I giovani hanno sempre tanta fretta d’andare a fare l’amore, va tanto per le spicce ‘sto brancare tutto quello che gli danno da credere per divertirsi, che non stanno a guardare per il sottile in fatto di sensazioni. Sono un po’ come quei viaggiatori che s’abboffano di tutto quel che trovano al buffet, tra due colpi di fischietto. Pur che ai giovani gli forniscano anche quelle due o tre strofette che servono a tirar su la conversazione per scopare, tanto basta, ed eccoli tutti felici. Sono contenti facile i giovani, godono come vogliono tanto per cominciare, proprio vero!
Tutta la giovinezza va a sfociare su una spiaggia bellissima, in riva all’acqua, dove tutte le donne hanno l’aria di essere finalmente libere, dove sono così belle da non aver nemmeno più bisogno della menzogna dei nostri sogni.
Allora certo, una volta che viene l’inverno, è dura rientrare, dirsi che è finita, ammetterlo. Si resterebbe lo stesso lì, nel freddo, nell’età, si spera ancora. Si può capire. Siamo ignobili. Non bisogna dar la colpa a nessuno. Godere ed essere felici anzitutto. È quel che penso. E poi quando cominciamo a nasconderci agli altri, è segno che abbiamo paura di divertirci con loro. È una malattia a sé. Bisognerebbe sapere perché ci ostiniamo a non guarire della solitudine. Un altro tipo che avevo incontrato durante la guerra, all’ospedale, un caporale, me ne aveva proprio parlato un po’ di quei sentimenti. Peccato che non l’ho mai più rivisto ‘sto ragazzo! “La terra è morta, mi aveva spiegato lui... Non siamo altro che dei vermi in piedi noialtri, dei vermi sul nostro schifo di grosso cadavere, a mangiargli tutto il tempo le trippe e i veleni che fa... Niente da fare con noialtri. Siamo tutti marci dalla nascita... Ecco tutto!”
Ciò non toglie che hanno dovuto trascinarlo una sera a tutta velocità dalla parte dei bastioni, il pensatore, è la prova che era ancora buono per farne un fucilato. C’erano perfino due caramba a trascinarlo, uno grande e uno piccolo. Me ne ricordo bene. Un anarchico hanno detto di lui al Consiglio di guerra.
Dopo anni quando ci ripensi càpita che vorremmo proprio acchiapparle le parole che ha detto certa gente e la gente stessa per chiedergli quello che hanno voluto dirci... Ma se ne sono proprio andati!... Non avevamo abbastanza istruzione per capirli... Vorremmo sapere così se hanno cambiato idea alle volte... Ma è davvero troppo tardi... è finita.... Nessuno sa più niente di loro. Bisogna allora continuare la strada da soli, nella notte. Abbiamo perso i veri compagni. Non gli abbiamo fatto la sola domanda giusta quella vera, quando c’era tempo. Al loro fianco non sapevamo. Uomo perduto. Siamo sempre in ritardo fin dal primo istante. Tutto questo sono rimpianti che non fanno bollire la pentola.
Alla fine fortuna che don Protiste almeno è venuto un bel mattino a dividere l’abbuono fra noi, quello che ci veniva dall’affare della grotta di madre Henrouille. Ci contavo neanche più sul prete. Era come se mi cadesse dal cielo... Millecinquecento franchi che toccavano a ognuno. Al tempo stesso, portava buone notizie di Robinson. Gli occhi, a quanto sembrava, andavano molto meglio. Non suppuravano nemmeno più dalle palpebre. E tutti laggiù mi reclamavano. Avevo promesso d’altra parte d’andare a trovarli. Lo stesso Protiste insisteva.
Da quel che mi raccontò ancora, ho capito che Robinson doveva sposarsi tra poco con la figlia della negoziante di ceri della chiesa a fianco della grotta, quella da cui dipendevano le mummie della vecchia Henrouille. Era quasi fatto ‘sto matrimonio.
Per forza tutto quello ci portò a parlare un po’ del decesso del signor Henrouille, ma senza insistere, e la conversazione tornò più piacevolmente sull’avvenire di Robinson e poi su quella stessa città di Tolosa, che non conoscevo per niente, e di cui Grappa m’aveva parlato una volta, e poi sul tipo di commercio che facevano laggiù tutti e due con la vecchia e infine sulla ragazza che stava per sposare Robinson. Un po’ su tutti gli argomenti insomma e a proposito di tutto, chiacchierammo... Millecinquecento franchi! Questo mi rendeva indulgente e per così dire ottimista. Trovavo tutti i progetti che mi riportava da Robinson assolutamente saggi, sensati e giudiziosi e adattissimi alle circostanze... ‘Sta cosa si sarebbe sistemata. Almeno credevo. E poi, ci mettemmo a discorrere sull’età col prete. Avevamo, lui e io, passato la trentina da un pezzo. S’allontanavano nel passato i nostri trent’anni su rive coriacee e a malapena rimpiante. Non valeva nemmeno la pena girarsi a guardarle le rive. Non avevamo perduto granché invecchiando. “Bisogna essere proprio meschini dopo tutto, concludevo io, per rimpiangere un anno piuttosto che un altro!... Possiamo invecchiare con entusiasmo noialtri, Reverendo, perfino con decisione! Era tanto divertente ieri? E l’anno prima?... Come lo trovava?... Rimpiangere cosa?... Glielo chiedo! La gioventù?... Non ce l’abbiamo avuta noialtri la gioventù!...
“È vero che ringiovaniscono piuttosto dentro man mano che vanno avanti i poveri, e verso la fine se hanno cercato di perdere per strada tutte le menzogne e la paura e l’ignobile voluttà d’obbedire che gli hanno dato alla nascita sono insomma meno spregevoli che all’inizio. Il resto di quel che esiste sulla terra non fa per loro! Non li riguarda! Il compito che hanno, l’unico, è svuotarsi della loro obbedienza, vomitarla. Se ci sono arrivati prima di crepare del tutto allora possono vantarsi di non aver vissuto per niente.”
Ero decisamente in vena... I mille e passa franchi mi titillavano l’estro, continuai: “La vera giovinezza, la sola, Reverendo, è amare tutti senza distinzione, questo solo è vero, questo solo è giovane e nuovo. Eh be’, lei ne conosce molti lei, Reverendo, di giovani che siano messi così?... Io non ne conosco affatto!... Dappertutto non vedo altro che delle nere e vecchie corbellerie che fermentano in corpi più o meno freschi, e più fermentano ‘ste schifezze e più i giovani si sconvolgono, e più si convincono allora d’essere straordinariamente giovani! Ma è niente vero, sono fregnacce... Sono soltanto giovani come possono esserlo dei foruncoli per il pus che gli fa male dentro e li gonfia.”
Lo imbarazzava Protiste che gli parlavo a ‘sto modo... Per non irritarlo oltre, cambiai discorso... Soprattutto perché era stato accomodante con me e perfino provvidenziale... è molto difficile trattenersi dal ritornare su un tema che ti tormenta quanto quello tormentava me. Sei oppresso dalle faccende della tua vita intera quando vivi solo. Ne esci degradato. Per sbarazzartene cerchi di rifilarne un po’ a tutti quelli che vengono a trovarti e questo li annoia. Essere soli è allenarsi a morire. “Bisognerà morire gli dico ancora io, più lussuosamente di un cane e ci metteremo mille minuti a crepare e ogni minuto sarà comunque nuovo e abbastanza carico d’angoscia da farci dimenticare mille volte tutto il piacere che avevamo potuto avere a far l’amore nei mille anni precedenti... La felicità in terra sarebbe morire con piacere, nel piacere... Il resto è niente di niente, è la paura che non osi confessare, è arte.”
Protiste a sentirmi divagare a quel modo, s’è pensato che di sicuro m’ero ammalato di nuovo. Forse aveva ragione lui e io avevo torto marcio in tutto. Nel mio ritiro, intento a cercare una punizione per l’egoismo universale, mi facevo delle vere seghe mentali, l’andavo a cercare fin nel nulla la punizione! Ci si diverte come si può quando le occasioni di uscire diventano rare, per via dei soldi che mancano, e ancora più rare le occasioni di uscire da se stessi e scopare.
Ammetto che non avevo nessun motivo di tormentarlo Protiste con la mia filosofia contraria alle sue convinzioni religiose, ma bisogna pur dire che aveva comunque in tutta la sua persona una piccola sporca inclinazione alla superiorità che dava sui nervi a parecchia gente. Dalle idee che lui aveva, tutti gli umani stavano in una specie di sala d’attesa dell’eternità sulla terra con dei numeri. Il suo numero di sicuro eccellente e per il Paradiso. Del resto se ne fotteva.
Convinzioni del genere, sono insopportabili. Per contro, quando lui mi offrì, la stessa sera, d’anticiparmi la somma che ci voleva per il viaggio a Tolosa, smisi completamente di importunarlo e contraddirlo. Lo spago di dover ritrovare Tania al Tarapout col suo fantasma mi fece accettare l’invito senza discutere oltre. Sempre una o due settimane di bella vita! mi dicevo io. Il diavolo possiede tutti i trucchi per tentarvi! Si finirà mai di conoscerli. Se si vivesse abbastanza a lungo non si saprebbe più dove andare per ricominciare con la felicità. Ne avrebbero messi dappertutto di aborti di felicità, a puzzare in ogni angolo della terra e non si potrebbe nemmen più respirare. Quelli che stanno nei musei, i veri aborti, c’è gente che sta male solo a vederli, pronta a vomitare. Anche i tentativi schifosi che facciamo noi per essere felici, c’è da ammalarsi tanto vanno a ramengo e molto prima di morire per davvero.
Non la finiremmo di consumarci se non li dimenticassimo. Senza contare la pena che ci siamo dati per arrivare dove siamo, per renderle eccitanti le nostre speranze, quelle degenerate delle nostre felicità, i nostri fervori e le nostre menzogne... Ne vuoi, eccole! E i nostri soldi allora? E ancora le belle maniere da metterci insieme, e l’eternità quanta se ne vuole... E le cose che ci siamo fatti giurare e hanno giurato, e che abbiamo creduto che gli altri non avessero mai detto né giurato, prima che ci riempissero lo spirito e la bocca, e profumi e carezze e mimiche, di tutto insomma, per finire che nascondiamo tutto quello fin che si può, per non parlarne più dalla vergogna e dalla paura che ci torni su come un vomito. Non è dunque l’accanimento che ci manca a noi, no, è piuttosto lo stare nella vera strada che porta alla morte tranquilla.
Andare a Tolosa era insomma anche una stupidaggine. A ripensarci lo sospettavo proprio. Non ho dunque avuto scuse. Ma a seguire Robinson a ‘sto modo, in mezzo alle avventure, avevo preso gusto agli affari loschi. Già a New York quando non potevo più dormire aveva cominciato a torturarmi il sapere se avrei potuto accompagnarlo più lontano ancora, e anche più in là, Robinson. Sprofondi, all’inizio ti spaventi nella notte, ma vuoi capire lo stesso e allora non lasci più l’abisso. Ma ci sono troppe cose da capire nello stesso tempo. La vita è davvero troppo corta. Uno non vorrebbe fare ingiustizie a nessuno. Uno ha degli scrupoli, esita a giudicare tutto in un colpo solo e ha soprattutto paura di dover morire mentre è li che esita, perché allora sarebbe venuto sulla terra proprio per niente. Il peggio del peggio.
Bisogna affrettarsi, non bisogna perdersela la propria morte. La malattia, la miseria che ti disperde le ore, gli anni, l’insonnia che ti imbratta di grigio giornate, settimane intere e il cancro che è già forse lì che ti sale, meticoloso e sanguinante dal retto.
Non avremo mai il tempo, stiamo a dirci! Senza contare la guerra sempre pronta anche lei, nella noia criminale degli uomini, a venir fuori dalla cantina dove si rinchiudono i poveri. Se ne uccidono abbastanza di poveri? Non è sicuro... Che domanda è? Bisognerebbe forse sgozzare tutti quelli che non capiscono? Che ne nascano altri, di nuovi poveri e sempre così fino a che ne arrivino di quelli che stanno allo scherzo, fino in fondo... Come si falciano i prati fino al momento in cui l’erba è veramente quella giusta, quella tenera.
Sbarcato a Tolosa, mi trovavo davanti alla stazione un po’ incerto. Una birretta al buffet ed eccomi comunque a passeggio per le strade. Che bello le città sconosciute! è il momento e il posto in cui puoi supporre che le persone che incontri sono tutte gentili. Tuttavia, passata una certa età a meno di solide ragioni familiari uno ha l’aria come Parapine di andare a caccia di ragazzine ai giardini pubblici, bisogna stare attenti. Meglio il pasticciere che sta appena prima di passare l’inferriata del giardino, il bel negozio dell’angolo leccato come la scenografia di un casino con gli uccellini che costellano gli specchi a grosse scanalature. Ci si sorprende a sbafare praline all’infinito, per il gioco dei riflessi. Soggiorno per serafini. Le commesse del negozia cinguettano furtive a proposito delle loro faccende di cuore del tipo:
“Allora, gli ho detto che poteva venire a prendermi domenica... Mia zia, che ha sentito, ha fatto tutta una storia per mio padre...
- Ma non è che si è risposato tuo padre? l’ha interrotta l’amichetta.
- Cosa importa che sia risposato?... Ha lo stesso il diritto di sapere con chi esce la figlia...”
Era anche l’opinione dell’altra ragazza del negozio. Da lì una controversia appassionata fra tutte le commesse. Nel mio angolo, per non disturbarle, avevo un bell’ingozzarmi senza interromperle, bignè alla crema e crostate, che finivano in cavalleria, nella speranza che loro riuscirebbero più in fretta a risolvere quei delicati problemi di precedenze familiari, quelle non ne uscivano. Non veniva fuor niente. La loro impotenza speculativa le obbligava a odiare senza alcuna chiarezza. Scoppiavano d’illogicità, vanità e ignoranza le signorine del negozio, e si stranivano soffiandosi mille ingiurie.
Restavo malgrado tutto affascinato dal loro sconforto meschino. Attaccai i babà. Non li contavo più i babà. Loro nemmeno. Speravo proprio di non dovermene andare prima che fossero arrivate a una conclusione... La passione le rendeva sorde e poi presto mute al mio fianco.
A secco di veleno, contratte, si trattenevano al riparo del banco delle paste, ciascuna d’esse invincibile, chiusa e risentita a ruminare di “metterla giù” ancora più dura, di tirar fuori alla prossima occasione e con maggior prontezza di stavolta le stupidaggini rabbiose e offensive che potevano conoscere sul conto della compagna. Occasione che d’altronde non sarebbe tardata, che loro avrebbero provocato... Cascami d argomenti all’assalto del nulla. Avevo finito per sedermi perché loro mi stordissero meglio ancora col rumore incessante delle parole, intenzioni di pensieri come in riva a un fiume quando le piccole onde di passioni incessanti non riescono mai ad organizzarsi...
Uno ascolta, aspetta, spera, qui, là, in treno, al caffè, per strada, in salotto, dalla portinaia, uno ascolta, aspetta che la cattiveria si organizzi, come in guerra, ma è solo un agitarsi e non accade nulla, mai, né da loro povere ragazze, né dagli altri. Nessuno viene ad aiutarci. Un enorme cicaleccio si distende grigio e monotono sopra la vita come un miraggio tremendamente scoraggiante. Entrarono due signore e il banale incanto della conversazione inconcludente che aleggiava tra me e le signorine ne fu incrinato. Le clienti furono oggetto dell’immediata sollecitudine dell’intero personale. Si precipitarono a esaudire i loro ordini e i loro minimi desideri. Qua e là, quelle si misero a scegliere, piluccarono pasticcini e torte da portar via. Al momento di pagare si sdilinquirono ancora in gentilezze e vollero assolutamente offrirsi l’un l’altra delle sfoglie da sgranocchiare “su due piedi”.
Una di loro declinò con mille moine, spiegando in confidenza con abbondanza di particolari, alle altre signore molto interessate, che il suo medico le vietava gli zuccheri d’ora in poi, e che era fantastico il suo medico e che aveva già fatto miracoli con le stitichezze in città e altrove e fra l’altro, la stava guarendo lei, da una ritenzione di cacca di cui soffriva da più di dieci anni, grazie a una dieta assolutamente speciale, grazie anche a una medicina fantastica che conosceva solo lui. Le signore non si rassegnarono ad essere battute tanto facilmente in fatto di costipazione. Loro ci soffrivano come nessun altro di costipazione. Si rivoltavano. Volevano delle prove. La dama contestata, aggiunse soltanto, che adesso lei faceva “delle scorregge andando di corpo, che erano dei veri fuochi d’artificio... Che per colpa delle nuove evacuazioni, tutte assai consistenti, molto resistenti, lei doveva raddoppiare le precauzioni... Certe volte erano così dure le nuove meravigliose evacuazioni, che lei provava un male tremendo al fondo schiena... Delle lacerazioni... Era costretta a mettersi della vaselina prima d’andare al gabinetto”. Indiscutibile.
Così uscirono convinte quelle clienti cicalanti, accompagnate fino alla porta della pasticceria “Aux Petits Oiseaux” da tutti i sorrisi del negozio.
Il giardino pubblico di fronte mi parve adatto a una piccola sosta di raccoglimento, il tempo di rimettermi a posto lo spirito prima di andare alla ricerca del mio amico Robinson.
Nei parchi di provincia le panchine restano quasi tutto il tempo vuote durante le mattine della settimana, ai bordi degli imponenti cespugli di canne e margherite. Vicino alle rocce con le conchiglie, su acque assolutamente immote, una barchetta di zinco, cerchiata di ceneri leggere, era fissata alla riva dalla sua corda muffa. Il battello navigava la domenica, stava annunciato sul cartello, con il prezzo del giro del lago: “Due franchi”.
Quanti anni? quanti studenti? quanti fantasmi?
In tutti gli angoli dei giardini pubblici ce n’è per così di cose dimenticate, mucchi di piccole bare fiorite d’ideali, boschetti di promesse e fazzoletti pieni di tutto. Non c’è niente di serio.
Comunque, bando alle fantasticherie! In cammino mi dissi io, alla ricerca di Robinson e della sua chiesa di Sainte-Eponime, e di quella grotta di cui gestiva le mummie con la vecchia. Ero venuto per vedere tutto quello, bisognava che mi decidessi...
Con una carrozza ci siamo allora cacciati in giravolte e trotterelli, nel cavo delle strade d’ombra della città vecchia, dove la luce resta pizzicata tra i tetti. Facevamo un gran baccano di ruote posteriori con ‘sto cavallo tutto zoccoli, tra un canaletto e un cavalcavia. Non ne hanno bruciate da un bel pezzo di città nel Midi. Mai sono state così vecchie. Le guerre non passano più di là.
Arrivammo davanti alla chiesa di Sainte-Eponime che suonava mezzogiorno. La grotta stava ancora un po’ più in là sotto un calvario. Mi indicarono l’ubicazione nel bel mezzo d un giardinetto tutto secco. Si entrava in questa cripta attraverso una specie di buco trincerato. Di lontano ho scorto la guardiana della grotta, una ragazza. A bruciapelo le chiesi notizie del mio amico Robinson. Era dietro a chiudere la porta, ‘sta ragazza. Ebbe un sorriso assai gentile nel rispondermi e le notizie me le diede sùbito, e buone.
In questa luce del sud, del posto dove stavamo, tutto diventava rosa intorno a noi, e le pietre tarlate salivano al cielo lungo la chiesa, come fossero pronte a fondersi nell’aria, finalmente, a loro volta.
Doveva essere sui vent’anni, l’amichetta di Robinson, le gambe sode e tese e un piccolo busto perfettamente aggraziato, una testa fine sopra, ben disegnata, precisa, gli occhi un po’ troppo neri e attenti forse, per i miei gusti. Per niente sognatrice come genere. Era lei che scriveva le lettere di Robinson, quelle che io ricevevo. Mi precedette col suo passo preciso verso la grotta, piedi, caviglie ben disegnate e giunture da brava goduriosa che dovevano inarcarsi con gran precisione al momento giusto. Mani corte dure, che prendono bene, mani di operaia ambiziosa. Un colpetto secco per girare la chiave. Il calore ci danzava intorno e tremava sopra il selciato. Abbiam parlato di questo e quello e poi una volta riaperta la porta, s’è decisa comunque a farmi visitare la grotta, malgrado l’ora di pranzo. Cominciava a tornarmi un po’ di spensieratezza. Ci immergemmo nella frescura crescente dietro la sua lanterna. Si stava proprio bene. Ho fatto finta di incespicare tra due gradini per aggrapparmi al suo braccio, ci abbiamo scherzato sopra e arrivati sulla terra battuta in basso, l’ho baciata qualche po’ sul collo. Lei sulle prime ha protestato, ma non troppo.
Al termine d’un breve momento sentimentale, mi sono attorcigliato al suo ventre come un autentico verme d’amore. Vizioso, ci bagnavamo e ribagnavamo le labbra per far conversare le anime. Con una mano risalivo lentamente lungo le sue cosce inarcate, è piacevole con la lanterna in terra perché si può guardare in pari tempo, i rilievi che si muovono lungo la gamba. È una posizione consigliabile. Ah! non bisogna perdere niente di quei momenti! Si sluma. Si è compensati bene. Che impulsi! Che buonumore improvviso! La conversazione è ripresa su un tono di nuova confidenza e semplicità. Eravamo amici. Sesso anzitutto! Avevamo risparmiato dieci anni.
“Si fa visitare spesso? chiesi io tutto ansimante e impacciato. Ma continuai sùbito: è ben sua madre vero che vende i ceri nella chiesa a fianco?... Don Protiste m’ha anche parlato di lei.
- Sostituisco solo la signora Henrouille durante la colazione... rispose lei. Il pomeriggio, lavoro nelle mode... Rue du Théâtre... è passato davanti al teatro arrivando?”
Mi rassicurò una volta di più su Robinson, andava proprio meglio, e perfino lo specialista degli occhi pensava che presto ci vedrebbe abbastanza da andare da solo per la strada. Ci aveva anche già provato. Tutto quello era buon segno. La vecchia Henrouille da parte sua si dichiarava contentissima della grotta. Faceva affari e risparmiava. Un solo inconveniente, nella casa in cui stavano le cimici impedivano a tutti di dormire, soprattutto le notti di brutto tempo. Allora bruciavano dello zolfo. Sembrava che Robinson parlasse spesso di me e anche bene. Arrivammo di palo in frasca alla storia e alle circostanze del matrimonio.
Sta di fatto che con tutto quello non avevo ancora chiesto il suo nome. Madelon si chiamava lei. Era nata durante la guerra. Il progetto matrimoniale, dopo tutto, mi sarebbe andato bene. Madelon, era un nome facile da ricordare. Certo che lo doveva sapere quel che faceva sposando Robinson... Insomma lui a dispetto dei miglioramenti sarebbe stato sempre un invalido... E ancora lei credeva che lui aveva solo gli occhi di scassato... Ma ci aveva i nervi malati e il morale, poi e il resto! Stavo quasi per dirglielo, per metterla in guardia... Le conversazioni sui matrimoni, io non ho mai saputo come indirizzarle, né come uscirne.
Per cambiar discorso, ho mostrato un grande interesse improvviso per le cose della grotta e visto che venivo da molto lontano per vederla la grotta, era il momento di occuparmene.
Con la lanternina, Madelon e me, allora li abbiamo fatti uscire dall’ombra, i cadaveri, uno per uno. Ce n’era di che dare a pensare ai turisti! Incollati al muro come dei fucilati erano ‘sti vecchi morti... Niente più pelle né ossa né vestiti avevano quelli... Solo un po’ di tutto questo insieme.. Tutti unti e bisunti e con dei buchi dappertutto... Il tempo che gli stava sulla pelle da tanti secoli non li mollava mai... Gli portava via ancora dei pezzi di faccia qua e là il tempo... Gli ingrandiva tutti i buchi e gli trovava ancora dei lunghi brandelli d’epidermide che la morte aveva dimenticato tra le cartilagini. Il ventre gli s’era del tutto svuotato, ma questo gli faceva adesso come una piccola nicchia d’ombra al posto dell’ombelico.
Madelon m’ha spiegato che in un cimitero di calce viva avevano aspettato più di cinquecento anni i morti per arrivare a quel punto lì. Non si sarebbe potuto dire che erano dei cadaveri. Il tempo dei cadaveri era proprio finito per loro. Erano arrivati ai confini della polvere, in tutta tranquillità.
Ce n’erano in quella grotta di grandi e piccoli, ventisei in tutto, che non domandavano di meglio che entrare nell’Eternità. Non li lasciavano ancora. Donne con dei berretti appollaiati in cima agli scheletri, un gobbo, un gigante e persino un bebè finito nel mucchio pure lui con una specie di bavagliolo di pizzo attorno al minuscolo collo rinsecchito, niente meno, e un pezzo di corredino.
Guadagnava un bel po’ di soldi la vecchia Henrouille con quegli avanzi dei secoli. Quando penso che lei l’avevo conosciuta lei quasi identica a quei fantasmi... Così siamo ripassati lentamente davanti a tutti quelli con Madelon. Una per una la loro specie di testa è venuta a zittirsi nel cerchio crudo della lampada. Non è affatto la notte che hanno in fondo alle orbite, è quasi ancora uno sguardo, ma più dolce, come ce l’hanno quelli che sanno. Quello che dà fastidio è piuttosto il loro odore di polvere, che ti si attacca alla punta del naso.
La vecchia Henrouille non si perdeva una visita con i turisti. Lei li faceva lavorare i morti come in un circo. Cento franchi al giorno le fruttavano nel pieno della bella stagione.
“Vero che hanno l’aria triste?” mi chiedeva Madelon. Era una domanda di rito.
La morte non le diceva niente a quella cocchina. Era nata durante la guerra, tempo di morte leggera. Io, lo sapevo bene come si muore. Ho imparato. Fa soffrire moltissimo. Si può raccontare ai turisti che quei morti sono contenti. Hanno niente da ridire. La vecchia Henrouille gli batteva perfino sul ventre quando gli restava abbastanza pergamena sopra e ‘sta cosa faceva “bum bum”. Ma non è nemmeno una prova che va tutto bene.
Finalmente, siamo tornati ai nostri affari con Madelon. Era dunque proprio vero che andava meglio Robinson. Non chiedevo di più. Lei sembrava tenerci al suo matrimonio, l’amichetta! Doveva annoiarsi forte a Tolosa. Erano rare le occasioni di trovare uno che aveva viaggiato tanto come Robinson. Ne sapeva lui di storie! Di vere e meno vere. Le aveva d’altra parte già parlato a lungo dell’America e dei Tropici. Era perfetto.
C’ero stato anch’io in America e ai Tropici. Ne sapevo anch’io di storie. Mi ripromettevo di raccontarne. È ben a forza di viaggiare insieme con Robinson che eravamo diventati amici. La lanterna si spegneva. L’abbiamo riaccesa dieci volte mentre davamo una sistemata a passato e avvenire. Mi tirava via le mani dai seni che aveva anche troppo sensibili.
Comunque poiché la vecchia Henrouille sarebbe tornata da un minuto all’altro da colazione, abbiamo dovuto tornare alla luce su per la piccola rampa rapida, fragile e scomoda come una scala a pioli. Me ne sono accorto.