Branledore mio vicino d’ospedale, il sergente, godeva, l’ho raccontato, d’una persistente popolarità tra le infermiere, era ricoperto di fasciature e grondava ottimismo. Tutti all’ospedale lo invidiavano e copiavano i suoi modi. Diventati presentabili e non del tutto moralmente spregevoli, ci mettemmo a nostra volta a ricevere le visite di gente ben piazzata in società e nelle alte sfere dell’amministrazione parigina. Lo si ripeteva nei salotti, che il centro neuro-medico del professor Bestombes diventava un autentico luogo di intenso fervore patriottico, una famiglia, per così dire. Avemmo in quei giorni non solo dei vescovi, ma una duchessa italiana, un grande fabbricante di munizioni, e presto la stessa Opéra e gli attori del Théâtre-Français. Venivano ad ammirarci sul posto. Una bellona stipendiata dalla Comédie che recitava versi come non se ne vede una, tornò perfino al mio capezzale per declamarmene di particolarmente eroici. La sua rossa e perversa capigliatura (la pelle andava insieme) era percorsa in quei momenti da onde sorprendenti che mi arrivavano dritte come delle vibrazioni fino al perineo. Dal momento che lei mi faceva domande, la divina, sulle mie imprese belliche, le diedi tanti di quei dettagli e di così eccitati e strazianti, che lei non mi lasciava quasi più con gli occhi. Profondamente commossa, chiese il permesso di far mettere in versi, da un poeta suo ammiratore, i passaggi più intensi dei miei racconti. Acconsentii immediatamente. Il professor Bestombes, messo al corrente del progetto, si dichiarò particolarmente favorevole. Diede anche un’intervista per l’occasione, quel giorno stesso, agli inviati di un grande Illustré National che ci fotografò tutti insieme sulla scalinata dell’ospedale al fianco della bella socia. “È il più alto dovere dei poeti, nelle ore tragiche che attraversiamo, dichiarò il professor Bestombes, che non ne perdeva una, di ridarci il gusto dell’Epopea! Non son più tempi di piccoli maneggi meschini! Abbasso le letterature rinsecchite! Un’anima nuova si schiude per noi nel cuore del grande e nobile frastuono delle battaglie! Lo slancio del grande rinnovamento patriottico lo esige ormai! Le alte cime promesse alla nostra Gloria!... Noi vogliamo il soffio grandioso del poema epico!... Per parte mia, dichiaro encomiabile che in questo ospedale da me diretto, venga a formarsi sotto i nostri occhi, indimenticabile, una sublime collaborazione creativa tra il Poeta e uno dei nostri eroi!”
Branledore, mio compagno di camera, che con l’immaginazione nella circostanza era un po’ in ritardo sulla mia e non compariva nemmeno nella foto, ne concepì una gelosia viva e tenace. Si mise da quel momento a contendermi selvaggiamente la palma dell’eroismo. Inventava storie nuove, si superava, non si poteva più fermarlo, le sue gesta avevano qualcosa di delirante.
M’era difficile trovarne di più forti, aggiungere ancora qualcosa a quegli eccessi, e tuttavia nessuno all’ospedale si rassegnava, si faceva a chi tra noi, travolto dall’emulazione, inventava a più non posso altre “belle pagine guerresche” in cui avere una parte sublime. Vivevamo un grande romanzo epico, nei panni di personaggi fantastici, in fondo ai quali, risibili, tremavamo con tutto il contenuto dei nostri corpi e delle nostre anime. Ne avremmo passate di cotte e di crude se ci avessero colto sul fatto. La guerra era matura.
Il nostro grande Bestombes continuava a ricever le visite di numerosi notabili stranieri, signori scienziati, neutralisti, scettici e curiosi. Gli Ispettori generali del Ministero passavano con tanto di sciabola, pimpanti attraverso le nostre sale, gli prolungava la vita militare a quelli, come fossero ringiovaniti cioè, e gonfi di nuove indennità. Così non erano affatto avari di distinzioni e d’elogi gli Ispettori. Tutto andava bene. Bestombes e i suoi ottimi feriti divennero la bandiera del servizio sanitario.
La mia bella protettrice del “Français” tornò presto di persona a trovarmi ancora una volta, in particolare mentre il suo poeta di famiglia rifiniva, in rima, il racconto delle mie imprese. Questo giovane, lo incontrai finalmente, pallido, ansioso, da qualche parte all’angolo di un corridoio. La fragilità delle fibre del suo cuore, mi confidò lui, a quanto dicevano gli stessi medici, aveva del miracoloso. Così lo trattenevano, quei medici preoccupati degli esseri fragili, lontano dall’esercito. In compenso, aveva intrapreso, il piccolo bardo, a rischio della sua stessa salute e di tutte le sue supreme forze spirituali, di forgiare, per noi, il “Bronzo Morale della nostra Vittoria”. Un bell’arnese di conseguenza, in versi indimenticabili, beninteso, come tutto il resto.
Non avevo da lamentarmi, visto che lui mi aveva scelto fra tanti altri incontestabili prodi per essere il suo eroe! D’altra parte, ammettiamolo, fui servito in modo principesco. Fu magnifico a dire il vero. L’evento della recita ebbe luogo nella stessa Comédie-Française, nel corso di un pomeriggio detto poetico. Tutto l’ospedale fu invitato. Quando sulla scena apparve la mia rossa, fremente recitante, il gesto grandioso, modellata quant’era lunga la sua taglia nelle pieghe divenute alfine voluttuose del tricolore, fu come un segnale per l’intera sala, in piedi, smaniosa, una di quelle ovazioni che non finiscono più. Ero preparato certo, ma la mia meraviglia fu nondimeno reale, non riuscii a nascondere lo stupore ai miei vicini sentendola vibrare, esortare in tal modo, quella superba amica, gemere perfino per rendere più palpabile tutta la drammaticità racchiusa nell’episodio che avevo inventato a suo consumo. Il suo poeta mi dava davvero dei punti in fatto di immaginazione, aveva ancora mostruosamente esaltato la mia, con l’aiuto di rime fiammeggianti, d’aggettivi formidabili che ricadevano solennemente in un silenzio ammirato e assoluto. Arrivata all’acme di un periodo, il più caloroso del pezzo, volgendosi al palco dove eravamo piazzati noi, Branledore e me, e qualche altro ferito, l’artista, tese le braccia splendide, sembrò offrirsi al più eroico di noi. Il poeta illustrava piamente in quel punto un fantastico tratto d’ardimento che m’ero attribuito. Non so più bene di cosa si trattava, ma non era mica robetta. Per fortuna, nulla è incredibile in materia di eroismo. Il pubblico capì il senso dell’offerta artistica e l’intera sala rivolta allora verso di noi, urlante di gioia, esaltata, impaziente, reclamava l’eroe.
Branledore si accaparrava tutto il davanti del palco e ci superava tutti, perché poteva nasconderci quasi completamente dietro i suoi bendaggi. Lo faceva apposta il maiale.
Ma due dei nostri compagni, arrampicati, quelli, sulle sedie dietro di lui, si fecero comunque ammirare dalla folla sopra le sue spalle e la sua testa. Li applaudirono da far venir giù tutto.
“Ma, è di me che si tratta! avrei dovuto gridare in quel momento. Me solo!” Lo conoscevo il mio Branledore, ci saremmo messi a litigare davanti a tutti e forse perfino picchiati. Alla fine fu lui che riportò la palma. S’impose. Trionfante, restò solo, come desiderava, a raccogliere l’immane omaggio. Non ci restava altro, a noi vinti, che precipitarci verso le quinte, quel che facemmo e là fummo felicemente festeggiati di bel nuovo. Consolazione. Tuttavia la nostra attrice-ispiratrice non era affatto sola nel palco. Al suo fianco stava il poeta, il suo poeta, il nostro poeta. Li amava anche lui quanto lei, i giovani soldati, dolcemente. Loro me lo fecero capire artisticamente. Un affare. Me lo ripeterono, ma non tenni in alcun conto le cortesi indicazioni. Tanto peggio per me, perché le cose si sarebbero potute sistemare benissimo. Erano molto influenti. Mi sono congedato bruscamente, scioccamente offeso. Ero giovane.
Riassumiamo: gli aviatori m’avevano portato via Lola, gli argentini mi avevano preso Musyne e questo invertito armonioso, alla fine, m’aveva appena soffiato la mia splendida attrice. Smarrito, lasciai la Comédie mentre spegnevano le ultime luci nei corridoi e raggiunsi da solo, nella notte, senza tram, il nostro ospedale, trappola in fondo a fanghi tenaci e periferie indomabili.