Malgrado tutto, ho fatto bene a tornare a Rancy il giorno dopo, per via di Bébert che s’era ammalato proprio in quel momento. Il collega Folichon se n’era andato in vacanza, la zia ha esitato e poi m’ha chiesto comunque di curarglielo lo stesso il nipote, indubbiamente perché ero il meno caro tra gli altri medici che conosceva.
È capitato dopo Pasqua. Cominciava a far bello. I primi venti del sud passavano su Rancy, proprio quelli che sbattono tutta la fuliggine delle fabbriche sugli infissi delle finestre.
È durata settimane la malattia di Bébert. Ci andavo due volte al giorno a vederlo. La gente del quartiere m’aspettava davanti alla guardiola, senza averne l’aria e sulla soglia delle loro case, anche i vicini. Era come una distrazione per loro. Venivano di lontano per sapere, se andava male o meglio. Il sole che passa attraverso troppe cose lascia sulla strada sempre e soltanto una luce autunnale con rimpianti e nuvole.
Consigli, ne ho ricevuti molti a proposito di Bébert. Tutto il quartiere, in verità, s’interessava al suo caso. Parlavano pro e contro la mia intelligenza. Quando entravo nella portineria, cadeva un silenzio critico e alquanto ostile, che ti annientava di stupidità soprattutto. Era sempre gremita di comari la portineria, le intime, e quindi puzzava molto di sottovesti e di pipì di coniglio. Ciascuno tifava per il medico preferito, sempre il più acuto, il più preparato. Presentavo un solo vantaggio io, insomma, ma uno di quelli che ti perdonano difficilmente, non far pagare quasi niente, cosa che fa torto al malato e alla sua famiglia un medico gratuito, per povera che sia.
Bébert non delirava ancora, soltanto non aveva più nessuna voglia di muoversi. Si mise a perder peso ogni giorno. Un po’ di carne ingiallita e mutevole gli stava ancora in corpo tremolando dall’alto in basso ogni volta che il cuore gli batteva. Si sarebbe detto che gli era dappertutto il cuore sotto la pelle tanto che era diventato magro Bébert in più d’un mese di malattia. M’aveva rivolto dei sorrisi assennati quando venivo a vederlo. Superò così tranquillamente i 39 e poi i 40 e restò lì per giorni e poi per settimane, pensoso.
La zia di Bébert aveva finito per star zitta e lasciarci tranquilli. Aveva detto tutto quel che sapeva, allora si metteva a piagnucolare, sconcertata, negli angoli della portineria, uno dopo l’altro. Alla fine le era spuntato il dolore in fondo alle parole, lei non aveva l’aria di sapere cosa farne del dolore, lei cercava di soffiarselo dal naso, ma le tornava il dolore in gola e con le lacrime dietro, e ricominciava. Se ne metteva dappertutto e così riusciva ad essere ancora un po più sporca del solito e se ne stupiva: “Mio Dio! mio Dio!” faceva. Ed era tutto. Era arrivata allo stremo delle forze a furia di piangere e le braccia le ricadevano e se ne restava tutta sgomenta davanti a me.
Se ne ritornava ancora un bel po’ indietro nel suo dolore e poi si decideva a ripartire singhiozzando. Così, per settimane è durato questo andirivieni nel dolore. Bisognava aspettarselo che quella malattia sarebbe girata male. Una specie di tifoide maligna era, contro la quale tutto quello che tentavo veniva ad arenarsi, i bagni, il siero.. la dieta secca... i vaccini... Niente faceva effetto. Avevo un bell’agitarmi, era tutto invano. Bébert se ne andava, trascinato irresistibilmente, sorridendo. Se ne stava lassù in alto con la sua febbre come in equilibrio, io di sotto a pasticciare. Beninteso, le consigliarono un po’ dovunque e anche risolutamente alla zia di liquidarmi senza indugi e di far chiamare in fretta un altro medico, più esperto, più serio.
L’incidente della donna “con le responsabilità” era stato riportato in giro e commentato moltissimo. Ci si facevano i gargarismi nel quartiere.
Ma dal momento che gli altri medici consapevoli della natura del caso di Bébert si defilarono, alla fine io restai. Poiché era toccato in sorte a me, Bébert, non mi restava che continuare, pensavano giustamente i colleghi.
In fatto di risorse non mi restava altro che andare fino all’osteria per telefonare di quando in quando a qualche altro praticone a destra e a manca, lontano, che conoscevo più o meno bene a Parigi, negli ospedali, per domandargli cosa farebbero loro, quei volponi, quelle celebrità, davanti a una tifoide come quella che mi tormentava. Mi davano tutti dei buoni consigli, in risposta, dei buoni consigli inefficaci, ma provavo lo stesso piacere a sentire che se la prendevano a quel modo e perfino gratis per il piccolo sconosciuto che proteggevo. Uno finisce che si rallegra di poco, di quel pochissimo che la vita vuol lasciarci di consolante.
Mentre arzigogolavo a quel modo, la zia di Bébert s’accasciava a destra e a sinistra a casaccio su sedie e scale, usciva dalla prostrazione soltanto per mangiare. Ma mai per esempio che abbia saltato un solo pasto, bisogna dire. Non l’avrebbero d’altronde lasciata dimenticarsi. I vicini vegliavano su di lei. La ingozzavano tra i singhiozzi. “Questo tiene su!” le garantivano. E lei si mise perfino a ingrassare.
In fatto di odore di cavoli di Bruxelles, all’acme della malattia di Bébert, ci fu nella guardiola una vera orgia. Era la stagione e gliene arrivavano dappertutto di cavoli di Bruxelles, cotti a puntino, belli fumanti. “Questo mi dà forza, è vero!... ammetteva lei volentieri. E fa orinare molto!”.
Prima di notte, a causa delle scampanellate, per avere il sonno più leggero e sentire sùbito la prima chiamata, lei si riempiva di caffè, così gli inquilini non lo svegliavano Bébert suonando due o tre volte di seguito. Passando davanti alla casa la sera andavo a vedere se tutto non fosse finito alle volte. “Lei non crede che è con la camomilla al rhum che ha voluto bere dalla fruttivendola il giorno della corsa ciclistica che si è preso la malattia?” ipotizzava ad alta voce la zia. Quell’idea la perseguitava dall’inizio. Idiota.
“Camomilla!” mormorava debolmente Bébert, in un’eco perduta nella febbre. Cosa serviva farle cambiare idea? Eseguivo una volta di più le due o tre simulazioni professionali spicciole che si aspettavano da me e poi andavo a riprendere la notte, per niente contento, perché come mia madre, non riuscivo mai a sentirmi completamente innocente delle disgrazie che capitavano.
Verso il diciassettesimo giorno mi sono detto comunque che farei meglio andare a chiedere cosa ne pensavano all’Istituto Bioduret Joseph di un caso di tifoide di quel genere e chiedergli al tempo stesso un consiglio e fors’anche un vaccino che m’avrebbero raccomandato. Così, avrei fatto tutto, tentato tutto, anche le stranezze e se lui moriva Bébert, eh be, non ci sarebbe stato niente da rimproverarmi. Arrivai laggiù all’Istituto dall’altra parte di Parigi, dietro La Villette, un mattino verso le undici. Prima mi fecero passeggiare attraverso laboratori e laboratori alla ricerca d uno specialista. Non c’era ancora nessuno in quei laboratori, ne specialisti né pubblico, soltanto degli oggetti scompigliati in gran disordine, cadaverini d’animali sventrati, cicche di sigarette, becchi sbrecciati di gas, gabbie e barattoli con dentro dei topi che stavano soffocando, delle storte, vesciche sfuse, sgabelli sfondati, libri e polvere, ancora e sempre cicche, il loro odore e quello di latrina, dominanti. Poiché ero molto in anticipo, decisi d’andare a fare un giro, già che c’ero, fino alla tomba del grande scienziato Bioduret Joseph che si trovava nelle stesse cantine dell’Istituto tra gli ori e i marmi. Fantasia borghese-bizantina in grande stile. La questua la facevano uscendo dalla cripta, il guardiano brontolava per via di una moneta belga che gli avevano rifilato. È a causa di questo Bioduret che una quantità di giovani hanno optato da un mezzo secolo per la carriera scientifica. Ci capitarono più falliti lì che all’uscita dal Conservatorio. D’altra parte si finisce tutti per assomigliarsi dopo un certo numero di anni che non si è sfondato. Nelle fosse delle grandi sconfitte un diploma qualunque vale un Prix de Rome. Un problema di autobus che non si prendono esattamente alla stessa ora. Tutto lì.
Dovetti aspettare ancora a lungo nei giardini dell’Istituto, un piccolo misto di carcere preventivo e piazzetta alberata, giardini, fiori piantati accuratamente lungo quei muri abbelliti di malavoglia.
Comunque, alcuni inservienti della bassa forza finirono per arrivare per primi, parecchi di loro portavano già le provviste dal vicino mercato, in grandi sporte, e strascicavano le ciabatte. E poi, gli scienziati superarono a loro volta il cancello, ancora più sfaticati, più riluttanti dei loro dimessi subalterni, a piccoli gruppi mal rasati e parlottanti. Andavano a disperdersi lungo i corridoi lisciando la vernice dei muri. Ritorno di vecchi studenti ingrigiti, a grappoli, inciucchiti dalla routine meticolosa, da manipolazioni deprimenti e schifose, vincolati da stipendi di fame e per quanto è lunga la maturità in quelle piccole cucine per microbi, a riscaldare quell’interminabile macerare di avanzi di verdure, di cavie asfittiche e altri marciumi instabili.
In fin dei conti loro stessi altro non erano che dei vecchi roditori domestici, mostruosi, col cappotto. La gloria dei nostri giorni sorride quasi solo ai ricchi, scienziati o no. I plebei della Ricerca per mantenerli sotto pressione potevano contare solo sulla loro stessa paura di perdere il posto in quella pattumiera calda, illustre e divisa in compartimenti. Era al Titolo di scienziato ufficiale che tenevano essenzialmente. Titolo grazie al quale i farmacisti della città gli davano ancora fiducia per l’analisi, d’altronde miseramente retribuita, delle urine e degli sputi della clientela Gli sporchi guadagni casuali dello scienziato.
Come arrivava, il ricercatore metodico cominciava a chinarsi ritualmente per qualche minuto sulle budella biliose e imputridite del coniglio della settimana scorsa, quello che esponevano classicamente in pianta stabile, in un angolo della stanza, cumulo d’immondizia. Quando l’odore diventava davvero insostenibile, ne sacrificavano un altro di coniglio, ma non prima, per le economie alle quali il professor Jaunisset, gran segretario dell’Istituto, badava a quel tempo con pugno di ferro.
Certe putrefazioni animali subivano per quel fatto, per il risparmio, stravaganti degradazioni e prolungamenti. Tutto è questione d’abitudine. Certi inservienti di laboratorio ben allenati avrebbero benissimo fatto cucina in una bara in fermento tanto la putrefazione e i suoi fetori non li impressionavano più. Quei modesti ausiliari della grande ricerca scientifica arrivavano perfino al riguardo a superare in economie lo stesso professor Jaunisset, famoso com’era per la sua spilorceria, e lo battevano sul suo stesso terreno, approfittando del gas delle stufe per prepararsi dei ricchi bolliti personali e molti altri intingoli di lunga cottura, ancora più pericolosi.
Quando gli scienziati avevano finito di procedere all’esame distratto delle budella delle cavie e dei conigli di rito, erano serenamente arrivati al secondo atto della loro vita scientifica quotidiana, quello della sigaretta. Tentativo di neutralizzare i fetori ambientali e la noia con il fumo del tabacco. Di cicca in cicca, gli scienziati arrivavano ad ogni modo al termine della loro giornata, verso le cinque. Allora rimettevano lentamente le putrefazioni a intiepidire nella stufa traballante. Octave, l’inserviente, nascondeva i fagioli cotti in un giornale per meglio farli passare impunemente davanti alla custode. Finzioni. Bella pronta la cena che portava a Gargan. Lo scienziato, suo padrone, lasciava ancora cadere un qualcosina di scritto in un angolo del suo libretto di esperimenti, timidamente, come un dubbio, in vista d’una prossima comunicazione totalmente superflua, ma che giustificava la sua presenza all’Istituto e i magri vantaggi che comportava, faticaccia che comunque fra un po’ bisognava proprio decidersi ad affrontare davanti a qualche Accademia assolutamente imparziale e disinteressata.
Il vero scienziato ci mette vent’anni buoni in media a fare la grande scoperta, quella che consiste nel convincersi che il delirio degli uni non fa per niente la felicità degli altri e che ognuno quaggiù resta infastidito dalle manie del vicino.
Il delirio scientifico più razionale e più freddo degli altri è anche il meno tollerabile che ci sia. Ma quando si sono conquistati certi vantaggi per sopravvivere anche stentatamente in un certo posto, con l’aiuto di certi mezzucci, bisogna insistere o rassegnarsi a crepare come una cavia. Le abitudini si contraggono più in fretta del coraggio e soprattutto l’abitudine allo sbafo.
Cercavo dunque il mio Parapine attraverso l’Istituto, dal momento che ero venuto apposta da Rancy per trovarlo. Si trattava dunque di perseverare nella ricerca. Non era una cosa che andava da sé. Mi ci impegnai più volte, con lunghe esitazioni tra tanti corridoi e porte.
Non faceva quasi mai pranzo ‘sto vecchio scapolo e cena due o tre volte la settimana al massimo, ma allora quelle volte senza ritegno, con la frenesia degli studenti russi di cui conservava le abitudini stravaganti.
Gli attribuivano a questo Parapine, nel giro degli specialisti, il massimo grado di competenza. Tutto quello che riguardava le malattie tifoidi gli era familiare, sia animali, che umane. La sua notorietà era già vecchia di vent’anni, dall’epoca in cui certi autori tedeschi sostennero un bel giorno d’aver isolato dei vibrioni eberthiani vivi nelle secrezioni vaginali d’una bambina di diciotto mesi. Fu una cosa che fece un gran rumore nel campo della verità. Esultante, Parapine replicò in men che si dica a nome dell’Istituto nazionale e travolse di slancio quel fanfarone teutonico coltivando, lui, Parapine, lo stesso germe ma allo stato puro e nello sperma d’un invalido di settantadue anni Improvvisamente famoso, non gli restava altro fino alla morte che scribacchiare regolarmente qualche cartella illeggibile per i vari periodici specializzati per mantenersi in vista. Quel che d’altronde fece senza fatica da quel giorno d’audacia e di fortuna.
L’ambiente scientifico serio gli dava adesso credito e fiducia. Ciò che dispensava l’ambiente serio dal leggerlo.
Se si metteva a criticare, l’ambiente, non ci sarebbe stata più possibilità di progresso. Si sarebbe restati un anno su ogni pagina.
Quando arrivai davanti alla porta della sua cameretta, Serge Parapine era intento a sputare ai quattro angoli del laboratorio una saliva incessante, con una tal smorfia di disgusto che faceva pensare. Si rasava di quando in quando Parapine, ma conservava ugualmente sull’incavo delle gote abbastanza peli da averci l’aria d’un evaso. Batteva i denti senza tregua o almeno ne aveva l’aria, anche se non lasciava mai il cappotto, gran campionario di macchie e soprattutto di forfora che lui faceva sciamare in giro a piccoli colpi d’unghia, continuando a riportare il ciuffo, sempre oscillante, sul suo naso verde e rosa.
Durante il mio soggiorno nei laboratori della Facoltà, Parapine m’aveva dato qualche lezione di microscopio e dimostrato in varie occasioni una qualche autentica benevolenza. Speravo che da quei tempi già così lontani non m avesse dimenticato del tutto e che fosse disposto a fornirmi forse qualche consiglio terapeutico di primissimo ordine per il caso di Bébert che davvero mi ossessionava.
Decisamente, mi scoprivo più gusto a impedire a Bébert di morire che a un adulto. Non si è mai troppo scontenti che un adulto se ne vada, fa sempre una carogna di meno su a terra, uno si dice, mentre con un bambino, è comunque meno sicuro. C’è l’avvenire.
Parapine messo al corrente delle mie difficoltà non chiese di meglio che aiutarmi e orientare la mia rischiosa terapia, solo che lui aveva imparato, in vent’anni, tante di quelle cose e così diverse e così spesso contraddittorie sul conto della tifoide che adesso gli diventava proprio difficile, e come a dire impossibile, di formulare sul caso di quell’infezione così banale e sulle cose del suo trattamento il minimo parere netto o categorico.
“Anzitutto, ci crede lei, caro collega, lei, ai sieri? cominciò a chiedermi lui. Eh? che ne dice?... E i vaccini allora?... Insomma qual è la sua impressione?... Ci sono ingegni di prim’ordine che oggi non vogliono più sentir parlare di vaccini... è azzardato, collega, certo... Lo trovo anch’io... Ma insomma? Eh? In fin dei conti? Non trova che c’è del vero in questa negatività?... Che ne pensa lei?”
Le frasi procedevano nella sua bocca a salti tremendi fra valanghe di “erre” smisurate.
Mentre lui si dibatteva come un leone tra altre ipotesi furiose e disperate, Jaunisset, che all’epoca viveva ancora, l’illustre gran segretario, se ne venne a passare proprio sotto le nostre finestre meticoloso e accigliato.
A vederlo, Parapine impallidì ancor di più se possibile e cambiò nervosamente discorso, affrettandosi a manifestarmi sùbito tutto il disgusto che provocava in lui la sola vista quotidiana di quello Jaunisset d’altronde universalmente osannato. Nello spazio di un secondo diede a questo famoso Jaunisset del falsario, del maniaco della specie più temibile e gli attribuì ancora più delitti mostruosi e inediti e segreti di quelli che ci volevano per riempire un intero bagno penale per un secolo.
Non potevo più impedirgli, a Parapine, di fornirmi cento, mille dettagli astiosi sul pagliaccesco mestiere del ricercatore al quale egli era costretto a sottomettersi per mangiare, un astio più rigoroso, davvero più scientifico, di quello che emanano altri uomini posti in condizioni analoghe negli uffici o nei negozi.
Teneva quei discorsi a voce altissima e mi stupivo della sua franchezza. L’inserviente di laboratorio ci ascoltava. Aveva finito anche lui la sua piccola cucina e si agitava ancora pro forma tra stufe e provette, ma aveva talmente preso l’abitudine, l’inserviente, d’ascoltare Parapine nel pieno delle sue maledizioni, per così dire quotidiane, che adesso attribuiva a quei discorsi, per esorbitanti che fossero, un valore assolutamente accademico e insignificante. Certi piccoli esperimenti personali che lui perseguiva con gran serietà, l’inserviente, in una delle stufe del laboratorio gli sembravano, al contrario di quel che raccontava Parapine, prodigiosi e squisitamente istruttivi. I furori di Parapine non riuscivano affatto a distrarlo da quelli. Prima di andarsene, chiuse la porta della stufa sui suoi microbi personali, come su un tabernacolo, teneramente, scrupolosamente.
“Ha visto il mio inserviente, collega? L’ha visto questo vecchio scemo d’un inserviente? fece Parapine nei suoi confronti, appena quello uscì. Eh be’ ecco che son trent’anni, che a spazzare le mie schifezze non sente altro intorno a sé che parlare di scienza e in grande abbondanza e sincerità parola mia... tuttavia, invece di restarne disgustato, è lui e solo lui che ha finito per crederci proprio qui! A forza di pasticciare le mie colture le trova meravigliose! Ci si lecca i baffi... L’ultima delle mie pagliacciate lo inebria! Non succede d’altronde la stessa cosa in tutte le religioni? Non è forse da un pezzo che il prete pensa a tutt’altra cosa che al Buon Dio mentre il sacrista ci crede ancora... E sicuro come la morte? C’è proprio da vomitare!... Il mio idiota qui non spinge forse il ridicolo fino a copiare il grande Bioduret Joseph nei vestiti e la barbetta! L’ha notato?... Detto tra noi, in proposito, il grande Bioduret non era poi tanto diverso dal mio inserviente non fosse per la reputazione mondiale e l’intensità dei ghiribizzi... Con la mania di sciacquare perfettamente le bottiglie e di sorvegliare da incredibilmente vicino lo schiudersi delle tarme, m’è sempre sembrato spaventosamente volgare a me questo incommensurabile genio sperimentale... Gli tolga un po’ al grande Bioduret la sua prodigiosa piccineria casalinga e mi dica un po’ cosa resta da ammirare? Glielo domando! Una faccia arcigna da portinaio attaccabrighe e malevolo. E basta. In più, ne ha dato ampie prove all’Accademia del suo porco carattere nei vent’anni che ci passò, detestato da quasi tutti, ci ha litigato quasi con tutti, e neanche poco... Era un megalomane di talento... Tutto lì.”
Parapine s’apprestava a sua volta, lentamente, ad andarsene. Lo aiutai a passarsi una specie di sciarpa intorno al collo e sopra la sua forfora di sempre anche una sorta di mantiglia. Allora gli tornò l’idea che ero venuto a vederlo per qualcosa di molto preciso e urgente. “È vero, fece lui, a furia di annoiarla con le mie faccenduole, dimenticavo il suo malato! Mi perdoni collega e torniamo sùbito al nostro soggetto! Ma cosa potrei dirle io che lei non sappia già! Tra tante teorie traballanti, esperienze discutibili, la ragione comanderebbe in fondo di non scegliere! Faccia dunque per il meglio, su collega! Dal momento che deve agire, faccia per il meglio! Per me comunque, posso garantirle qui in confidenza, questa infezione tifica è riuscita a stufarmi oltre ogni limite! Anche oltre ogni immaginazione! Quando l’affrontai in gioventù la tifoide, non eravamo che pochi ricercatori ad affrontare questo campo e potevamo, insomma, contarci agevolmente, farci valere reciprocamente... Mentre adesso, cosa dirle? Ne arrivano dalla Lapponia caro mio! dal Perù! Tutti i giorni di più! Ne vengono da ogni parte di specialisti! Ne fabbricano in serie in Giappone! Ho visto il mondo diventare nel giro di pochi anni una vera babilonia di pubblicazioni universali e stravaganti sullo stesso argomento trito e ritrito. Mi rassegno per tenermi il posto e difenderlo certo bene o male, a presentare e ripresentare lo stesso articoluzzo da un congresso, da una rivista all’altra, gli faccio semplicemente subire alla fine d’ogni stagione qualche modifica sottile e anodina, del tutto marginale. Ma tuttavia mi creda, collega, la tifoide al giorno d’oggi, è fuori moda come il mandolino o il banjo. C’è da morirci glielo dico io! Ciascuno vuole suonarci un motivetto a modo suo. No, glielo voglio proprio confessare, non ho più la forza di affannarmi ulteriormente, quel che cerco per finire la mia esistenza, è un angolino di ricerche belle tranquille, che non mi procurino più né nemici, né allievi, ma quella mediocre notorietà senza gelosia di cui mi contento e di cui ho gran bisogno. Tra le altre stupidaggini, ho pensato allo studio dell’influenza comparata del riscaldamento centrale sulle emorroidi nei paesi del Nord e del Mezzogiorno. Che ne dice? Igiene? Diete? Sono faccende di moda! non è vero? Uno studio del genere condotto come si deve e tirato per le lunghe mi concilierà l’Accademia son sicuro, che ha una maggioranza di vegliardi che davanti a questi problemi di riscaldamento e di emorroidi non possono restare indifferenti. Guardi cosa hanno fatto per il cancro che te li tocca da vicino!... Chissà poi che mi possa insignire l’Accademia, di uno dei suoi premi per l’igiene? Che so? Diecimila franchi? Eh? Ecco di che pagarmi un viaggio a Venezia... Ci sono stato sa a Venezia in gioventù, mio giovane amico... Ma sì! Ci si fa la fame come altrove... Ma ci si respira un odore di morte lussuosa che dopo non è facile dimenticare...”
Una volta in strada, dovemmo tornare in fretta sui nostri passi per cercare le galosce che aveva dimenticato. Così facemmo tardi. E poi ci affrettammo verso un posto di cui lui non mi voleva parlare.
Per la lunga rue Vaugirard, disseminata di ortaggi e ingombri vari, arrivammo ai bordi d’una piazza circondata di castagni e di agenti di polizia. Ci intrufolammo nella saletta posteriore d’un piccolo caffè dove Parapine s’appollaiò dietro la vetrata, al riparo d’una tendina.
“Troppo tardi! fece lui stizzito. Son già uscite!
- Chi?
- Le allieve del Liceo... Ce ne sono di incantevoli sa.. Conosco le loro gambe a memoria. Non chiedo altro per i miei ultimi giorni... Andiamocene via! Sarà per un’altra volta...”
E ci lasciammo davvero da buoni amici.