In questa colonia di Bambola-Bragamance, al di sopra di tutti, trionfava il Governatore. Militari e funzionari osavano appena respirare quando lui si degnava di abbassare lo sguardo sulle loro persone.

Molto al di sotto ancora di quei notabili i commercianti installati sembravano rubare e prosperare più facilmente che in Europa. Nemmeno una noce di cocco, nemmeno una nocciolina americana, su tutto il territorio, che scappasse alle loro rapine. I funzionari capivano, via via che diventavano più stanchi e malati, che se ne fottevano di loro facendoli venire lì, per dargli insomma solo galloni e formulari da riempire e quasi niente grana insieme. Così guardavano di brutto i commercianti. L’elemento militare ancora più inebetito degli altri due s’abboffava di gloria coloniale e per farla passare ci metteva molto chinino e chilometri di Regolamenti.

Tutti diventavano, si capisce bene, a forza d’aspettare che il termometro si abbassi, sempre più incarogniti. E le ostilità personali e collettive duravano interminabili e assurde tra i militari e l’amministrazione, e poi ancora tra quest’ultima e i commercianti, e poi ancora tra quelli lì alleati temporaneamente contro quelli là, e poi tra tutti contro il negro e alla fine tra i negri tra di loro. Così, le rare energie che scampavano alla malaria, alla sete, al sole, si consumavano in odi così mordaci, così insistenti, che molti coloni finivano per crepare sul posto, avvelenati di se stessi, come degli scorpioni.

Tuttavia, questa anarchia tanto virulenta si trovava rinchiusa in una cornice ermetica di polizia, come vipere nel loro nido. Blateravano invano i funzionari, e d’altronde il Governatore per mantenere la colonia in obbedienza trovava da reclutare tutti i miliziani disgraziati di cui aveva bisogno, e altrettanti negri indebitati che la miseria cacciava a migliaia verso la costa, vinti dal commercio, venuti a cercare una zuppa. Gli insegnavano a quelle reclute il diritto e la maniera d’ammirare il Governatore. Aveva l’aria il Governatore di far passeggiare sulla sua uniforme tutto l’oro delle sue finanze, e col sole sopra era una cosa da non credere, senza contare le piume.

Si concedeva Vichy ogni anno il Governatore e leggeva solo il “Journal Officiel”. Un sacco di funzionari aveva vissuto nella speranza che un giorno sarebbe andato a letto con le loro mogli, ma il Governatore non amava le donne. Non amava niente. In mezzo a ogni nuova epidemia di febbre gialla, il Governatore sopravviveva che era un incanto mentre tanti tra quelli che volevano fargli il funerale crepavano loro come mosche alla prima pestilenza.

Ci si ricordava che un certo “Quattordici Luglio” mentre lui passava davanti allo schieramento delle truppe della Residenza, caracollando in mezzo agli spahis della guardia, solo davanti a una bandiera grande così, un certo sergente che la febbre esaltava di sicuro, si gettò davanti al cavallo per gridargli: “Indietro grandissimo cornuto!” Pare che fosse molto addolorato il Governatore, da questa specie di attentato che restò d’altra parte senza spiegazione.

È difficile guardare in coscienza la gente e le cose dei Tropici a causa dei colori che emanano. Una scatoletta di sardine aperta in pieno mezzogiorno per la strada proietta tanti di quei riflessi che assume per gli occhi l’importanza di un accidente. Bisogna fare attenzione. Non è che laggiù ci sono solo degli uomini isterici, ci si mettono anche le cose. La vita diventa quasi tollerabile solo quando cade la notte, ma ecco che l’oscurità, quella, è accaparrata quasi immediatamente dalle zanzare a sciami. Non uno, due o cento, ma bilioni. Cavarsela in quelle condizioni diventa un’autentica opera di preservazione. Carnevale di giorno, colabrodo di notte, una guerra in sordina.

Quando la capanna in cui ti ritiri, e che ha un’aria quasi amichevole è alfine diventata silenziosa, le termiti cominciano a tormentare la costruzione, occupate come sono sempre ‘ste schifose, a papparti i montanti della capanna. Che arrivi un tornado in questo merletto traditore, e strade intere finiranno vaporizzate.

La città di Fort-Gono in cui m’ero incagliato appariva così, precaria capitale della Bragamance, tra mare e foresta, ma guarnita, ornata tuttavia di tutto quel ci vuole in fatto di banche, bordelli, caffè, terrazze e perfino d’un ufficio di reclutamento, per farne una piccola metropoli, senza dimenticare square Faidherbe e boulevard Bugeaud, per il passeggio, un insieme di fabbricati rutilanti in mezzo a scogliere rugose, farciti di larve e pesticciati da generazioni di guarnigioni e amministratori forsennati.

L’elemento militare, verso le cinque, ringhiava intorno agli aperitivi, liquori il cui prezzo, mentre arrivavo io, stava appunto per essere aumentato. Una delegazione di clienti stava andando a chiedere al Governatore una delibera per proibire alle osterie di fare i loro comodi con i prezzi correnti del bicchierino di pastis e di cassis. A sentire certi clienti abituali, la nostra colonizzazione diventava sempre più squallida per colpa del ghiaccio. L’introduzione del ghiaccio nelle colonie, è un fatto, era stato il segnale della devirilizzazione del colono. Ormai inchiodato dall’abitudine al suo aperitivo ghiacciato, doveva rinunciare, il colono, a dominare il clima con il suo solo stoicismo. I Faidherbe, gli Stanley, i Marchand, notiamolo di sfuggita, pensavano solo bene della birra, del vino e dell’acqua tiepida e melmosa che bevvero per anni senza lamentarsi. Tutto lì. Ecco come si perdono le colonie.

Ne imparai molte altre all’ombra dei palmizi che a contrasto prosperavano con la loro linfa provocante lungo quelle strade dalle fragili dimore. Solo la crudezza di quel verde incredibile impediva al luogo d’assomigliare in tutto a La Garenne-Bezons. Scesa la notte, l’adescamento indigeno raggiungeva il culmine tra piccoli nugoli di zanzare indigenti e cariche di febbre gialla. Un rinforzo di elementi sudanesi offriva al viandante tutto quel che di buono aveva sotto il perizoma. Per dei prezzi molto ragionevoli, ci si poteva fare una famiglia intera per un’ora o due. Mi sarebbe piaciuto bighellonare di sesso in sesso, ma fu giocoforza decidermi a cercare un posto dove m’avrebbero dato da ruscare.

Il Direttore della Compagnie Pordurière du Petit Congo cercava, mi garantì qualcuno, uno al primo impiego per gestire una delle sue fattorie della savana. Andai senza ulteriore indugio ad offrirgli i miei servigi incompetenti ma premurosi. Non fu un’accoglienza da fiaba quella che mi riservò il Direttore. Il maniaco - bisogna chiamarlo col suo nome - abitava non lontano dal Governo in un villino, un villino spazioso, montato su legno e pagliame. Ancora prima d’avermi guardato, mi pose delle domande alquanto brutali sul mio passato, poi un po’ tranquillizzato dalle mie risposte tutte ingenue, il disprezzo che aveva per me gli prese un giro abbastanza indulgente. Tuttavia decise che non era proprio il caso di farmi anche sedere.

“Dalle sue carte sembra che lei sappia un po’ di medicina” osservò lui.

Gli risposi che in effetti avevo cominciato un po’ di studi di quel tipo.

“Questo le servirà allora! fece lui. Vuole del whisky?”

Io non bevevo. “Vuol fumare?” Rifiutai di nuovo. Questa astinenza lo sorprese. Fece perfino una smorfia.

“Mi piacciono poco i dipendenti che non bevono, non fumano... Lei è mica pederasta per caso?... No? Tanto peggio!... Quei tipi lì ci rubano meno degli altri... Ecco quel che ho notato con l’esperienza... S’attaccano... Insomma, volle puntualizzare lui, è in generale che m’è sembrato di aver notato questa qualità dei pederasti, questo vantaggio... Lei magari ci proverà il contrario!...” E poi continuando: “Ha caldo, eh? Ci farà il callo! Bisognerà farselo d’altronde! E il viaggio?

- Spaventoso! gli risposi io.

- Eh be’, amico mio, lei non ha ancora visto niente, lei me ne racconterà di cose sul paese quando sarà stato un anno a Bikomimbo, là dove la mando per sostituire quell’altro cialtrone...”

La sua negra, accovacciata vicino al tavolo, si ravanava i piedi e se li puliva per bene con un pezzetto di legno.

“Vattene salsiccia! le sparò il padrone. Va’ a cercarmi il boy! E poi del ghiaccio anche!”

Il boy richiesto arrivò con gran lentezza. Allora il Direttore alzandosi seccato da una siesta, lo accolse il boy con un tremendo paio di schiaffi e due calci nel basso ventre, di quelli che suonano.

“‘Sta gente mi farà morire, ecco lì!” predisse il Direttore sospirando. Si lasciò ricadere nella poltrona ricoperta di tele gialle e spiegazzate.

“Guardi, mio caro, fece lui improvvisamente gentile e familiare e come affrancato per un attimo dalla brutalità che aveva commesso, mi passi un po’ il frustino e il chinino... sul tavolo... Dovrei mica arrabbiarmi così... è da idioti cedere al proprio temperamento...”

Dalla sua casa dominavamo il porto fluviale che luccicava in basso attraverso una polvere così densa, così compatta che si sentiva il suono di quella attività caotica più di quanto se ne potessero scorgere i dettagli. Delle file di negri, sulla riva, sfacchinavano a colpi di frusta, intenti a scaricare, stiva dopo stiva, navi mai vuote, rampicando su passerelle tremolanti e sconnesse, con il grosso cesto pieno sulla testa, in equilibrio, tra le ingiurie, come formiche verticali.

Andavano e venivano per filze irregolari attraverso un velo di vapore scarlatto. Tra quelle forme al lavoro, qualcuna portava in più un piccolo punto nero sul dorso, erano le madri, che si trascinavano anche loro i sacchi di palmisti col bambino a mo’di fardello supplementare. Mi chiedo se le formiche possono fare altrettanto.

“Nevvero, si direbbe che è sempre domenica qui!... riprese scherzoso il Direttore. È allegro! è chiaro! Le femmine sempre nude. Ha visto? E belle femmine, eh? Fa strano quando uno arriva da Parigi, no? E noialtri poi! Sempre in telato bianco! Come ai bagni di mare guardi! Siamo mica belli così? Dei comunicandi, ecco! Sempre festa qui, glielo dico io! Un autentico ferragosto! Ed è così fino al Sahara! Pensi lei!”

E poi smetteva di parlare, sospirava, grugniva, ripeteva ancora due, tre volte “merde!”, s’asciugava e riprendeva la conversazione.

“Là dove lei va per la Compagnia, è in piena foresta, è umido... è a dieci giorni di qui... Il mare prima... E poi il fiume... Un fiume tutto rosso vedrà... E dall’altra parte ci stanno gli spagnoli... Quello che lei va a sostituire alla fattoria, è un bel bastardo guardi... Tra noi... Glielo dico io... Non c’è modo che ci mandi i conti, quello stronzo là! Non c’è modo! Ho un bel mandargli solleciti e solleciti!... L’uomo non resta onesto a lungo quando è solo, andiamo! Vedrà!... Vedrà anche quello! è malato ecco che ci scrive... Mi piacerebbe proprio! Malato! Io anche, sono malato! Cosa vuol dire malato? Siamo tutti malati! Anche lei s’ammalerà e tra non molto per giunta! Non è una ragione quella! Che ci frega che sia malato!... La Compagnia prima di tutto! Arrivando sul posto faccia il suo inventario per prima cosa! Ci sono viveri per tre mesi alla fattoria e poi merce almeno per un anno... Le mancherà niente!... Non parta di notte soprattutto... Diffidare! I negri che ha lui, che manderà a prenderla a mare, la cacceranno forse in acqua! Li avrà educati bene! Sono dei lazzaroni come lui! Son sicuro! Gli deve aver detto due paroline ai negri sul suo conto!... Da queste parti si fa! Si prenda dunque anche il suo chinino, il suo, di lei, con lei, prima di partire... Lui è capacissimo di averci messo qualcosa nel suo!”

Il Direttore ne aveva abbastanza di darmi consigli, si alzava per congedarmi. Il tetto in lamiera sopra di noi, sembrava pesare duemila tonnellate almeno, tanto che ci premeva addosso tutto il calore, la lamiera. Facevamo tutt’e due la faccia di quelli che hanno tanto caldo. C’era da restarci all’istante. Aggiunse:

“Forse non è il caso che ci rivediamo prima che parta Bardamu! Tutto stanca qui! Insomma, andrò forse a sorvegliarla agli hangar comunque prima della sua partenza!... Le scriveremo quando sarà laggiù... C’è un corriere al mese... Parte di qui il corriere... Alé, buona fortuna!...”

E se ne sparì nell’ombra sua tra casco e giacca. Gli si vedevano distintamente le corde dei tendini del collo, dietro, arcuate come due dita contro la testa. S’è girato ancora una volta:

“Gli dica bene all’altra sagoma che ritorni qui in fretta!... Che ho due parole da dirgli!... Che non perda il suo tempo per strada! Ah! la carogna! Ci mancherebbe ancora che crepasse per strada!... Sarebbe peccato! Proprio peccato! Ah! quel bel fetente!”

Un negro al suo servizio mi precedeva con la lanterna grande per portarmi al posto in cui dovevo alloggiare aspettando la partenza per quel simpatico Bikomimbo promesso.

Andavamo lungo i viali dove tutti avevano l’aria d’essere scesi in passeggiata dopo il tramonto. La notte martellata di gong era dappertutto, tutta tagliuzzata di canti contratti e incoerenti come il singhiozzo, la grossa notte nera dei paesi caldi col suo cuore brutale a tam-tam che batte sempre troppo in fretta.

La mia giovane guida filava sciolto sui piedi nudi. Ci dovevano essere degli europei nei boschetti, li si sentiva di là, che stavano andando a zonzo, le loro voci di bianchi, riconoscibilissime, aggressive, sforzate. I pipistrelli non la smettevano di venire a volteggiare, di solcare gli sciami d’insetti che la nostra luce attirava attorno al nostro passare. Sotto ogni foglia degli alberi doveva nascondersi almeno un grillo a giudicare dal baccano assordante che facevano tutti insieme.

Fummo fermati all’incrocio di due strade, a mezzo d’un pendio, da un gruppo di fucilieri indigeni che discutevano attorno a una bara posata per terra, ricoperta di una larga e ondeggiante bandiera tricolore.

Era un morto dell’ospedale che non sapevano bene dove andare a mettere sotto terra. Gli ordini erano vaghi. Alcuni volevano interrarlo in uno dei campi da basso, altri insistevano per un recinto bello alto sul costone. Bisognava mettersi d’accordo. Anche il boy e io ci avevamo da dire la nostra su quella faccenda.

Alla fine si decisero, i portatori, per il cimitero in basso piuttosto che per quello in alto, per via della discesa. Incontrammo ancora sulla nostra strada tre giovani bianchi del tipo di quelli che frequentano la domenica le partite di rugby in Europa, spettatori appassionati, aggressivi e pallidini. Facevano parte, qui, impiegati come me, della Société Pordurière e mi indicarono molto gentilmente la via di questa casa non finita dove si trovava, temporaneo, il mio letto smontabile e portatile.

Ci andammo. Questa costruzione era assolutamente vuota, salvo qualche utensile di cucina e la mia specie di letto. Non appena mi allungai su questa cosa filiforme e tremolante, venti pipistrelli uscirono dagli angoli e si lanciarono in un va e vieni frusciante come un crepitare di ventagli, sopra il mio riposo spaurito.

Il negretto, la mia guida, tornò sui suoi passi per offrirmi i suoi servigi intimi, e poiché non ero in vena quella sera, mi offrì prontamente, deluso, di presentarmi la sorella. Ero curioso di sapere come poteva ritrovarla, lui, la sorella in una notte simile.

Il tam-tam del vicino villaggio, ti faceva saltare, tagliati fini, pezzettini di pazienza. Mille diligenti zanzare presero senza indugio possesso delle mie cosce, ma non osavo più rimettere piede a terra per gli scorpioni e i serpenti velenosi di cui supponevo fosse cominciata l’orrenda caccia. Avevano da scegliere i serpenti in fatto di topi, li sentivo sgranocchiare i topi, tutto quel che si poteva, li sentivo sul muro, sul pavimento, tremanti, per il soffitto.

Finalmente si levò la luna, e ci fu un po’ più di calma in piola. Si stava mica bene insomma nelle colonie.

Il mattino arrivò comunque, una caldaia. Una voglia forsennata di tornarmene in Europa m’invase corpo e anima. Mancavano solo i soldi per squagliarmela. Basta così. Non mi restava d’altra parte che una settimana da passare a Fort-Gono, prima d’andare a raggiungere la mia postazione a Bikomimbo, tanto piacevolmente descritta.

La più grande costruzione di Fort-Gono, dopo il Palazzo del Governatore, era l’Ospedale. Me lo ritrovavo ovunque andassi; non facevo cento metri in città senza imbattermi in uno dei suoi padiglioni, tra lontane zaffate di acido fenico. Mi avventuravo di quando in quando sino ai moli d’imbarco per veder lavorare sul posto i piccoli colleghi anemici che la Compagnie Pordurière si procurava in Francia a oratori interi. Una fretta bellicosa sembrava spingerli a procedere senza tregua al carico e scarico dei cargo uno dopo l’altro. “Costa carissimo un cargo in rada!” ti ripetevano loro sinceramente desolati, come se dei loro soldi si fosse trattato.

Inzigavano gli scaricatori neri con frenesia. Zelanti, lo erano, e senz’ombra di dubbio, vili e cattivi quanto zelanti. Impiegati d’oro, insomma, scelti bene, d’una incoscienza entusiasta da sognarsela. Dei figli come mia madre avrebbe adorato averne uno, entusiasti dei loro padroni, uno tutto per lei sola, uno di cui essere fieri davanti al mondo, un figlio assolutamente legittimo.

Erano venuti nell’Africa tropicale, quei begli abbozzi, per offrirgli la carne loro, ai padroni, il loro sangue, le loro vite, la loro gioventù, martiri per ventidue franchi al giorno (meno le ritenute), contenti, comunque contenti, fino all’ultimo globulo rosso concupito dalla decimilionesima zanzara.

La colonia te li fa gonfiare o smagrire gli impiegatini, ma te li conserva; ci sono solo due modi per crepare sotto il sole, il modo grasso e il modo magro. Non ce n’è un altro. Si può scegliere, ma dipende da come sei fatto, ingrassare o morire pelle e ossa.

Il Direttore là in alto sulla scogliera rossa, che si agitava, diabolico, con la sua negra, sotto il tetto in lamiera da diecimila chili di sole sarebbe sfuggito nemmeno lui alla scadenza. Era il genere magro. Si dibatteva soltanto. Aveva l’aria di dominarlo lui il clima. Apparenze! In realtà, si sgretolava ancor più di tutti gli altri.

Dicevano che ci avesse uno stupendo sistema truffaldino per far fortuna in due anni... Ma non avrebbe mai avuto il tempo di metterlo in pratica il sistema, anche se si fosse applicato a fregare la Compagnia giorno e notte. Ventidue direttori avevano già cercato prima di lui di far fortuna ciascuno col suo sistema come alla roulette Anche quello lo sapevano benissimo gli azionisti che lo spiavano da laggiù, da molto più in alto, da rue Moncey a Parigi, il Direttore, e li faceva ridere. Tutto quello era infantile. Sapevano benissimo gli azionisti, anche loro, i banditi più grandi che c’erano, che era sifilitico il loro Direttore e tremendamente agitato sotto i Tropici, e che si riempiva di chinino e bismuto da farsi scoppiare i timpani, e arsenico da farsi cadere tutte le gengive.

Nella contabilità generale della Compagnia, gli avevano contato i mesi al Direttore, come glieli contano ai maiali.

I piccoli colleghi non avevano scambi di idee tra di loro. Nient’altro che formule, fissate, cotte e stracotte come crostini di pensiero. “Non bisogna prendersela!”, se la contavano. “Li batteremo!...” “L’Agente generale è un cornuto!...” “Coi negri bisogna farci delle borse da tabacco!” ecc.

La sera, ci trovavamo per l’aperitivo, finite le ultime corvé, con un agente ausiliario dell’Amministrazione, il signor Tandernot, così si chiamava, originario di La Rochelle. Se si mischiava ai commercianti, Tandernot, era solo per farsi pagare l’aperitivo. Bisognava bere. Decadenza. Non aveva più nemmeno un ghello. Il posto che aveva era il più basso possibile nella gerarchia coloniale. Il suo ruolo consisteva nel dirigere la costruzione di strade in piena foresta. Gli indigeni ci lavoravano sotto i manganelli dei suoi miliziani, chiaro. Ma poiché nessun bianco passava mai per le strade che costruiva Tandernot e d’altra parte i neri, loro, preferivano alle nuove strade i sentieri della foresta, per farsi trovare il meno possibile a causa delle imposte, e poiché in fondo non portavano da nessuna parte le strade Tandernot dell’Amministrazione, ecco che ti sparivano sotto la vegetazione con gran rapidità, in verità da un mese all’altro, per dirla tutta.

“Me ne son perso l’anno scorso per 122 chilometri! ci ricordava volentieri lui, pioniere favoloso, a proposito delle sue strade. Se volete credermi!...”

Gli ho riconosciuto durante il mio soggiorno una sola millanteria, umile vanità, a Tandernot, quella d’essere lui, il solo europeo che si potesse prendere un raffreddore a Bragamance a 44 gradi all’ombra... Un’originalità che lo consolava di molte cose... “Mi sono ancora preso un raffreddore da elefante” annunciava lui con gran fierezza all’aperitivo. Ci son solo io che gli càpitano ‘ste cose! -

“‘Sto Tandernot, che tipo però!” esclamavano allora i componenti della nostra banda mingherlina. Era meglio di niente, una soddisfazione del genere. Qualunque cosa, in fatto di vanità, è meglio di niente.

Una delle altre distrazioni del gruppo dei salariati della Compagnie Pordurière consisteva nell’organizzare dei concorsi di febbre. Non era difficile ma ci si sfidava per giorni e giorni, allora passavi un bel po’ di tempo. Venuta la sera e la febbre con quella, quasi sempre quotidiana, ci si misurava. “To’, ho trentanove!... - Di’ un po’ non prendertela, ho quaranta come voglio!”

I risultati erano d’altronde assolutamente esatti e regolari. Alla luce dei fotofori, si faceva il confronto dei termometri. Il vincitore trionfava mettendosi a tremare. “Posso più pisciare tanto che sudo!” osservava regolarmente il più emaciato di tutti, un collega meschinetto, uno dell’Ariège, un campione di febbri venuto qui, mi confidò lui, per scappare dal seminario, dove “non aveva abbastanza libertà”. Ma il tempo passava e né uno né l’altro di ‘sti compagni mi sapeva dire a che tipo di modello esattamente apparteneva l’individuo che andavo a sostituire a Bikomimbo.

“È uno strano tipo!” m’avvertivano loro, ed era tutto.

“All’inizio in colonia, consigliava quello dell’Ariège dalle grandi febbri, devi far valere le tue qualità! è tutto uno o tutto l’altro! Sei tutto oro per il Direttore o tutta merda! Ed è sui due piedi, sta’ attento, che sei giudicato!”

Avevo una gran paura d’esser giudicato, per quel che mi riguardava, tra i “tutto merda” o peggio ancora.

‘Sti giovani negrieri amici miei, mi portarono in visita a un altro collega della Compagnie Pordurière che merita una menzione speciale in questo racconto. Gerente d’un banco nel centro del quartiere degli europei, marcio di fatica, cadente, bisunto, temeva ogni tipo di luce per via degli occhi, che due anni di cottura sotto le lamiere ondulate avevano resi spaventosamente secchi. Ci metteva, diceva lui, una buona mezz’ora al mattino ad aprirli e ancora un’altra mezz’ora prima di riuscire a vedere qualcosa. Ogni raggio luminoso lo feriva. Una enorme talpa con una bella rogna.

Soffocare e soffrire era diventato per lui come una seconda natura, rubare anche. L’avrebbero proprio sconvolto se l’avessero reso bemportante e scrupoloso in un colpo solo. Il suo odio per l’Agente generale Direttore mi sembra ancor oggi, dopo tanto tempo, una delle passioni più vive che mai mi sia capitato d’osservare in un uomo. Una rabbia sorprendente nei suoi confronti lo scuoteva attraverso il dolore e alla minima occasione s’inferociva da matti pur continuando d’altro canto a grattarsi dall’alto in basso.

Non la smetteva di grattare tutto intorno a sé, circolarmente per così dire, dall’estremità della colonna vertebrale all’attaccatura del collo. Si solcava epidermide e derma a strisce d’unghiate sanguinanti, senza smettere per questo di servire i clienti, numerosi, negri quasi sempre, più o meno nudi.

Con la mano libera, s’immergeva allora, indaffarato, in vari nascondigli, a destra e a sinistra in quel negozio di tenebre. Ne cavava fuori senza mai sbagliarsi, abile e pronto ch’era una meraviglia, esattamente quel che ci aveva bisogno il cliente, tabacco a fogli puzzolenti, fiammiferi umidi, scatole di sardine e melassa a grosse cucchiaiate, birra ad alta gradazione in bottigliette truccate che lasciava cadere bruscamente se lo ripigliava la frenesia d’andarsi a grattare, per esempio, nelle profondità dei pantaloni. Ci affondava allora l’intero braccio che spuntava presto dalla patta, sempre sbottonata per precauzione.

Questa malattia che gli rodeva la pelle, lui le dava un nome locale, “Corocoro”. “‘Sta carogna di Corocoro!... Quando penso che quello sporcaccione del Direttore non se l’è ancora cuccato il Corocoro, s’arrabbiava lui. Mi fa male alla pancia ancora più di prima!... Mica gli verrà a lui il Corocoro! è proprio troppo marcio! Mica è un uomo quel magnaccia lì, è un’infezione!... è una vera merda!...”

Di colpo tutta l’assemblea schiattava dal ridere e i negri-clienti anche per emulazione. Ci spaventava un po’ ‘sto socio. Lui comunque aveva un amico, era quell’esserino bolso e brizzolato che guidava un camion per la Compagnie Pordurière. Ci portava sempre del ghiaccio lui, rubato evidentemente qua e là, sulle barche all’attracco.

Trincammo alla sua salute sul banco in mezzo ai clienti neri che sbavavano dalla voglia. I clienti erano degli indigeni abbastanza svegli da osare avvicinarsi a noi bianchi, una selezione insomma. Gli altri negri, meno scafati, preferivano restare a distanza. L’istinto. Ma i più scafati, i più inquinati, diventavano commessi di negozio. In bottega, li riconoscevi i commessi negri perché cazziavano appassionatamente gli altri neri. Il collega del Corocoro comprava caucciù fresco, greggio, che gli portavano dalla savana, in sacchi, in balle umide.

Mentre eravamo là, mai stanchi di sentirlo, una famiglia di raccoglitori, timida, viene a piantarsi sulla soglia della sua porta. Il padre davanti agli altri, grinzoso, cinto da un piccolo perizoma arancione, il lungo machete appeso al braccio.

Non osava entrare il selvaggio. Eppure uno dei commessi lo incitava: “Vieni musulmano! Vieni a vedere qui! Mica li mangiamo i selvaggi!” ‘Sto linguaggio finì per deciderli. Penetrarono nella baita bollente in fondo alla quale strepitava il nostro uomo del Corocoro.

Il nero non aveva ancora, pareva, visto mai un negozio e bianchi forse nemmeno. Una delle sue donne lo seguiva, occhi bassi, portando in cima alla testa, in equilibrio, il grosso paniere pieno di caucciù greggio.

D’autorità i commessi del reclutamento s’impadronirono della cesta per pesare il contenuto sulla bilancia. Il selvaggio non capiva il trucco della bilancia più del resto. La donna non osava sempre alzare la testa. Gli altri negri della famiglia attendevano fuori, gli occhi bene spalancati. Li fecero entrare anche loro, bambini compresi e tutto, perché non si perdessero niente dello spettacolo.

Era la prima volta che venivano così tutti insieme dalla foresta, verso i bianchi in città. Avevano dovuto mettercisi da un bel po’ tutti quanti per raccogliere tutto quel caucciù lì. Allora per forza il risultato interessava a tutti. È lungo da far gocciolare il caucciù nelle piccole ciotole che s’attaccano ai tronchi degli alberi. Spesso, non riesci a riempirne un bicchierino in due mesi.

Fatta la pesa, il nostro grattatore trascinò il padre, sbalordito, dietro il banco e con una matita gli fece i conti e poi gli chiuse nell’incavo della mano qualche moneta in argento. E poi: “Vattene! gli ha detto a ‘sto modo. È quel che ti viene!...”

Tutti gli amichetti bianchi si torcevano dallo scherzo, tanto lui aveva condotto bene il suo business. Il negro restava piantato mogio mogio davanti al banco con la piccola mutanda arancione intorno al sesso.

“Te, non sapere cosa sono soldi? Selvaggio allora? l’ha apostrofato per svegliarlo uno dei commessi abituato a sbrogliarsela e ben allenato senza dubbio a queste transazioni perentorie. Tu non parlare fransé di’? Tu essere ancora gorilla eh?... Tu non parlare insomma eh? Kus Kus? Mabillia?[6] Tu coglione? Bushman! Coglione completo!”

Ma restava davanti a noi il selvaggio la mano rinchiusa sui suoi pezzi. Sarebbe scappato se avesse avuto il coraggio, ma non osava.

“Tu comperato allora cosa con tua grana? intervenne opportunamente il grattatore. Ho mai visto uno stronzo come lui a ogni modo da un sacco di tempo, volle specificare. Deve venire da lontano quello! Cos’è che vuoi? Dammi la tua grana!”

S’è ripreso i soldi d’autorità e al posto delle monete gli ha stropicciato nell’incavo della mano un grande fazzoletto verdissimo che era andato abilmente a prelevare in un anfratto del banco.

Il padre negro esitava ad andarsene col fazzoletto. Il grattatore fece allora anche di meglio. Conosceva davvero tutti i trucchi del commercio imperialista. Agitando davanti agli occhi di uno dei piccoli neri bambini quel gran pezzo di cotonina verde: “Lo trovi mica bello di’ gorbetto? Ne hai visti molti così di’ piccolina bella, dimmi carognetta, dimmi salsicciotto, di fazzoletti?” E glielo ha annodato al collo d’autorità, tanto per vestirla.

La famiglia selvaggia contemplava adesso il piccolo adorno di questa gran cosa di cotonina verde... C’era più niente da fare perché il fazzoletto era già entrato in famiglia. Non restava che accettare, prendere e andare.

Si misero dunque tutti a rinculare lentamente, superarono la porta, e nel momento in cui il padre si girava, da ultimo, per dire qualcosa, il commesso più scaltrito che aveva le scarpe lo stimolò, il padre, con un gran calcio in pieno culo.

Tutta la piccola tribù, raggruppata, silenziosa, dall’altro lato di avenue Faidherbe, sotto le magnolie, ci guardava finire l’aperitivo. Si sarebbe detto che cercavano di capire quel che gli era appena capitato.

Era l’uomo del Corocoro che offriva. Ci ha fatto persino andare il fonografo. Si trovava di tutto nel suo negozio. Quello mi ricordava i convogli di guerra.

 

Viaggio al termine della notte
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