Come se avessi saputo dove andavo, feci finta di scegliere ancora e ho cambiato strada, ho preso sulla destra un’altra via, meglio illuminata, Broadway si chiamava... Il nome l’ho letto su una targa. Molto al di sopra degli ultimi piani, in alto, restava della luce con dei gabbiani e dei pezzi di cielo. Noi avanzavamo nel chiarore di giù, malato come quello della foresta e così grigio che la strada ne era piena come un grosso miscuglio di cotone sporco.

Era come una ferita triste la strada che non finiva mai, con noi sul fondo, noialtri, da un bordo all’altro, da una pena all’altra, verso una fine che non si vede mai, la fine di tutte le strade del mondo.

Vetture non ne passavano, solo gente e ancora gente.

Era il quartiere prezioso, mi hanno spiegato più tardi, il quartiere dell’oro: Manhattan. Ci si entra solo a piedi, come in chiesa. È il bel cuore in Banca del mondo d’oggi. Eppure ci sono di quelli che sputano per terra quando passano. Bisogna essere degli sfrontati.

È un quartiere che di oro è pieno, un vero miracolo e si può perfino sentirlo il miracolo attraverso le porte con il suo rumore dei dollari che vengono stropicciati, sempre troppo leggero il Dollaro, un vero Spirito Santo, più prezioso del sangue.

Ho avuto comunque il tempo di andarli a vedere e sono anche entrato a parlargli a questi impiegati che custodiscono il liquido. Sono tristi e mal pagati.

Quando i fedeli entrano nella loro Banca, non bisogna credere che si possono servire così a capriccio. Proprio per niente. Parlano a Dollaro mormorandogli delle cose attraverso una piccola grata, si confessano insomma. Poco rumore, lampade morbide, un minuscolo sportello fra alte arcate, è tutto. Non inghiottono l’Ostia. Se la mettono sul cuore. Non potevo restare molto ad ammirarli. Bisognava seguire la gente della strada tra le pareti d’ombra liscia.

Di colpo, ecco che s’è allargata la nostra strada come un crepaccio che finisse in un laghetto di luce. Ci si è trovati davanti una grande pozza di luce glauca immobile tra mostri e mostri di case. Nel bel mezzo di quello spiazzo, un villino con un’arietta campestre, e bordato di pratini tristanzuoli.

Chiesi a più d’un vicino della folla che cos’era quella costruzione che si vedeva ma la maggior parte finse di non sentirmi. Non avevano tempo da perdere. Un ragazzino passando accanto, volle comunque informarmi che era ii Municipio, vecchio monumento dell’epoca coloniale aggiunse lui, tutto quel che c’era di storico... che avevano lasciato là... L’ambulacro di quell’oasi era fatto a giardino pubblico, con delle panchine, e ci si stava anche proprio comodi a guardarlo, il Municipio, seduti. Non c’era quasi nient’altro da vedere nel momento in cui arrivavo.

Attesi un’ora buona nello stesso posto e poi da quella penombra, da quella folla per strada, discontinua, triste, sorse verso il mezzodì, innegabile, un’improvvisa valanga di donne assolutamente belle.

Che scoperta! Che America! Che godimento! Ricordo di Lola! Il suo esempio non mi aveva ingannato! Era vero!

Toccavo il cuore del mio pellegrinaggio. E se non avessi continuato a patire i continui richiami dei miei appetiti mi sarei creduto arrivato a uno dei rari momenti di sovrannaturale rivelazione estetica. Le bellezze che scoprivo, incessanti, m’avrebbero sottratto alla mia condizione trivialmente umana con un po’ di fiducia e conforto. Non ci mancava che un sandwich insomma per credermi in pieno miracolo. Ma come mi mancava il sandwich!

Che graziose scioltezze però! Che delicatezze incredibili! Che invenzioni armoniose! Sfumature pericolose! Vittoria di tutti i pericoli! Di tutte le possibili promesse del volto e del corpo fra tante bionde! Quelle brune! E quei Tiziano! E quando non ce n’erano più ne venivano ancora! è forse, pensai io, la Grecia che rinasce? Arrivo al momento giusto!

Mi parvero tanto più divine quelle apparizioni, per il fatto stesso che non sembravano assolutamente accorgersi che esistevo, io, là, in un angolo su quella panchina, tutto intronato, a perder bave d’ammirazione erotico-mistica di chinino e anche di fame, bisogna ammettere. Se era possibile uscire dalla propria pelle io ne sarei uscito proprio in quel momento, una volta per tutte. Nulla mi ci tratteneva più.

Potevano portarmi con loro, sublimarmi, quelle inverosimili sartine, non avevano che un gesto da fare, una parola da dire, e sarei passato in quello stesso istante e per intero nel mondo del Sogno, ma senza dubbio loro avevano altre missioni.

Un’ora, due ore passarono così nella stupefazione. Non speravo più nulla.

Ci sono le budella. Avete visto mai in campagna dalle nostre parti fare quello scherzo ai mendicanti? Si riempie un vecchio portamonete con delle budella di pollo andate a male. Eh be’, un uomo, ve lo dico io, è la stessa cosa, in più grosso e mobile, e vorace, e dentro, un sogno.

Bisognava pensarci seriamente, a non intaccare sùbito la mia piccola riserva monetaria. Non ne avevo mica tanti di soldi. Non osavo nemmeno contarli. Non avrei potuto d’altronde, ci vedevo doppio. Solo che li sentivo fragili, quei biglietti spaventati attraverso la stoffa, vicini nella tasca con le mie statistiche del cavolo.

Passavano anche degli uomini da quelle parti, giovani soprattutto con delle teste come di legno rosa, sguardi secchi e monotoni, mascelle che non se ne potevano trovare di uguali, così larghe, così volgari... Alla fin fine, è così indubbiamente che le loro donne le preferiscono le mascelle. I sessi sembravano andare ciascuno per conto suo in strada. Loro, le donne, non guardavano quasi altro che le vetrine dei negozi, tutte monopolizzate dal fascino delle borse, delle scarpe, delle cosettine di seta, esposte, pochissime alla volta in ogni vetrina, ma in modo preciso, categorico. Non ne trovavi molti di vecchi in quella folla. Poche coppie, anche. Nessuno aveva l’aria di trovare strano che restassi là, io, da solo, per ore a stazionare su quella panchina guardando passare la gente. Tuttavia, a un certo momento, il poliziotto in mezzo alla strada piantato come un calamaio si mise a sospettarmi di averci degli strani propositi. Si vedeva.

Ovunque uno si trovi, appena attira su di sé l’attenzione delle autorità, è meglio sparire e alla svelta. Niente spiegazioni. Buttarsi di sotto! mi dissi io allora.

Sulla destra della panchina s’apriva per l’appunto un buco, largo, direttamente sul marciapiede tipo il metrò da noi. Quel buco mi parve adatto, grosso com’era, con dentro una scala tutta di marmo rosa. Avevo già visto molta gente per strada sparirvi e poi tornarne fuori. Era in quel sotterraneo che andavano a fare i loro bisogni. Capii sùbito come girava. In marmo anche la sala dove capitava la cosa. Una specie di piscina, però svuotata di tutta l’acqua, una piscina infetta, colma soltanto d’una luce filtrata, fioca, che veniva a smorire là sugli uomini sbottonati in mezzo ai loro odori e tutti paonazzi a sbrigare le loro sporche faccende davanti a tutti, con rumori barbari.

Tra uomini, così, alla buona, fra le risate di tutti quelli che erano intorno, accompagnati da incoraggiamenti che si scambiavano come al footoball. Prima si levavano la giacca, come per fare una prova di forza. Si mettevano in tenuta insomma, era il rito.

E poi tutti sbracati, ruttando e peggio, gesticolando come nel cortile dei matti, s’installavano nella caverna fecale. I nuovi arrivati dovevano rispondere a mille scherzi schifosi mentre scendevano i gradini dalla strada; ma sembravano tutti compiaciuti lo stesso.

Quanto più lassù sul marciapiede si comportavano bene gli uomini, formalmente, tristemente anche, tanto più qui la prospettiva di potersi svuotare le trippe in tumultuosa compagnia sembrava liberarli e rallegrarli intimamente.

Le porte dei gabinetti abbondantemente imbrattate pendevano, divelte dai loro cardini. Passavano dall’una all’altra cella per chiacchierare un po’, quelli che attendevano un posto vuoto fumavano dei sigari pesanti battendo sulla spalla dell’occupante al lavoro, lui, ostinato, la testa corrugata, rinchiusa fra le mani. Molti ci facevano dei forti gemiti come dei feriti o delle partorienti. Minacciavano gli stitici di torture ingegnose.

Quando uno scroscio d’acqua annunciava un posto vacante, raddoppiavano i clamori attorno all’alveolo libero, e allora sovente se ne giocavano il possesso a testa o croce. I giornali appena letti, anche se spessi come piccoli cuscini, finivano istantaneamente disciolti nella mota di quei lavoratori rettali. Si distinguevano male le facce per il fumo. Non osavo troppo avanzare verso di loro a causa degli odori.

Quel contrasto era proprio fatto per sconcertare uno straniero. Tutto quello sbracamento intimo, quella formidabile familiarità intestinale e in strada quella perfetta aria contegnosa! Ci restavo stravolto.

Risalii alla luce per quegli stessi gradini per riposarmi sulla stessa panchina. Orgia repentina di digestioni e volgarità. Scoperta del comunismo allegro della cacca. Lasciavo ciascuno al suo posto gli aspetti così sconcertanti della stessa avventura. Non avevo la forza di analizzarli né di tentare una sintesi. Era dormire che desideravo irresistibilmente. Deliziosa e insolita frenesia!

Ripresi dunque la fila dei passanti che s’addentravano in una delle strade confinanti e avanzammo a strattoni a causa dei negozi che a ogni vetrina frammentavano la folla. La porta di un hôtel si apriva là, creando un gran risucchio. La gente schizzava sul marciapiede dall’ampia porta a tamburo, fui ghermito in senso inverso nel mezzo del grande atrio interno.

Stupefacente a prima vista... Bisognava indovinare tutto, immaginare la maestosità dell’edificio, l’ampiezza delle sue proporzioni perché tutto si svolgeva intorno a lampade così velate che ci si abituava solo dopo un certo tempo.

Molte giovani donne in quella penombra, affondate in profonde poltrone, come in altrettanti scrigni. Intorno uomini attenti, silenziosi nel passare e ripassare a una certa distanza da loro, curiosi e intimiditi, al largo della fila di gambe incrociate a splendide altezze di seta. Quelle meraviglie mi sembravano aspettare là eventi assai gravi e costosi. Evidentemente, non era a me che pensavano. Così anch’io passai a mia volta davanti a quella lunga tentazione palpabile, con aria assolutamente clandestina.

Poiché erano almeno un centinaio quegli esseri prestigiosi a gonne insù, disposte su una sola linea di poltrone, arrivai al ricevimento nel sogno d’aver assorbito una dose di bellezza così forte per il mio temperamento che barcollavo.

Al banco, un commesso imbrillantinato mi offrì aggressivamente una camera. Mi decisi per la più piccola dell’hôtel. Non ci dovevo avere in quel momento che una cinquantina di dollari scarsi, quasi più idee e nessuna fiducia.

Speravo che fosse davvero la più piccola camera d’America quella che m’avrebbe offerto il commesso perché il suo hôtel, il Laugh Calvin, era presentato sui manifesti come il meglio frequentato tra i più sontuosi alberghi del continente.

Sopra di me che infinità di locali ammobiliati! E vicino a me, in quelle poltrone, che tentazioni di stupri in serie! Che abissi! Che pericoli! Il supplizio estetico del povero è dunque interminabile? Ancora più tenace della sua fame? Ma non c’era tempo di arrendersi, lesti quelli del banco m’avevano già consegnato una chiave, pesante a piena mano. Non osai più muovere.

Un fattorino sfrontato, vestito a mo’ di giovanissimo generale di brigata, sorse dall’ombra davanti ai miei occhi; imperioso comandante. L’impiegato liscio del bureau batté tre colpi sul campanello metallico e il mio fattorino si mise a fischiare. Mi spedivano. Era la partenza. Filammo.

Prima per un corridoio, a una bella velocità, andavamo neri e decisi come un metrò. Lui guidava, il ragazzo. Ancora un angolo, una svolta e poi un’altra. Non andava per le lunghe. Piegammo un po’ i nostri passi. Passato. È l’ascensore. Botta di fiacca. Ci siamo? No. Un corridoio ancora. Più triste ancora, mi sembra ci sia dell’ebano murale dappertutto sulle pareti. Non ho il tempo di esaminare. Il piccolo fischia, porta il mio gracile bagaglio. Non oso chiedergli niente. È andare che bisogna, mi rendo ben conto. Nelle tenebre qua e là, sul nostro percorso, una lampada rossa o verde lascia cadere un’ingiunzione. Lunghe strisce dorate segnano le porte. Abbiamo superato da tempo il numero 1’800 e poi il 3’000 e tuttavia continuavamo sempre ad andare trascinati dallo stesso invincibile destino. Seguiva l’innominato[11] nell’ombra, il piccolo cacciatore gallonato, come il suo stesso istinto. Nulla in quell’antro sembrava coglierlo alla sprovvista. Il suo fischietto modulava un tono lamentevole quando superammo un negro, una cameriera, nera anche lei. Era tutto.

Nello sforzo di darmi un’accelerata, avevo perduto lungo quei corridoi uniformi quel po’ di disinvoltura che mi restava scappando dalla Quarantena. Mi sfilacciavo come già avevo visto sfilacciarsi la mia capanna al vento d’Africa fra diluvi d’acqua tiepida. Qui da parte mia ero alle prese con un torrente di sensazioni sconosciute. C’è un momento tra due generi d’umanità che uno arriva a dibattersi nel vuoto.

Di colpo il fattorino, senza avvertire, girò su se stesso. Eravamo arrivati. Mi sbattei contro una porta, era la mia camera, una grande scatola dalle pareti d’ebano. Soltanto sul tavolo, un po’ di luce cingeva una lampada spaurita e verdastra. “Il Direttore dell’hôtel Laugh Calvin esprimeva al viaggiatore i sensi della sua amicizia e si faceva carico, il Direttore, del suo personale impegno a rendere gradevole l’intera durata del soggiorno dell’ospite a New York.” La lettura di quell’annuncio posto in bell’evidenza dovette se possibile aggiungere qualcosa al mio smarrimento.

Una volta solo, fu anche peggio. Tutta quell’America veniva a tormentarmi, a pormi interrogativi enormi e a confermarmi brutti presentimenti, perfino là in quella camera.

Sul letto, ansioso, tentai di familiarizzare con la penombra di quella scatola per cominciare. I muri tremavano a un rombo periodico, dal lato finestra. Passaggio del metrò sopraelevato. Zompava di fronte, tra due strade, come una granata, riempito di carni tremolanti e macinate, avanzava a scossoni attraverso la città lunatica di quartiere in quartiere. Lo si vedeva laggiù che andava a farsi sbatacchiare la carcassa sopra un torrente di putrelle con un’eco che rimbombava ancora per un bel po’ dietro a lui da una muraglia all’altra, quando l’aveva superato, a cento all’ora. L’ora di cena sopraggiunse in quella prostrazione, e poi anche quella del dormire.

È soprattutto il metrò furioso che mi aveva sconvolto. Dall’altro lato di quel pozzo di cortile, la parete s’illuminò di una, poi due camere, poi decine. In alcune di quelle, potevo scorgere quel che capitava. Erano delle coppie che andavano a dormire. Sembravano disfatti come la gente di casa nostra gli americani, dopo le ore verticali. Le donne avevano cosce molto piene e molto pallide, quelle che ho potuto vedere bene almeno. La maggior parte degli uomini si rasava fumando un sigaro prima di coricarsi.

A letto prima si toglievano gli occhiali e poi la dentiera in un bicchiere e mettevano il tutto in evidenza. Non avevano l’aria di parlarsi tra loro, tra sessi, proprio come in strada. Li si sarebbe detti dei docili bestioni, abituati ad annoiarsi. Non ho scorto che due coppie in tutto farsi alla luce le cose che mi aspettavo e senza alcuna violenza. Le altre donne, loro, mangiavano caramelle a letto aspettando che il marito avesse finito la toeletta. E poi, hanno tutti spento.

È triste la gente che si corica, si vede che se ne fottono che le cose vanno come vogliono loro, si vede che non cercano mica di capire loro, il perché uno è là. Gli fa proprio lo stesso. Dormono non importa come, è tipico dei gasati, dei babbioni, dei non suscettibili, americani o no. Hanno sempre la coscienza tranquilla.

Ne avevo viste troppe io di cose non chiare per essere contento. Ne sapevo troppo e non ne sapevo abbastanza. Bisogna uscire, ecco che mi dissi, uscire ancora. Forse incontrerai di nuovo Robinson. Era un’idea idiota evidentemente ma mi ci attaccavo per avere il pretesto di uscire di nuovo, tanto più che avevo un bel girarmi e rigirarmi sul paglione, non riuscivo ad agguantare un briciolo di sonno. Anche a masturbarsi in quei casi lì non si prova né conforto, né distrazione. Allora è la vera disperazione.

Quel che è peggio è che uno si chiede come l’indomani troverà quel po’ di forza per continuare a fare quel che ha fatto il giorno prima e poi già da tanto tempo, dove troverà la forza per quelle iniziative sceme, quei mille progetti che non arrivano a niente, quei tentativi per uscire dalla necessità opprimente, tentativi che abortiscono sempre, e tutti per arrivare a convincersi una volta per tutte che il destino è invincibile, che bisogna sempre ricadere ai piedi della muraglia, ogni sera, sotto l’angoscia dell’indomani, sempre più precario, più sordido.

Forse è anche l’età che sopraggiunge, traditora, e ci annuncia il peggio. Non si ha più molta musica in sé per far ballare la vita, ecco. Tutta la gioventù è già andata a morire in capo al mondo nel silenzio della verità. E dove andar fuori, ve lo chiedo, quando uno non ha più dentro una quantità sufficiente di delirio? La verità, è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere, morire o mentire. Non ho mai potuto uccidermi io.

La cosa migliore era dunque uscire per strada, ‘sto piccolo suicidio. Ognuno ha il suo bernoccolo, il suo metodo per conquistare sonno e sbobba. Dovevo proprio riuscire a dormire per ritrovare abbastanza forze da guadagnarmi un tozzo di pane l’indomani. Ritrovare lo slancio, giusto quel che bastava per trovare un lavoro domani e scavalcare sùbito, aspettando, l’ignoto del sonno. Non bisogna credere che è facile addormentarsi una volta che ti sei messo a dubitare di tutto, soprattutto a causa di tutte quelle paure che ti hanno fatto.

Mi vestii e bene o male arrivai all’ascensore, ma un po’ rimbambito. Dovetti ancora passare nell’atrio davanti ad altre file, ad altri incantevoli enigmi dalle gambe così attraenti, dai volti delicati e severi. Delle dee insomma, delle dee adescatrici. Si sarebbe potuto cercare di capirsi. Ma avevo paura di farmi arrestare. Complicazioni. Quasi tutti i desideri del povero sono puniti con la prigione. E la strada mi riprese. Non era più la stessa folla di prima. Questa manifestava un po’ più d’audacia mentre s’accalcava lungo i marciapiedi, come se fosse arrivata quella folla in un paese meno arido, quello della distrazione, il paese della sera.

La gente avanzava verso le luci sospese lontano nella notte, serpenti inquieti e multicolori. Da tutte le strade dei dintorni affluiva. Faceva molti dollari, pensavo io, una folla così, soltanto in fazzoletti, per esempio, o in calze di seta! E anche solo in sigarette! E dire che tu, te ne puoi andare a spasso in mezzo a tutto quel denaro, quello non ti dà un soldo in più, neanche per andare a mangiare! è disperante quando uno ci pensa, come gli uomini si difendono gli uni contro gli altri, come altrettante case.

Sono stato anch’io a trascinarmi verso le luci, un cinema, e poi un altro di fianco, e poi ancora un altro e per tutta la strada allo stesso modo. Perdevamo grossi pezzi di folla davanti ad ognuno di essi. Ne ho scelto uno, io, di cinema dove c’erano delle donne sulle foto in sottoveste e che cosce! Signori! Sode! Abbondanti! Giuste! E poi delle teste carine di sopra, come disegnate a contrasto, delicate, fragili, a matita, senza ritocchi da fare, perfette, non una sciatteria, non una sbavatura, perfette vi dico, carine! ma compatte e concise al tempo stesso. Tutto quel che la vita può far sbocciare di più pericoloso, vere imprudenze di bellezza, quelle indiscrezioni sulle divine e profonde armonie possibili.

Si stava bene nel cinema, dolce e caldo. Voluminosi organi tenerissimi come in una basilica, ma che fosse scaldata però, organi come cosce. Non un momento perso. Ci si tuffa in pieno nel tiepido perdono. Ci sarebbe stato di che lasciarsi andare a pensare che forse il mondo stava finalmente per convertirsi all’indulgenza. C’eravamo già quasi.

Allora i sogni affiorano nella notte per andare a incendiarsi nel miraggio della luce che si muove. Non è affatto la vita quello quel che accade sugli schermi, resta dentro un grande spazio torbido, per i poveri, per i sogni e per i morti. Bisogna fare in fretta a ingozzarsi di sogni per attraversare la vita che vi aspetta fuori, usciti dal cinema, resistere qualche giorno in più attraverso quell’atrocità di cose e uomini. Uno sceglie tra i sogni quelli che gli riscaldano meglio l’anima. Per me, lo confesso, erano quelli sporchi. Non bisogna esserne fieri, ti porti via da un miracolo quello che ti puoi tenere. Una bionda che aveva delle tettone e una nuca indimenticabili ha creduto bene di rompere il silenzio dello schermo con una canzone dove si parlava della sua solitudine. Uno ci avrebbe pianto con lei.

È questo che è bello! Che slancio vi dà! Ne avevo poi, già lo sentivo, per almeno due giorni di gran coraggio in corpo. Non aspettai nemmeno che riaccendessero in sala. Ero pronto a decidermi totalmente per il sonno ora che avevo assorbito un po’ di quell’ammirevole delirio d’anima.

Di ritorno al Laugh Calvin, malgrado l’avessi salutato, il portiere trascurò d’augurarmi la buonasera, come quelli delle nostre parti, ma io me ne fottevo adesso del disprezzo del portiere. Una forte vita interiore basta a se stessa e farebbe sciogliere vent’anni di banchisa. È così.

In camera mia, avevo appena chiuso gli occhi che la bionda del cinema veniva a ricantarmi ancora e sùbito solo per me allora, tutta la melodia della sua mestizia. L’aiutavo per così dire ad addormentarmi e ci riuscii benissimo... Non ero più solo per niente... è impossibile dormire da solo...

 

Viaggio al termine della notte
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