Sarà difficile togliermi dalla testa che se ‘sta cosa mi ha ripreso non è stato proprio a causa di Robinson. In un primo tempo non ci ho fatto gran caso ai malesseri. Continuavo a trascinarmi alla meno peggio, da un malato all’altro, ma ero diventato ancora più inquieto di prima, sempre di più, come a New York, e ho ricominciato a dormire ancor peggio del solito.

Incontrarlo di nuovo, Robinson, m’aveva dunque dato un colpo e come una specie di malattia che mi riprendeva.

Col suo muso tutto imbrattato di pena, era come mi riportasse un brutto sogno, di cui non riuscivo a liberarmi già da troppi anni. Perdevo colpi.

Era venuto a ricascare lì, davanti a me. Non l’avrei più finita. Sicuro che mi aveva cercato da queste parti. Non cercavo mica di rivederlo io, di certo... Tornerebbe per di più a colpo sicuro e mi costringerebbe a pensare di nuovo ai suoi affari. Tutto adesso comunque mi faceva ripensare a com’era fatto male. Le stesse persone che guardavo dalla finestra e avevano l’aria di niente, a camminare a quel modo per la strada, mi ci facevano pensare, a chiacchierare all’angolo delle porte, a sfregarsi gli uni contro gli altri. Lo sapevo, io, quel che cercava, quel che nascondeva con la sua aria di niente la gente. È uccidere e uccidersi che voleva, non in un colpo solo di sicuro, ma a poco a poco come Robinson con tutto quel che trovava, vecchi affanni, nuove miserie, odii ancora senza nome quando non è la guerra nuda e cruda e tutto càpita ancora più in fretta del solito.

Non osavo nemmeno uscire per paura di incontrarlo.

Bisognava che mi cercassero due o tre volte di sèguito perché mi decidessi a rispondere alla chiamata dei malati Allora la maggior parte delle volte quando arrivavo erano già andati a cercarne un altro. Era il casino nella mia testa proprio come nella vita. In quella rue Saint-Vincent dove ero andato una sola volta mi hanno fatto chiamare da quelli del terzo piano interno 12. Sono venuti perfino a cercarmi con una vettura. L’ho riconosciuto sùbito il nonno, bisbigliava, si puliva a lungo i piedi sul mio zerbino. Un essere furtivo, grigio e ricurvo, era per il nipotino che voleva che mi sbrigassi.

Mi ricordavo bene anche della figlia, che lui aveva, un altro bel tocco, già appassita, ma solida e silenziosa, che era tornata per abortire, a più riprese dai suoi. Le rimproveravano niente a quella. Avrebbero solo voluto che finisse con lo sposarsi in fin dei conti, soprattutto perché aveva già un bambino di due anni a balia dai nonni.

S’ammalava questo bambino per un sì e per un no, e quando era ammalato, il nonno, la nonna, la madre piangevano insieme, senza freno, e soprattutto perché non aveva un padre legittimo. È in quei momenti che si è più colpiti dalle situazioni irregolari nelle famiglie. Erano convinti i nonni senza confessarselo affatto, che i figli naturali sono più fragili e più spesso malati degli altri.

Insomma, il padre, quello almeno che veniva ritenuto tale, se ne era proprio andato per sempre. Gli avevano talmente parlato di matrimonio a quest’uomo, che da ultimo s’era seccato. Doveva essere lontano adesso, se scappava ancora. Nessuno aveva capito niente di quell’abbandono, e meno che mai la stessa figlia, perché a lui piaceva tanto scoparsela.

Dunque, da quando se l’era filata l’infedele loro contemplavano tutti e tre il bambino piagnucolando e basta. Lei s’era data a quell’uomo “corpo e anima” come diceva lei. Quello doveva capitare e secondo lei bastava a spiegare tutto. Il piccolo le era uscito dal corpo in un sol colpo e l’aveva lasciata tutta raggrinzita attorno ai fianchi. Lo spirito s’accontenta di frasi, il corpo non è la stessa cosa, è più difficile lui, gli ci vogliono i muscoli. È qualcosa di sempre vero un corpo, è per questo che è quasi sempre triste e disgustoso da guardare. Ne ho viste poche, è anche vero, di maternità che si portano via tanta giovinezza in un colpo solo. Non le restavano più per così dire che dei sentimenti a quella madre e un’anima. Nessuno ne voleva più sapere.

Prima di quella nascita clandestina la famiglia viveva nel quartiere delle “Filles-du-Calvaire” e da molti anni. Erano venuti tutti a esiliarsi a Rancy, non per divertimento, ma per nascondersi, farsi dimenticare, sparire in gruppo.

Non appena diventò impossibile nascondere quella gravidanza ai vicini, s’erano decisi a lasciare il loro quartiere a Parigi per evitare commenti. Trasloco d’onore.

A Rancy, la considerazione dei vicini non era indispensabile, e poi per cominciare nessuno li conosceva a Rancy, e poi l’amministrazione del paese praticava per l’appunto una politica nefanda, anarchica per dirla tutta, di cui si parlava in tutta la Francia, una politica da teppisti. In quell’ambiente di reietti la considerazione altrui non contava niente.

La famiglia s’era punita spontaneamente, aveva rotto tutte le relazioni con parenti e amici d’un tempo. Come dramma, era stato un dramma totale. Più niente da perdere si dicevano loro. Declassati. Quando uno tiene a screditarsi va in mezzo al popolo.

Non avanzavano rimproveri contro nessuno. Cercavano soltanto di scoprire a botta di piccole ribellioni impotenti quel che il Destino aveva potuto bersi il giorno che gli aveva fatto una porcheria del genere, a loro.

A vivere a Rancy la figlia provava una sola consolazione, ma molto importante, quella di poter parlare liberamente ormai a tutti delle sue “nuove responsabilità”. Abbandonandola, l’amante aveva risvegliato una pulsione profonda del suo carattere infatuato d’eroismo e originalità. Non appena fu sicura per il resto dei suoi giorni di non avere un destino assolutamente identico a quello della maggior parte delle donne della sua classe e del suo ambiente e di poter sempre attaccarsi al romanzo della sua vita disastrata sin dai primi amori, lei si adattò alla grande sventura che la colpiva, con voluttà, e i guasti del destino furono insomma drammaticamente accettati. Recitava la parte della ragazza-madre.

Nella loro sala da pranzo quando entrammo, suo padre e io, un illuminazione al risparmio non superava le mezze tinte, si scorgevano volti che erano altrettante macchie pallide, carni rifritte di parole che restavano a trascinarsi nella penombra, greve di quell’odore di pepe vecchio che esala da tutti i mobili di famiglia.

Sul tavolo, al centro, sul dorso, il bambino tra i suoi pannolini, si lasciava palpare. Tastai per cominciare la parete del ventre, con molta precauzione, gradualmente, poi dall’ombelico fino allo scroto, e poi lo auscultai, ancora con molta gravità.

Il suo cuore batteva col ritmo di un gattino, secco e matto. E poi, ne ebbe abbastanza il bambino delle mie dita palpeggianti e delle mie manovre e si mise a urlare come si può fare a quell’età, in modo incredibile. Era troppo. Dal ritorno di Robinson, mi trovavo diventato parecchio strano di testa e di corpo e le grida di quel piccolo innocente mi fecero un’impressione spaventosa. Che grida, Dio mio! Che grida! Non ne potevo più.

Anche un’altra idea dovette senza dubbio determinare il mio sciocco comportamento. Esasperato, non riuscii a trattenermi dal fargli sapere a voce alta quel che provavo in fatto di rancore e schifo da troppo tempo, tra me e me.

“Eh! risposi io al piccolo urlatore, non aver fretta, cretinetti, ne avrai sempre di tempo per sbraitare! Te ne resterà, non avere paura, asinello! Rispàrmiati! Ti resteranno abbastanza disgrazie da farti cascare gli occhi e anche la testa e anche il resto se non fai attenzione!

- Cos’è che dice Dottore!” saltò su la nonna. Ripetei semplicemente: “Gliene resterà ancora!

- Cosa? Che gli resta? domandava lei, inorridita...

- Bisogna capire! le risposi io. Bisogna capire! Vi spiegano troppe cose! Ecco la disgrazia! Cercate dunque di capire! Fate un sforzo!”

- Gliene resta cosa?... Cosa dice quello?” E di colpo s’interrogavano, tutti e tre, e la figlia “con le responsabilità” faceva un occhio strano, e si mise a lanciare anche lei delle grida acutissime. Ecco che s’era trovata una stupenda occasione di crisi. Mica se la lasciava scappare. Era la guerra! E io ti prendo a calci! E soffocamenti! e strabuzzamenti spaventosi! Stavo fresco! Bisognava vedere! “È pazzo, mamma, si strozzava lei dagli urli. Il Dottore è diventato pazzo! Portagli via il bambino, mamma!” Lei metteva in salvo il bambino.

Non saprò mai perché, ma lei si è messa, tanto che era eccitata, a prendere l’accento basco. “Dice cose spaventose! Mamma!... è un demente!...”

Mi strapparono il bambino dalle mani come avrebbero potuto strapparlo dalle fiamme. Il nonno che prima era così timido adesso staccò dal muro un grosso termometro di mogano, enorme, come una clava... E m’accompagnava a distanza, verso la porta, mi tirò addosso il battente, con violenza, con un gran calcio.

Beninteso, ne approfittarono per non pagarmi la visita.

 

Quando mi sono ritrovato per strada, non ero molto contento di quello che mi era capitato. Non tanto dal punto di vista della mia reputazione che non poteva essere peggiore nel quartiere di quella che già m’avevano fatto e senza che per quello avessi avuto bisogno di darmi da fare, ma sempre a causa di Robinson di cui avevo sperato di liberarmi con uno scatto risoluto, trovare nello scandalo volontario la risolutezza di non vederlo più quello là, facendomi una specie di scena brutale da me stesso.

Così, avevo calcolato: Proverò a titolo sperimentale tutto lo scandalo che si può arrivare a fare in una volta sola! Soltanto che non si finisce mai con lo scandalo e l’emozione, non si sa mai fin dove sarai costretto a andare con la franchezza... Quel che gli uomini ti nascondono ancora... Quello che ti mostreranno ancora... Se vivi abbastanza a lungo... Se vai abbastanza in là nelle loro castronerie... Bisognava ricominciare da capo.

Avevo voglia d’andarmi a nascondere, anch’io, per il momento. Dapprima per tornare ho preso per l’Impasse Gibert e poi per rue des Valentines. È un bel tocco di strada. Hai tempo di cambiare idea. Andavo verso le luci. A Place Transitoire, ho incontrato Péridon, quello che accende i lampioni. Abbiamo scambiato qualche frase insignificante. “Va al cinema Dottore?” ha chiesto lui. Mi diede l’idea. La trovai buona.

Con l’autobus fai più in fretta che col metrò. Dopo quell’intermezzo vergognoso sarei proprio andato via da Rancy davvero e per sempre, se avessi potuto.

Man mano che resti in un posto, le cose e le persone si sbracano, marciscono e si mettono a puzzare appositamente per te.

 

Viaggio al termine della notte
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