guerra finisca e noi ci si possa maritare con uno dei vostri simpatici ufficiali... Meglio se è bruno!... Viva la Patria di cui parla sempre papà!... Come dev’esser bello l’amore quando lui torna dalla guerra!... Sarà decorato il nostro maritino!... Sarà distinto... Gli potrai lucidare gli stivali il bel giorno del nostro matrimonio se sarai ancora vivo quel momento lì, soldatino... Non saresti allora felice della nostra felicità, soldatino?...”
Ogni mattina, lo rivedemmo, e rivedemmo ancora il medico-capo, seguito dalle infermiere. Era uno scienziato, venimmo a sapere. Attorno alle nostre sale riservate venivano a trottare i vegliardi dell’ospizio di fianco con balzi inutili e sconnessi. Se ne andavano a sputacchiare pettegolezzi e acciacchi da una sala all’altra, portatori di pezzetti di chiacchiere e maldicenze rifritte. Qui isolati nella loro miseria ufficiale come in fondo a un recinto bavoso, i vecchi lavoratori brucavano tutto lo sterco che si deposita intorno alle anime al termine di lunghi anni di servitù. Odi impotenti, irranciditi nell’ozio piscioso delle sale comuni. Si servivano delle loro ultime e tremule energie soltanto per farsi ancora un po’ del male e distruggersi quel po’ di piacere e di fiato che gli restava.
Supremo piacere! Nella loro carcassa rinsecchita non esisteva più un solo atomo che non fosse rigorosamente cattivo.
Quando si seppe che dividevamo, noi soldati, le comodità relative del bastione con quei vecchi, si misero a detestarci all’unisono, però al tempo stesso venivano a mendicare senza tregua i nostri avanzi di tabacco abbandonati lungo le finestre e i pezzi di pane raffermo caduti sotto i banchi. Le loro facce di pergamena si schiacciavano all’ora dei pasti contro i vetri del nostro refettorio. Passavano tra le pieghe cispose dei loro nasi dei piccoli sguardi di vecchi topi bramosi. Uno di quegli infermi più astuto e briccone degli altri, ci veniva a cantare delle canzonette del suo tempo per distrarci, papà Birouette lo chiamavano loro. Era disposto a fare proprio tutto quel che volevamo purché gli dessimo del tabacco, tutto quel che volevamo salvo passare davanti all’obitorio del bastione che d’altra parte non faceva mai sciopero. Uno degli scherzi consisteva nel portarlo da quella parte lì, per così dire in passeggiata. “Vuoi mica entrare?” gli domandavamo noi quando si era proprio davanti alla porta. Allora scappava rantolando ma così in fretta e così lontano che non lo si vedeva più per due giorni almeno, papà Birouette. Aveva intravisto la morte.
Il nostro medico-capo dai begli occhi, il professor Bestombes, aveva fatto installare per ridarci l’anima tutta una batteria molto complicata di congegni elettrici sfavillanti di cui subivamo le scariche periodiche, effluvi che lui asseriva tonificanti e che bisognava subire pena l’espulsione. Era ricchissimo, sembrava, Bestombes, bisognava esserlo per acquistare tutto quel costoso bazar da sedia elettrica. Il suocero, gran politico, che aveva fatto dei maneggi potenti quando il governo aveva comperato dei terreni, gli consentiva quelle elargizioni.
Bisognava approfittarne. Tutto s’aggiusta. Delitti e castighi. Così com’era, non lo detestavamo mica. Esaminava il nostro sistema nervoso con cura straordinaria, e ci interrogava col tono di una familiarità cortese. Questa bonomia accuratamente calcolata divertiva e deliziava le infermiere, tutte selezionate, del servizio. Aspettavano ogni mattina, quei tesori, il momento di godersi le manifestazioni della sua alta premura, era un babà. Recitavamo insomma tutti in un dramma in cui lui, Bestombes, aveva scelto il ruolo dello scienziato benefattore e profondamente, gradevolmente umano, tutto era capirsi.
Nel nuovo ospedale, facevo camera comune con il sergente Branledore, raffermato; era un vecchio frequentatore di ospedali, lui, Branledore. Aveva trascinato il suo intestino perforato per mesi, in quattro differenti servizi.
Aveva imparato nel corso di quei soggiorni ad attirare e poi a consolidare la simpatia attiva delle infermiere. Vomitava, urinava e cacava sangue assai spesso Branledore, aveva anche difficoltà a respirare, ma questo non sarebbe completamente bastato ad accattivargli le grazie specialissime del personale curante che ne vedeva ben d’altre. Tra un soffocamento e l’altro se c’era un medico o un’infermiera che passava di là: “Vittoria! Vittoria! Avremo la Vittoria!” gridava Branledore, o lo mormorava al minimo o a pieni polmoni secondo il caso. Reso così conforme all’appassionata letteratura bellicista per effetto di un’opportuna messinscena, godeva della più alta quotazione morale. Lo conosceva il trucco, lui.
Poiché tutto era Teatro bisognava recitare e aveva proprio ragione Branledore; nulla ha l’aria più idiota ed è più irritante, è vero, di uno spettatore inerte salito per caso sulle scene. Quando si è lì sopra, si sa, bisogna prendere il tono, animarsi, recitare, decidersi o sparire. Le donne soprattutto chiedevano spettacolo ed erano impietose, le streghe, con i dilettanti imbambolati. La guerra, indiscutibilmente, porta alle ovaie, sono loro ad esigere eroi, e quelli che non lo erano per niente dovevano presentarsi come tali ovvero prepararsi a subire il più ignominioso dei destini.
Dopo otto giorni passati nel nuovo servizio, avevamo capito l’urgenza di dover cambiare travestimento e, grazie a Branledore (da borghese piazzista di merletti), gli uomini impauriti e in cerca d’ombra, ossessionati da ricordi vergognosi di mattatoi che noi eravamo arrivando, si mutarono in una banda assatanata di prodi, del tutto risoluti alla vittoria e vi garantisco armati di gran dinamismo e formidabili intenti. Rude il linguaggio che in effetti era diventato nostro, così pepato che quelle dame talvolta ne arrossivano, però senza lagnarsene mai perché si sa che un soldato è tanto più coraggioso quanto più se ne frega, e grossolano più di quanto dovrebbe, e che più è grossolano, più è coraggioso.
All’inizio, pur imitando Branledore del nostro meglio, il nostro portamento patriottico non era ancora del tutto a punto, non troppo convincente. C’è voluta una settimana e due prove intensive per metterci completamente in sintonia, quella giusta.
Non appena il nostro medico, il cattedratico Bestombes, ebbe notato, da vero scienziato, il brillante miglioramento delle nostre qualità morali, decise, a titolo di incoraggiamento, di autorizzarci qualche visita, a cominciare da quelle dei parenti.
Certi soldati ben dotati, a quel che avevo sentito raccontare, provavano quando si buttavano nella mischia, una specie di ebbrezza e persino una intensa voluttà. Quando da parte mia cercavo d’immaginare una voluttà di quel tipo particolarissimo, finivo per star male per otto giorni almeno. Mi sentivo così incapace di uccidere qualcuno, che era proprio meglio che ci rinunciassi e la finissi sùbito. Non che mi fosse mancata l’esperienza, avevano fatto di tutto per darmi il gusto, ma mi faceva difetto il talento. Mi ci sarebbe forse voluta un’iniziazione più lenta.
Mi decisi un bel giorno a informare il professor Bestombes delle difficoltà che provavo corpo e anima per essere coraggioso come avrei voluto e come le circostanze, di certo sublimi, esigevano. Paventavo un po’ che lui finisse per considerarmi uno sfrontato, un chiacchierone impertinente... Ma proprio per niente. Al contrario! Il Maestro si dichiarò felicissimo che in un accesso di franchezza mi venisse fatto di confidargli il turbamento spirituale che provavo.
“Lei va meglio Bardamu, amico mio! Lei va meglio, semplicemente!” Ecco quel che concludeva
“Questa confidenza che lei m’ha fatto, assolutamente spontanea, la considero, Bardamu, come l’indizio molto incoraggiante di un miglioramento notevole del suo stato mentale... Vaudesquin, d’altronde, osservatore modesto, ma quanto sagace, dei cedimenti morali nei soldati dell’Impero, aveva riassunto, sin dal 1802, osservazioni di questo genere in una memoria oggi classica, anche se ingiustamente trascurata dai nostri attuali studenti, ove egli notava, dico, con grande proprietà e precisione le crisi dette “di confessione”, che sopravvengono, segno fra i più importanti, nel convalescente morale... Il nostro grande Dupré, quasi un secolo più tardi, seppe coniare a proposito dello stesso sintomo la denominazione ormai celebre in cui questa stessa identica crisi figura sotto il titolo di crisi di “assembramento dei ricordi”, crisi che deve, secondo lo stesso autore, precedere di poco, quando la cura è ben condotta, il crollo massiccio delle ideazioni ansiose e la liberazione definitiva del campo della coscienza, fenomeno successivo insomma nel corso del ristabilimento psichico. Dupré ha dato d’altra parte, nella sua terminologia così immaginifica ed esclusiva, il nome di “diarrea cogitante di liberazione” alla crisi che s’accompagna nel soggetto a una sensazione d’euforia assai attiva, a una ripresa molto marcata dell’attività di relazione, ripresa, tra l’altro, assai rimarchevole del sonno, che si osserva prolungarsi improvvisamente per intere giornate, infine altro stadio: iperattività assai marcata delle funzioni genitali, a tal punto che non è raro osservare negli stessi malati in precedenza frigidi, di vere “abboffate erotiche”. Da cui la formula: “Il malato non entra nella guarigione, vi si precipita!”. Tale è il termine che descrive splendidamente, nevvero, questi trionfi della riabilitazione, col quale un altro dei nostri grandi psichiatri francesi del secolo scorso, Philibert Margeton, caratterizzava la ripresa veramente trionfale di tutte le attività normali in un soggetto convalescente della malattia della paura... Per quel che la riguarda, Bardamu, io la considero dunque e da questo momento, come un autentico convalescente... Le interesserà sapere, Bardamu, poiché siamo arrivati a questa conclusione soddisfacente, che domani, per l’esattezza, presento alla Società di psicologia militare una memoria sulle qualità fondamentali dello spirito umano?... Una memoria di qualità, credo.
- Certo, Maestro, questi problemi mi appassionano...
- Ebbene, sappia, per riassumere, Bardamu, che io sostengo questa tesi: che prima della guerra l’uomo restava per lo psichiatra uno sconosciuto inaccessibile e le risorse del suo spirito un enigma...
- È anche il mio modestissimo avviso, Maestro...
- La guerra, vede, Bardamu, con i mezzi incomparabili ch’essa ci dà di saggiare i sistemi nervosi, agisce al modo di un formidabile rivelatore dello Spirito umano! Ne abbiamo per secoli di che chinarci, meditabondi, sulle recenti rivelazioni patologiche, secoli di studi appassionanti... Confessiamolo francamente... Noi fin qui non facevamo che sospettare le ricchezze emotive e spirituali dell’uomo! Ma adesso, grazie alla guerra, è fatta... Noi penetriamo, a séguito di un’effrazione, dolorosa certo, ma decisiva e provvidenziale per la scienza, nella loro intimità! Dalle prime rivelazioni, il dovere dello psicologo e del moralista non ebbe più dubbi per me, Bestombes! S’imponeva una riforma radicale delle nostre concezioni psicologiche!”
Era proprio anche l’opinione mia, di Bardamu.
“Credo, in effetti, Maestro, che si farebbe bene...
- Ah! lo pensa anche lei, Bardamu, non glielo faccio dire io! Nell’uomo, vede, il buono e il cattivo si equilibrano, egoismo da una parte, altruismo dall’altra... Nei soggetti d elezione, più altruismo che egoismo. È esatto? è proprio questo?
- Esatto, Maestro, proprio questo...
- E nel soggetto d’elezione quale può essere, glielo chiedo Bardamu, la più alta entità conosciuta in grado di eccitare il suo altruismo e obbligarlo a manifestarsi incontestabilmente, questo altruismo?
- Il patriottismo, Maestro!
- Ah! Vede, non glielo faccio dire! Lei mi capisce benissimo... Bardamu! Il patriottismo e il suo corollario, la gloria, semplicemente, che ne è la prova!
- È vero!
- Ah! i nostri soldatini, osservi, fin dalle prime prove del fuoco hanno saputo liberarsi spontaneamente di tutti i sofismi e i concetti accessori, e particolarmente dei sofismi della conservazione. Sono andati d’istinto e d’acchito a fondersi con la nostra vera ragion d’essere, la nostra Patria. Per accedere a questa verità, non solo l’intelligenza è superflua, Bardamu, ma è di disturbo! è una verità del cuore, la Patria, come tutte le verità essenziali, il popolo non ci si sbaglia! Là esattamente dove il cattivo scienziato si perde...
- Questo è bello, Maestro! Troppo bello! è Antico!”
Mi strinse le due mani quasi affettuosamente, Bestombes.
Con voce diventata paterna, volle ancora aggiungere a mio beneficio: “È così che intendo curare i miei malati, Bardamu, con l’elettricità per il corpo e per lo spirito, con poderose doti d’etica patriottica, con autentiche iniezioni di morale ricostituente!
- La capisco, Maestro!”
Capivo in effetti sempre meglio.
Congedatomi da lui, andai senza tardare alla messa con i compagni rinvigoriti nella cappella nuova di zecca, scorsi Branledore che esternava il suo morale altissimo dietro la grande porta dove dava per l’appunto lezioni d’ardore alla nipote della portinaia. Andai sùbito a raggiungerlo, visto che mi invitava.
Il pomeriggio, arrivarono dei parenti da Parigi per la prima volta da quando eravamo là e poi in séguito ogni settimana.
Avevo finalmente scritto a mia madre. Lei era felice di ritrovarmi mia madre, e piagnucolava come una cagna alla quale abbiano alla fine restituito il piccolo. Credeva anche indubbiamente d’aiutarmi parecchio abbracciandomi ma restava tuttavia inferiore alla cagna perché credeva alle parole, lei, che le dicevano per portarmi via. La cagna almeno, non crede che a quel che prova. Con mia madre, abbiamo fatto un gran giro nelle strade vicino all’ospedale, un pomeriggio, a camminare trascinandoci negli abbozzi di strade che ci sono là, strade con i lampioni non ancora dipinti, tra lunghe facciate stillanti, le finestre pittate di cento piccoli stracci pendenti, le camicie dei poveri, ad ascoltare il rumorino del rifritto che crepita a mezzodì, uragano di grassi andati a male. Nel grande abbandono molle che circonda la città, là dove la menzogna del suo lusso viene a trasudare e finire in marciume, la città mostra a chi vuol vedere il suo gran deretano nelle casse dei rifiuti. Ci sono fabbriche che uno evita quando passeggia, che sanno di tutti gli odori, di quelli incredibili e dove l’aria intorno si rifiuta di puzzare di più. Lì vicino, ammuffisce il piccolo parco giochi, tra due alte ciminiere ineguali, i cavalli di legno dipinto sono troppo cari per chi li desidera, spesso per intere settimane, piccoli mocciosi rachitici, attirati, respinti e trattenuti al tempo stesso, tutti con le dita nel naso, dal loro abbandono, dalla povertà e dalla musica.
Tutto si traduce nello sforzo di allontanare la verità da quei luoghi che tornano a piangere senza tregua su tutti; si ha un bel fare, si ha un bel bere, anche del rosso, denso come l’inchiostro, il cielo resta quello che è laggiù, ben chiuso sopra, come una gran pozza per i fumi della periferia.
Per terra, il fango ti trascina alla fatica e i lati dell’esistenza sono chiusi anch’essi, ben delimitati da alberghetti e altre fabbriche. Sono già delle bare i muri di quei posti lì. Lola se n era andata, Musyne anche, non avevo più nessuno. Per questo avevo finito per scrivere a mia madre, solo per vedere qualcuno. A vent’anni non mi restava che il passato. Percorremmo insieme con mia madre strade e strade domenicali. Lei mi raccontava le faccenduole del suo commercio, quello che dicevano dalle sue parti sulla guerra, in città, che era triste, la guerra, anche “spaventosa”, ma che con molto coraggio, avremmo finito tutti per uscirne, i morti per lei non erano che degli incidenti, come alle corse, c’è solo da stare in gamba, cadevi mica. Per quel che la riguardava, lei nella guerra non ci scopriva altro che una gran pena nuova che cercava di non smuovere troppo; le faceva come paura questa afflizione; era piena di cose temibili che lei non capiva. Credeva in fondo che la povera gente del suo tipo era fatta per patire di tutto, che era il suo ruolo sulla terra, e che se le cose andavano adesso tanto male, questo si doveva anche in gran parte al fatto che aveva commesso molti sbagli uno sopra l’altro, la povera gente. Aveva dovuto fare delle sciocchezze, senza rendersene conto, sicuro, ma comunque era colpevole ed era già una gran gentilezza che gli si desse soffrendo a quel modo l’occasione di espiare la sua indegnità... Era una che niente la toccava, mia madre.
Questo ottimismo rassegnato e tragico le serviva da fede e formava la base del suo carattere.
Seguivamo tutti e due le strade da lottizzare, sotto la pioggia; i marciapiedi di là sprofondano e scappano, i piccoli frassini a schiera trattengono a lungo le gocce sui rami, in inverno, tremando nel vento, tenue fantasmagoria. La strada per l’ospedale passava davanti a molti alberghetti recenti, alcuni avevano un nome, altri non si davano nemmeno la pena. “Camere a settimana” erano quelle, semplicemente. La guerra le aveva vuotate brutalmente del loro contenuto di cottimisti e operai. Non sarebbero nemmeno rientrati per morire, i pigionanti. È un lavoro anche morire, ma loro se lo sarebbero sbrigato fuori.
Mia madre mi riportava all’ospedale piagnucolando, lei accettava l’incidente della mia morte, non soltanto era d’accordo, ma si chiedeva se avevo tanta rassegnazione come lei. Credeva alla fatalità come al bel metro delle Arti e Mestieri, di cui mi aveva sempre parlato con rispetto, perché aveva imparato quand’era giovane che quello che usava nella sua bottega di merciaia è la copia esatta di quel superbo campione ufficiale.
Tra i lotti di quella campagna decaduta esisteva ancora qualche campo e colture qua e là, e anche aggrappato a quelle briciole qualche vecchio contadino incastrato fra le case nuove. Quando ci restava tempo prima di rientrare la sera, andavamo a guardarli con mia madre quegli strani contadini che s’accanivano a frugare con del ferro quella cosa molle e granulosa che è la terra, dove si mettono a marcire i morti e da cui comunque viene il pane. “Dev’essere ben dura la terra!” osservava lei ogni volta guardandoli, alquanto perplessa, mia madre. In fatto di miserie lei conosceva solo quelle che assomigliavano alla sua, quelle di città, lei cercava d’immaginarsi come potevano essere quelle di campagna. È la sola curiosità che le ho mai conosciuto, a mia madre, e questo le bastava come distrazione per una domenica. Tornava con quella in città.
Non avevo più nessuna notizia di Lola, di Musyne nemmeno. Se ne stavano, quelle troiette, dalla parte giusta della situazione, dove regnava una consegna sorridente ma implacabile, eliminare noialtri, noi carne destinata ai sacrifici. M’avevano già portato in due riprese nei posti dove si parcheggiano gli ostaggi. Era solo questione di tempo e d’attesa. I giochi erano fatti.