Per nutrirsi in modo economico in America, uno può andarsi a comperare un panino caldo con una salsiccia dentro, è comodo, roba che si vende agli angoli delle strade, niente cara. Mangiare nel quartiere dei poveri non mi disturbava certo, ma non incontrare più quelle belle creature da ricchi, ecco quel che diventava assai penoso. Allora non val nemmeno più la pena di mangiare.

Al Laugh Calvin, su quei folti tappeti, potevo ancora aver l’aria di cercare qualcuno fra le donne troppo belle dell’entrata, caricarmi poco a poco nella loro atmosfera equivoca. Pensandoci dovevo ammettere che avevano avuto ragione gli altri, dell’Infanta Combitta, me ne rendevo conto, con l’esperienza, non avevo dei gusti seri per un pezzente. Avevano fatto bene i compagni della galera a cantarmele chiare. Tuttavia, il coraggio continuava a non tornarmi. Avevo un bel riprendere dosi su dosi di cinema, qua e là, ma era proprio il minimo per ricuperare lo slancio che mi ci voleva per un passeggiata o due. Niente di più. In Africa, avevo certo conosciuto un genere di solitudine abbastanza feroce, ma l’isolamento in quel formicaio americano prendeva una piega ancora più opprimente.

Sempre avevo temuto d’essere pressoché vuoto, di non avere insomma alcuna seria ragione per esistere. Adesso davanti ai fatti ero proprio certo del mio nulla individuale. In quell’ambiente troppo diverso da quello in cui coltivavo le mie meschine abitudini, mi ero come dissolto all’istante. Mi sentivo vicinissimo alla non esistenza, semplicemente. Così, lo scoprivo, da quando avevano smesso di parlarmi di cose familiari, nulla più m’impediva di sprofondare in una sorta di noia irresistibile, in una sorta di dolciastra spaventevole catastrofe spirituale. Una cosa disgustosa.

Sul punto di lasciarci il mio ultimo dollaro in quell’avventura, ero ancora lì che mi annoiavo. E così profondamente che mi rifiutai persino di prendere in esame gli espedienti più urgenti. Siamo per natura così superficiali che soltanto le distrazioni ci possono impedire davvero di morire. Quanto a me, mi avvicinavo al cinema con un fervore disperato.

Uscendo dalle tenebre deliranti del mio albergo tentavo ancora qualche escursione tra le alte strade d’intorno, carnevale insipido di case con le vertigini. La mia spossatezza si aggravava davanti a quelle distese di facciate, quella monotonia gonfia di selciati, di mattoni e arcate all’infinito e di commercio su commercio, questo cancro del mondo, sfolgorante nelle réclames ammiccanti e pustolose. Centomila menzogne farneticanti.

Dalla parte del fiume, ho percorso altre stradine, e ancora stradine, le cui dimensioni diventavano abbastanza normali, come a dire che si sarebbe potuto per esempio dal marciapiede dove stavo spaccare tutti i vetri di un unico edificio di fronte.

Le zaffate d’una frittura ininterrotta invadevano quei quartieri, i negozi non esponevano più fuori la merce a causa dei furti. Tutto mi ricordava i dintorni del mio ospedale a Villejuif, anche i bambini dalle grosse ginocchia storte lungo i marciapiedi e anche gli organetti degli ambulanti. Sarei restato là con loro, ma i poveri non mi avrebbero mica sfamato e per di più li avrei sempre avuti tutti quanti sotto gli occhi, sempre e la loro troppa miseria mi faceva paura. Così alla fine sono tornato verso la città alta “Stronzo! mi dicevo allora. In verità, sei uno senza risorse!” Bisogna rassegnarsi a conoscersi ogni giorno un po’ meglio, dal momento che vi manca il coraggio di finirla con i vostri piagnistei una volta per tutte.

Un tram costeggiava le rive dell’Hudson andando verso il centro della città, una vecchia vettura che vibrava con tutte le sue ruote e la sua carcassa spaventata. Ci metteva un’ora buona a fare il suo percorso. I viaggiatori si sottomettevano senza impazienza a un complicato rito di pagamento con una sorta di macinacaffè a moneta piazzato proprio all’entrata della vettura. Il controllore li guardava eseguire, vestito come uno dei nostri, in uniforme di “miliziano balcanico prigioniero”.

Finalmente, arrivavo, sfinito, ripassavo di ritorno da quelle escursioni populiste davanti all’inesauribile doppia fila di bellezze del mio atrio di Tantalo e ripassavo ancora e sempre pieno di sogni e desideri.

La bolletta era tale che non osavo più frugarmi le tasche per controllare. Purché Lola non avesse deciso di assentarsi in quel momento! pensavo io... E anzitutto, avrebbe voluto ricevermi? Le avrei scroccato cinquanta o anche cento dollari tanto per cominciare?... Esitavo, sentivo che non avrei avuto il coraggio che ci voleva senza prima aver mangiato e dormito bene, una buona volta. E poi, fossi riuscito in quel primo tentativo di batter cassa, mi metterei sùbito a cercare Robinson, vale a dire, dal momento in cui avessi ripreso forze a sufficienza. Era mica un tipo del mio genere lui, Robinson! Era uno deciso, lui, almeno! Uno con le palle! Ah! Ne doveva già conoscere di trucchi e truschini sull’America! Lui aveva forse un modo per acquisire quella convinzione, quella tranquillità che a me faceva totalmente difetto...

Se come immaginavo anche lui era sbarcato da una galera e aveva calpestato questa riva molto prima di me, di certo a quell’ora se l’era fatta lui la sua posizione americana! L’agitarsi imperturbabile di quegli strampalati non doveva fargli niente a lui! Anch’io forse, pensandoci bene, avrei potuto cercare un impiego in uno di quegli uffici di cui leggevo i cartelli squillanti dal di fuori... Ma all’idea d dover penetrare in una di quelle case mi sbiancavo e sprofondavo dalla timidezza. Il mio hôtel mi bastava. Tomba gigantesca e odiosamente animata.

Forse agli habitués non gli faceva lo stesso effetto che a me quegli ammassi di materia e di alveoli commerciali? quell’infinito intrecciarsi di nervature? Per loro era forse la sicurezza tutto quel diluvio in sospensione mentre per me era soltanto uno spaventoso sistema di coercizioni, in mattoni, corridoi, catenacci, sportelli, una gigantesca tortura architettonica, inespiabile.

Filosofeggiare non è che un altro modo di aver paura e porta solo a sterili fantasie.

Non avendo più che tre dollari in tasca, cominciai a guardarli saltare nel palmo della mano i miei dollari alla luce degli annunci di Times Square, quella piccola piazza sorprendente in cui la pubblicità zampilla sopra la folla intenta a scegliersi un cinema. Mi cercai un ristorante molto economico e abbordai uno di quei refettori pubblici razionalizzati dove il servizio è ridotto al minimo e il rito alimentare semplificato sull’esatta misura del bisogno naturale.

Appena entri, ti mettono in mano un piatto e vai a prendere il tuo posto nella fila. Attesa. Vicine, alcune gradevolissime candidate al pranzo come me non mi filavano per niente... Deve fare uno strano effetto, pensavo io, quando ci si può permettere d’abbordare così una di quelle signorine dal naso svelto e civettuolo: “Signorina, gli direbbe uno, sono ricco, molto ricco... mi dica quel che le farebbe piacere accettare...”

Allora di colpo tutto diventa semplice, divinamente, senza dubbio, tutto quel che era così complicato un momento prima... Tutto si trasforma e il mondo paurosamente ostile si mette di colpo a rotolare ai tuoi piedi come una palla sorniona, docile e vellutata. Allora forse la perdi in quello stesso istante, l’abitudine spossante di fantasticare su quelli che ce l’hanno fatta, sulle fortune felici visto che si può toccare con mano tutto ciò. La vita, per chi non ha mezzi, è solo un lungo rifiuto in un lungo delirio e uno mica la conosce bene sul serio, ci si libera solo di quello che si possiede. E già per conto mio, a furia di prendere e lasciar sogni, avevo la coscienza in balia delle correnti d’aria, tutta escoriazioni e screpolature, rovinata da far spavento.

Aspettando non osavo avviare con quelle giovani del ristorante la più anodina delle conversazioni. Tenevo il mio piatto educatamente, in silenzio. Quando fu il mio turno di passare davanti alle cavità di maiolica piene di budini e di fagioli, presi tutto quello che mi davano. Quel refettorio era così pulito, così ben illuminato, che uno si sentiva come trasportato sulla superficie dei suoi mosaici al pari di una mosca sul latte.

Delle cameriere, tipo infermiere, se ne stavano dietro le tagliatelle, il riso, la frutta in conserva. A ciascuna la sua specialità. Mi sono riempito di quel che distribuivano le più gentili. Con mio rammarico, non rivolgevano un sorriso ai clienti. Appena servito bisognava sedersi con discrezione e lasciare il posto a un altro. Si cammina a piccoli passi col piatto in equilibrio come attraverso una sala operatoria. Era un bel po’ diverso dal mio Laugh Calvin e dalla mia cameretta ebano listata d’oro.

Ma se ci innaffiavano a quel modo noi clienti con tanta luce profusa, se ci strappavano per un istante dalla notte abituale della nostra condizione, ciò faceva parte di un piano. Aveva una sua idea il proprietario. Io non mi fidavo. Ti fa uno strano effetto dopo tanti giorni d’ombra essere bagnato di colpo da torrenti d’illuminazione. A me, quello mi procurava un piccolo delirio supplementare. Non mi ci voleva mica molto, è vero.

Sotto il tavolino che m’era toccato in sorte, di pietra immacolata, non riuscivo a nascondere i piedi; mi rispuntavano fuori da ogni parte. Avrei proprio voluto che fossero altrove i miei piedi per un momento, perché dall’altro lato della vetrata eravamo osservati dalla gente in fila che avevamo lasciato sulla strada. Aspettavano che avessimo finito, noi, di sbafare, per venirsi a mettere a tavola a loro volta. È anche per questo e per tenergli su l’appetito che ci trovavamo così ben illuminati e valorizzati, a titolo di pubblicità vivente. Le mie fragole sul dolce erano investite da tali riflessi scintillanti che non potevo decidermi a inghiottirle.

Non si scappa mica al commercio americano.

Attraverso i fulgori di quei bracieri e di quella coercizione, adocchiai malgrado tutti i suoi andirivieni negli immediati dintorni una cameriera molto carina, e decisi di non perdere uno solo dei suoi gesti graziosi.

Quando venne il mio turno di farmi cambiare il piatto da lei, presi nota della forma imprevista dei suoi occhi il cui angolo esterno era molto più acuto, ascendente rispetto a quello delle donne delle nostre parti. Le palpebre ondeggiavano leggere verso il sopracciglio dal lato delle tempie. Una cosa crudele insomma, ma giusto quel che ci vuole, una crudeltà che puoi abbracciare, amarezza insidiosa come quella dei vini del Reno, gradevoli loro malgrado.

Quando lei arrivò a tiro, mi misi a farle dei piccoli segni d’intesa, se posso dire, alla cameriera, come se la conoscessi. Lei mi esaminò senza alcuna condiscendenza come fossi una bestia ma con una qualche curiosità. “Eccola qui, mi dicevo io, la prima americana che si trova costretta a guardarmi.”

Avendo finito la mia torta luminosa, ho dovuto lasciare il posto a qualcun altro. Allora, un po’ titubante, invece di seguire il percorso esatto che portava verso l’uscita, proprio diritto, mi feci coraggio e scartando l’uomo della cassa che ci aspettava tutti con i nostri ghelli, mi son diretto verso di lei, la bionda, risaltando, fatto insolito, in mezzo al flusso della luce disciplinata.

Le venticinque cameriere ai loro posti dietro le cose tenute in caldo, mi fecero tutte segno allo stesso tempo che sbagliavo strada, che mi perdevo. Percepii un grande turbinio di forme nella vetrina delle persone in attesa e quelli che dovevano mettersi a mangiare dietro di me esitarono a sedersi. Avevo rotto l’ordine delle cose. Intorno tutti non nascosero lo stupore: “Sarà di sicuro uno straniero!” facevano.

Ma, io avevo un’idea, valeva quel che valeva, non volevo più mollare la bella del servizio. Mi aveva guardato, la micetta, tanto peggio per lei. Ne avevo abbastanza di star da solo! Basta con i sogni! Simpatia! Contatto! “Signorina, lei mi conosce pochissimo, ma io già l’amo, vuole che ci sposiamo?...” è a ‘sto modo che la interpellai, il più onesto.

La sua risposta non mi arrivò mai, perché un gigante di guardia, tutto vestito di bianco anche lui, sopraggiunse in quel preciso momento e mi spinse fuori, giustamente, semplicemente, senz’offesa, né brutalità, nella notte, come un cane che s’è perduto.

Tutto ciò si svolgeva regolarmente, avevo niente da dire.

Risalii verso il Laugh Calvin.

In camera mia sempre gli stessi tuoni venivano a spezzare l’eco, come trombe d’aria, anzitutto le folgori del metrò che sembrava lanciarsi su di noi da chissà dove, strappando a ogni passaggio tutti i suoi acquedotti per devastare la città, e poi nel contempo richiami incoerenti di meccanici dal basso, che salivano dalla strada, e ancora quel rumore molle di folla ondeggiante, esitante, fastidiosa sempre, sempre sul punto di ripartire, e poi di esitare ancora, e ritornare. La grande marmellata degli uomini nella città.

Da dove stavo là in alto, si poteva benissimo gridargli addosso tutto quel che volevi. Ci ho provato. Mi facevano tutti schifo. Non avevo il fegato di dirglielo durante il giorno, quando mi ci trovavo di fronte, ma da dove stavo non rischiavo niente, gli ho gridato “Aiuto! Aiuto!” solo per vedere se quello gli farebbe qualcosa. Proprio niente gli faceva. Spingevano la vita giorno e notte davanti a sé gli uomini. Gli nasconde tutto la vita agli uomini. Nel rumore che fanno loro stessi non sentono niente. Se ne fottono. E più la città è grande e più è alta e più se ne fottono. Ve lo dico io. Ho provato. Val mica la pena.

 

Viaggio al termine della notte
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