Al servizio della Compagnie Pordurière del Piccolo Togo sgobbava dunque insieme a me, come ho detto, negli hangar e sulle piantagioni, un gran numero di negri e di poveri bianchi del mio genere. Gli indigeni, loro, funzionano insomma solo a colpi di bastone, conservano questa dignità, mentre i bianchi, perfezionati dall’educazione pubblica, fanno da soli.
Il bastone finisce per stancare chi lo maneggia, mentre la speranza di diventare potenti e ricchi di cui i bianchi s’ingozzano, quella non costa niente, assolutamente niente. Che non ci vengano più a decantare l’Egitto e i Tiranni tartari! Quei dilettanti antiquati erano solo dei pataccari pretenziosi nell’arte suprema di far spremere alla bestia verticale il massimo sforzo sul lavoro. Non sapevano, quei primitivi, chiamare “Signore” lo schiavo, e farlo votare di quando in quando, né pagargli il giornale, né soprattutto portarselo in guerra, per fargli sbollire le passioni. Un cristiano di venti secoli, ne sapevo qualcosa, non si trattiene più quando davanti a lui viene a sfilare un reggimento. La cosa gli fa sprizzare troppe idee.
Così, per quel che mi riguardava mi decisi a sorvegliarmi ormai da molto vicino, e poi a imparare a stare scrupolosamente zitto, a nascondere la voglia di svignarmela, ad arricchire infine se possibile e malgrado tutto, al servizio della Compagnie Pordurière. Nemmeno un minuto da perdere.
Lungo i nostri hangar, al pelo delle rive melmose, soggiornavano, sornione e stabili, delle bande di coccodrilli in agguato. Genere metallico, loro, si godevano ‘sto calore delirante, i negri anche, sembrava.
In pieno mezzogiorno, ti chiedevi com’era possibile tutta l’agitazione di quelle masse in travaglio lungo le banchine, ‘sto casino di negri sovreccitati e gracchianti.
Solo per addestrarmi a numerare i sacchi, prima di prendere per la savana, ho dovuto allenarmi ad asfissiare progressivamente nell’hangar centrale della compagnia con gli altri impiegati, fra due grandi bilance, incastrate in mezzo a una folla alcalina di negri a brandelli, pustolosi e canterini. Ciascuno si trascinava dietro la sua nuvoletta di polvere, che scuoteva in cadenza. I colpi sordi dei preposti allo scarico cadevano su quei dorsi splendidi senza risvegliare proteste o lamenti. Una passività da allocchi. Il dolore sopportato tranquillamente, come l’aria torrida di quella fornace polverosa.
Il Direttore passava di quando in quando, sempre aggressivo, per assicurarsi che facessi autentici progressi nella tecnica della numerazione e dei pesi truccati.
Si apriva un varco fino alle bilance, attraverso i marosi indigeni, a grandi colpi di randello. “Bardamu, mi disse lui un mattino, che era in vena, ‘sti negri lì, che ci sono in giro, lei li vede no?... Eh ben, quando sono arrivato al Piccolo Togo io, ecco che saranno trent’anni, vivevano solo di caccia, di pesca e di massacri tribali, ‘sti bastardi! Piccolo fattore quando ho cominciato, li ho visti proprio come adesso le parlo, tornarsene dopo la vittoria al villaggio, carichi di più di cento ceste di carne umana bella al sangue da farsene una strippata colossale!... Lei mi capisce Bardamu!... Bella al sangue! Quella dei nemici! Lei parla di cenone!... Adesso, basta vittorie! Siamo qui noi! Basta tribù! Basta ciccì e coccò! Basta bla-bla! Manodopera e noccioline! Sotto a sgobbare! Niente caccia! Niente fucili! Noccioline e caucciù!... Per pagare le imposte! Le imposte per farci arrivare altro caucciù e altre noccioline! La vita Bardamu! Noccioline! Noccioline e caucciù!... E poi, guardi, ecco appunto il generale Tombat che viene dalle nostre parti.”
Quello in effetti se ne veniva proprio incontro a noi, vecchio, cadente sotto l’enorme carico del sole.
Non era più per niente militare, il generale, borghese però non ancora. Confidente della Pordurière, fungeva da collegamento fra l’Amministrazione e il Commercio. Collegamento indispensabile benché i due elementi fossero sempre in concorrenza e in stato d’ostilità permanente. Ma il generale Tombat manovrava in modo ammirevole. Era uscito, fra l’altro, da un recente brutto affare di vendita di beni nemici, che in alto luogo giudicavano irrisolvibile.
All’inizio della guerra, gli avevano un po’ rintronato le orecchie al generale Tombat, appena quel che ci voleva per una disponibilità onorevole, dopo Charleroi. Lui l’aveva sùbito messa al servizio di una “Francia più grande”, la disponibilità. Ma comunque Verdun che era passata da un pezzo lo tormentava ancora. Si tramestava dei radiotelegrammi nel cavo delle mani. “Resisterà la nostra buffa![7] Resiste!...” Faceva così caldo nell’hangar e capitava così lontano da noi, la Francia, che uno dispensava il generale Tombat da fare ulteriori pronostici. Alla fine abbiamo comunque ripetuto in coro per gentilezza, il Direttore e noi: “Sono meravigliosi!” e Tombat a quelle parole ci lasciò. Il Direttore pochi istanti più tardi, si aprì un altro sentiero violento fra i torsi premuti e sparì a sua volta nella polvere pepata.
Occhi ardenti e di bragia, l’intensità di possedere la compagnia che consumava quest’uomo, mi spaventava un po’. Facevo fatica ad abituarmi alla sua sola presenza. Non avrei mai creduto esistesse al mondo una carcassa umana capace di quella massima tensione di cupidigia. Ci parlava quasi mai ad alta voce, solo a parole velate, si sarebbe detto che viveva, pensava solo per cospirare, spiare, tradire con passione. Garantivano che rubava, truccava, faceva sparire da solo più che tutti gli altri impiegati messi assieme, mica pelandroni comunque, vi assicuro. Ma non faccio fatica a crederlo.
Fin che durò il mio soggiorno a Fort-Gono, avevo ancora un po’ di tempo libero per passeggiare in quella specie di città, dove ho trovato davvero un solo posto definitivamente auspicabile: l’Ospedale.
Quando arrivi da qualche parte, ti vengono delle ambizioni. Io avevo la vocazione della malattia, solo della malattia A ciascuno il suo. M’aggiravo attorno a quei padiglioni ospedalieri e promettenti, dolenti, appartati, risparmiati, e non potevo lasciarli senza rimpianto, loro e le loro imprese antisettiche. Tappeti erbosi incorniciavano il soggiorno, allietati da uccellini furtivi e da ramarri inquieti e multicolori. Genere “Paradiso Terrestre”.
Quanto ai negri uno si abitua in fretta a loro, alla loro ilare lentezza, ai loro gesti troppo ampi, ai ventri debordanti delle loro donne. La negreria puzza di miseria, di vanità interminabili, di rassegnazione immonda; insomma proprio come i poveri da noi ma con più bambini ancora e meno biancheria sporca e meno vino rosso intorno.
Quando smettevo d’inalare l’ospedale, di annusarlo a quel modo, profondamente, me ne andavo, seguendo la folla indigena, a piantarmi un momento davanti a quella specie di pagoda eretta vicino al Forte da un oste per il sollazzo dei mattocchi erotici della colonia.
I bianchi facoltosi di Fort-Gono ci comparivano la notte, Si intestardivano al gioco, sbevazzando in abbondanza e in più sbadigliando e ruttando a piacere. Per duecento franchi ti potevi fare la bella padrona. I pantaloni gli creavano dei problemi mai visti, ai mattocchi, per riuscire a grattarsi, le bretelle non finivano di cascargli giù
La notte, un popolo intero usciva dalle costruzioni della città indigena e s’ammassava davanti alla Pagoda, mai stanco di vedere e sentire i bianchi dimenarsi intorno al piano meccanico, con le corde muffe, che tribolava su valzer stonati. La padrona prendeva ascoltando la musica un’arietta da aver voglia di ballare, per un trasporto di contentezza.
Sono riuscito dopo molti giorni di tentativi ad avere furtivamente, con lei, qualche incontro. Le sue cose, mi confidò lei, non le duravano meno di tre settimane. Effetto dei Tropici. I suoi clienti in più la sfiancavano. Non che facessero spesso l’amore, ma poiché gli aperitivi alla Pagoda erano piuttosto cari, loro cercavano di averne per i loro soldi, in pari tempo, e le strizzavano moltissimo le chiappe, prima di andarsene. È soprattutto da lì che le veniva la stanchezza.
‘Sta commerciante conosceva tutte le storie della colonia e gli amori che si intrecciavano, disperati, tra gli ufficiali tormentati dalle febbri e le rare spose dei funzionari, che fondevano anche loro nel mestruo interminabile, intristite sotto le verande nell’amplesso di poltrone indefinitamente inclinate.
I viali, gli uffici, i negozi di Fort-Gono grondavano desideri mutilati. Fare tutto quello che si fa in Europa sembrava essere l’ossessione maggiore, la soddisfazione, la smorfia a ogni costo di quei forsennati, a dispetto della temperatura spaventosa e dell’infrollamento crescente, insormontabile.
La vegetazione enfiata dei giardini schiattava, aggressiva, selvatica, tra le palizzate, fogliame squillante che formava lattughe deliranti attorno ad ogni casa, raggrinzito bianco d’uovo solidificato in cui un europeo giallastro poteva maturare la sua marcescenza. Così c’erano tante insalatiere complete quanti funzionari, lungo l’avenue Fachoda, la più animata, la meglio frequentata di Fort-Gono.
Ritrovavo ogni sera il mio alloggio, senza dubbio destinato a non esser mai finito, dove quello scheletrino di letto mi veniva preparato dal boy perverso. Mi tendeva agguati il boy, era lascivo come un gatto, voleva entrare nella mia famiglia. Tuttavia, ero ossessionato da altre e più vive preoccupazioni io, e soprattutto dal progetto di rifugiarmi ancora per qualche tempo all’ospedale, solo armistizio che avevo a tiro in quel torrido carnevale.
In pace come in guerra non ero affatto disponibile alle futilità, proprio per niente. E anche altre offerte che comunque arrivarono, da un cuoco del padrone, sincere e freschissime quanto a oscenità, mi sembrarono incolori
Ho effettuato un’ultima volta il giro dei compagnucci della Pordurière per tentare d’informarmi sul conto di quell’impiegato infedele, quello che dovevo andare, costi quel che costi, secondo gli ordini, a sostituire nella foresta. Chiacchiere vane.
Il caffè Faidherbe, al fondo dell’avenue Fachoda frusciava verso l’ora del tramonto di cento maldicenze, pettegolezzi e calunnie, non m’apportava nemmeno quello niente di sostanziale. Soltanto impressioni. C’era da sfasciare intere pattumiere di impressioni in quella penombra incrostata di lampioni multicolori. Scuotendo i merletti delle palme giganti, il vento calava nuvole di zanzare nei piattini. Il Governatore, nei discorsi che correvano, se ne prendeva per il suo alto rango. La sua implacabile ribalderia costituiva la base della grande conversazione degli aperitivi in cui il fegato coloniale, così repellente, cerca un sollievo prima di cena.
Tutte le automobili di Fort-Gono, una decina in totale, passavano e ripassavano in quel momento davanti alla terrazza. Non sembravano andar mai troppo lontano le automobili. Place Faidherbe aveva l’atmosfera forte, lo scenario esasperato, la sovrabbondanza vegetale e verbale di una sottoprefettura del Midi in una crisi di follia. Le dieci auto lasciavano place Faidherbe solo per tornarci cinque minuti più tardi, effettuando ancora una volta lo stesso periplo con il loro carico di scolorite anemie europee, avviluppate di tela bigia, esseri fragili e precari come sorbetti pericolanti.
Passavano così per settimane e anni gli uni davanti agli altri, i coloni, fino al momento in cui non si guardavano nemmeno più, tanto erano stanchi di detestarsi. Qualche ufficiale portava a passeggio le famiglie, attente ai saluti militari e borghesi, la sposa insaccata nei suoi pannolini igienici speciali, i bambini, specie penosa di grossi bacherozzi europei, quanto a loro si scioglievano per la calura, in diarrea permanente.
Non basta avere un chepì per comandare, bisogna anche avere delle truppe. Sotto il clima di Fort-Gono, i funzionari europei fondevano peggio del burro. Un battaglione ci diventava un pezzo di zucchero nel caffè, più lo guardavi, meno ne vedevi. La maggior parte del contingente era sempre all’ospedale a smaltire la malaria, farcito di parassiti per ogni pelo e piega, squadriglie intere a rotolarsi tra sigarette e mosche, a masturbarsi sulle lenzuola marce, sparando infiniti imbrogli, tra una febbre e un accesso, scrupolosamente provocato e coltivato. Ne passavano di cotte e di crude ‘sti poveri lazzaroni, pleiade vergognosa, nella dolce penombra delle persiane verdi, raffermati presto caduti nel dimenticatoio, mescolati - l’ospedale era misto - agli impiegatucci dei negozi, gli uni e gli altri che fuggivano la savana e i padroni, braccati.
Nell’ebetudine delle lunghe sieste malariche fa così caldo che anche le mosche si riposano. All’estremità delle loro braccia esangui e pelose pendono dei romanzi sporchi, dai due lati dei letti, sempre sparigliati i romanzi, la metà dei fogli che mancano per colpa dei dissenterici che non hanno mai abbastanza carta e poi anche delle suore di cattivo umore che censurano a loro modo le opere in cui non c’è rispetto per il Buon Dio. Le piattole della truppa le tormentano come tutti, le suore. Loro per grattarsi meglio vanno ad alzarsi il vestito dietro i paraventi dove il morto del mattino non riesce a raffreddarsi tanto che ci ha caldo anche lui.
Per lugubre che fosse l’ospedale, era comunque il posto della colonia, il solo dove uno si poteva sentire un po’ dimenticato, al riparo degli uomini di fuori, dei capi. Vacanze dalla schiavitù, l’essenziale insomma, e sola felicità alla mia portata.
Mi informavo sulle condizioni per entrare, sulle abitudini dei medici, le loro manie. La mia partenza per la foresta, non la vedevo che con disperazione e rivolta e già mi ripromettevo di prendermi al più presto tutte le febbri che sarebbero passate a tiro, per tornare a Fort-Gono così malato e scarno, così repellente, che avrebbero proprio dovuto decidersi non soltanto a prendermi, ma a rimpatriarmi Trucchi ne conoscevo già e di ottimi per ammalarmi, ne ho imparato ancora di nuovi, speciali per le colonie.
Mi preparavo a vincere mille difficoltà, perché né i Direttori della Compagnie Pordurière né i capi dei battaglioni si stancano facilmente di braccare le loro magre prede bloccate a giocare a scopone tra i letti pisciati
M’avrebbero trovato deciso a marcire di tutto quel che ci voleva. Per di più, in generale, ci soggiornavi poco tempo all’ospedale, a meno di finire la carriera coloniale una buona volta per tutte. I più astuti, i più furfanti, quelli con più carattere tra i febbricitanti, riuscivano persino a infilarsi in qualche trasporto per la metropoli. Dolce miracolo. La maggior parte dei malati ospedalizzati, confessavano a fine trucco, vinti dai regolamenti, e tornavano in savana per alleggerirsi dei loro ultimi chili. Se il chinino li mollava proprio ai vermi mentre erano in regime ospedaliero il cappellano gli chiudeva semplicemente gli occhi verso le sei del pomeriggio, e quattro senegalesi di servizio imballavano quei resti esangui verso il recinto in argilla rossa vicino alla chiesa di Fort-Gono, così calda quella sotto le lamiere ondulate che non ci potevi entrare due volte di sèguito, più tropicale dei Tropici. Uno avrebbe dovuto per restare in piedi, nella chiesa, ansimare come un cane.
Così se ne vanno gli uomini che proprio non riescono a fare tutto quel che si vuole da loro: farfalla in gioventù e bacherozzo alla fine.
Cercavo ancora di ottenere qua e là, qualche dettaglio, informazioni per farmi un’idea. Quel che mi avevo dipinto di Bikomimbo il Direttore mi sembrava comunque incredibile. Insomma si trattava di una fattoria sperimentale, d’un tentativo di penetrazione lontano dalla costa, a dieci giorni almeno, isolata in mezzo agli indigeni, nella loro foresta, che mi rappresentavano, quella, come una immensa riserva pullulante di bestie e malattie.
Mi chiedevo se non erano semplicemente gelosi del mio destino, gli altri, i compagnucci della Pordurière che passavano alternativamente dalla prostrazione all’aggressività. La loro stupidità (non avevano che quella) dipendeva dalla qualità d’alcool che avevano appena ingerito, dalle lettere che ricevevano, dalla quantità più o meno grande di speranza che avevano perso durante la giornata. In generale, più deperivano, più gonfiavano il petto. Fossero stati fantasmi (come Ortolan in guerra), avrebbero avuto la faccia come il culo.
L’aperitivo ci durava tre ore buone. Si parlava sempre del Governatore, su cui ruotavano tutte le conversazioni, e poi di come rubare oggetti possibili e impossibili e alla fine di sesso: i tre colori della bandiera coloniale. I funzionari presenti accusavano senza ambagi i militari di crogiolarsi in concussione e abuso di potere, ma i militari gliela rendevano per bene. I commercianti quanto a loro consideravano tutti questi titolari di prebende come altrettanti ipocriti impostori e predoni. Quanto al Governatore, la notizia del suo richiamo in patria circolava ogni mattina da dieci anni buoni e tuttavia il telegramma così interessante di quella disgrazia non arrivava mai, e questo a dispetto delle due lettere anonime, almeno, che s’involavano ogni settimana, da sempre, all’indirizzo del Ministro, caricando sul conto del tiranno locale mille precisissime salve di nefandezze.
I negri hanno una bella fortuna loro con quella pelle a buccia di cipolla, il bianco lui s’avvelena, tramezzato come si ritrova tra il suo sugo acido e la camicia in cellular.[8] Pure, sventurato chi lo avvicina. Ero addestrato dopo l’Amiral-Bragueton.
Nello spazio di qualche giorno ne imparai delle belle sul conto del mio Direttore! Sul suo passato pieno di mascalzonate più della prigione di un porto di guerra. Ci si scopriva di tutto nel suo passato e anche, suppongo, degli stupendi errori giudiziari. Vero che la sua testa era contro di lui, innegabile, angosciosa faccia d’assassino, o piuttosto, per non accusare nessuno, d’uomo imprudente, con una fretta tremenda di realizzarsi, il che fa lo stesso.
All’ora della siesta, passando, potevi scorgere accasciata nell’ombra dei villini del boulevard Faidherbe, qualche bianca qua e là, moglie di ufficiali, di coloni, che il clima scollava ancor più degli uomini, le vocine graziosamente esitanti, i sorrisi estremamente indulgenti, il trucco spalmato sul pallore come delle agonizzanti contente. Mostravano meno coraggio e compostezza, le borghesi trapiantate, della padrona della Pagoda che doveva contare solo su se stessa. La Compagnie Pordurière da parte sua ne consumava molti di impiegatini bianchi del mio tipo, ne perdeva a dozzine ogni stagione di questi sottouomini, nelle fattorie forestiere, vicino alle paludi. Erano i pionieri.
Ogni mattina, l’Esercito e il Commercio venivano a piangere i loro contingenti fin nello stesso ufficio dell’ospedale. Non passava giorno che un capitano non minacciasse e non facesse risuonare fulmini e saette sul Gerente per farsi dare sùbito indietro i suoi tre sergenti malarici giocatori di scopone e i due caporali sifilitici, quadri che proprio gli mancavano per organizzare una compagnia. Se gli rispondevano che erano morti i suoi imboscati allora smetteva di rompergli le palle agli amministratori, e se ne ritornava, lui, a bere un po’ di più alla Pagoda
Avevi appena il tempo di vederli sparire gli uomini, i giorni e le cose in quella verzura, quel clima, il caldo e le zanzare. Tutto ci finiva, era schifoso, a pezzi, a frasi, a membra, a rimpianti, a globuli, si perdevano al sole, fondevano nel torrente di luce e colori, e il gusto e il tempo insieme, tutto ci finiva. Non c’era che angoscia scintillante nell’aria.
Finalmente, il piccolo cargo sul quale dovevo bordeggiare lungo la costa, fino alla prossimità della mia postazione, ormeggiò in vista di Fort-Gono. Le Papaoutah si chiamava. Un piccolo guscio bello piatto, costruito per gli estuari. Marciava a legna il Papaoutah. Solo bianco a bordo, mi dettero un buco tra cucina e gabinetti. Andavamo così lentamente sui mari che mi son creduto all’inizio fosse una precauzione per uscire dalla rada. Ma non andammo mai più in fretta. ‘Sto Papaoutah mancava incredibilmente di potenza. Camminavamo così in vista della costa, infinita banda grigia e folta di alberi minuti nella calura di vapori danzanti. Che passeggiata! Il Papaoutah fendeva l’acqua come se l’avesse sudata tutta lui stesso, dolorosamente. Disfaceva un’ondina dopo l’altra cautamente, come delle fasciature. Il pilota, mi sembrava di lontano, doveva essere un mulatto; dico “sembrava” perché non trovavo mai lo slancio che ci sarebbe voluto per arrampicarmi fin lassù sulla passerella per rendermi conto da me. Restavo confinato coi negri, unici passeggeri, nell’ombra del corridoio, fin tanto che il sole occupava il ponte, fin verso le cinque. Perché non ti bruci la testa attraverso gli occhi, il sole, bisogna strizzare le palpebre come un topo. Dopo le cinque ti puoi permettere un giro d’orizzonte, la bella vita. Quella frangia grigia, il paese fitto a pelo d’acqua, laggiù, specie di sottoascella schiacciata, non mi diceva niente di interessante. Era schifosa da respirare quell’aria, anche di notte, tanto l’aria restava tiepida, marina marcia. Tutta quella insulsaggine dava al cuore, con l’odore della macchina in più e di giorno le onde troppo ocra di qui, e troppo blu dall’altra parte. Si stava peggio ancora che sull’Amiral-Bragueton, meno i militari assassini, beninteso.
Finalmente, ci avvicinammo al porto della mia destinazione Mi ricordarono il nome: Topo. A forza di tossire, scaracchiare, tremolare, per tre volte il tempo di quattro pasti a scatolette, su quelle acque da rigovernatura oleosa, il Papaoutah ha finito dunque per andare ad attraccare.
Sull’argine peloso, tre enormi capanne si stagliavano coperte di paglia. Da lontano, la cosa ti prendeva al primo colpo d’occhio, un’arietta abbastanza allettante. L’imboccatura d’un gran fiume sabbioso, il mio, mi spiegarono, da dove dovevo risalire per raggiungere, in barca, il bel mezzo della mia foresta. A Topo, postazione in riva al mare non dovevo restare che qualche giorno, eravamo d’accordo, il tempo di prendere le mie supreme risoluzioni coloniali.
Facemmo rotta su un esile imbarcadero e il Papaoutah col suo grosso ventre, prima di raggiungerlo, raspò la barra. Era in bambù l’imbarcadero, me lo ricordo bene. Aveva una sua storia, lo rifacevano ogni mese, ho saputo, a causa dei molluschi agili e lesti che venivano a migliaia a mangiarselo via via. Era proprio, questa costruzione infinita, una delle occupazioni disperanti che facevano soffrire il tenente Grappa, comandante della postazione di Topo e regioni circonvicine. Il Papaoutah trafficava una volta al mese ma i molluschi non ci mettevano più di un mese a sbafarsi il suo imbarcadero.
All’arrivo, il tenente Grappa s’impadronì dei miei documenti, ne verificò la veridicità, li ricopiò su un registro vergine e mi offrì l’aperitivo. Ero il primo viaggiatore, mi confidò lui, che fosse arrivato a Topo da più di due anni. Si veniva mica a Topo. Non c’era nessuna ragione di venire a Topo. Agli ordini del tenente Grappa, serviva il sergente Alcide. Nel loro isolamento non si amavano per niente. “Devo sempre diffidare del mio subalterno, mi confidò ancora il tenente Grappa dopo il nostro primo contatto, ha un po’ tendenza a familiarizzare!”
Poiché in quella desolazione se uno avesse dovuto immaginarsi degli avvenimenti sarebbero stati troppo inverosimili, l’ambiente non si prestava, il sergente Alcide preparava in anticipo molti rapporti con “Nulla” che Grappa firmava senza indugio e il Papaoutah riportava puntualmente al Governatore generale.
Nelle lagune lì intorno e nei recessi forestali vegetava qualche tribù ammuffita, decimata, abbrutita dal tripanosoma e la miseria cronica; fornivano comunque, quelle popolazioni, qualche piccola imposta e a colpi di randello, beninteso. Tra quella gioventù si reclutava anche qualche miliziano per maneggiare per delega quello stesso randello. Gli effettivi della milizia ammontavano a dodici uomini.
Posso parlarne, li ho conosciuti bene. Il tenente Grappa li equipaggiava a modo suo quei fortunati e li nutriva regolarmente a riso. Un fucile per dodici era la dose! e una bandierina per tutti. Niente scarpe. Ma poiché tutto è relativo a ‘sto mondo, e confrontabile, gli originari del posto che venivano reclutati, trovavano che Grappa faceva benissimo le cose. Respingeva perfino ogni giorno dei volontari, Grappa, e di quelli entusiasti, figli disgustati della savana.
La caccia non dava quasi niente attorno al villaggio, e non ci si pappava meno di una vecchietta a settimana, in mancanza di gazzelle. A partire dalle sette, ogni mattina, i miliziani di Alcide andavano a fare le esercitazioni. Poiché alloggiavo in un angolo della sua capanna, che lui mi aveva ceduto, ero in prima fila per assistere a quella fantasia araba. Mai in alcun esercito al mondo hanno figurato soldati più volenterosi. Alla chiamata di Alcide, misurando la sabbia per quattro, per otto, poi per dodici, quei primitivi si prodigavano come dei matti immaginandosi zaini, scarponi, perfino baionette e, quel che è peggio, facevano finta di usarli. Spuntati com’erano da una natura così vigorosa e così prossima, avevano per solo vestito un’imitazione di calzoncini cachi. Tutto il resto loro se lo dovevano immaginare e lo facevano. Al comando di Alcide, perentorio, quegli ingegnosi guerrieri, posato a terra il loro finto zaino, correvano nel vuoto a scagliarsi contro nemici immaginari, con immaginarie stoccate. Mettevano in piedi, dopo aver fatto finta di toglierseli di spalla, degli invisibili fasci di fucili e a un altro segnale si infervoravano in astratte scariche di moschetti. A vedere come si sparpagliavano, i modi in cui gesticolavano minuziosamente e si perdevano in merletti di movimenti a scatti e follemente inutili, restavi scoraggiato fino all’apatia. Specie perché a Topo il calore crudo e il soffoco concentrati a perfezione dalla sabbia tra gli specchi del mare e del fiume, levigati e congiunti, vi avrebbero fatto giurare sul vostro didietro che vi tenevano seduti a forza su un pezzo di sole appena cascato giù.
Ma quelle condizioni implacabili non impedivano all’Alcide di strapazzarli, al contrario. I suoi urli dilagavano sopra le sue esercitazioni fantasia e arrivavano lontano sino alla cresta dei cedri augusti della bordura tropicale. Persino più lontano rimbalzavano ancora i suoi tonanti “Attenti!”
Nel frattempo il tenente Grappa amministrava la giustizia. Ci torneremo. Lui sorvegliava anche di lontano, sempre, e dall’ombra della sua capanna, la costruzione elusiva del suo imbarcadero maledetto. A ogni arrivo del Papaoutah andava ad aspettare ottimista e scettico gli equipaggiamenti completi per i suoi effettivi. Li reclamava invano da due anni gli equipaggiamenti completi. Lui che era còrso, Grappa si sentiva forse più umiliato forse d’ogni altro quando vedeva che i suoi miliziani continuavano a restare tutti nudi.
Nella nostra capanna, quella di Alcide, si praticava un piccolo commercio, quasi clandestino, di piccoli oggetti e rimasugli vari. D’altronde tutto il traffico di Topo passava da Alcide perché era detentore di un piccolo deposito, l’unico, di tabacco in foglie e pacchetti, qualche litro d’alcool e qualche pezza di cotone.
I dodici miliziani di Topo provavano, si vedeva, per Alcide un autentica simpatia e questo malgrado lui li strapazzasse senza limiti e li prendesse a calci nel sedere senza alcuna giustizia. Ma loro avevano scorto in lui, i militari nudisti, gli innegabili elementi della vera parentela, quelli della miseria incurabile, innata. Il tabacco li avvicinava, per neri che fossero, per forza di cose. Avevo portato con me qualche giornale dell’Europa. Alcide gli diede una scorsa col desiderio di interessarsi alle notizie, ma anche se ci si ributtò almeno tre volte a concentrare l’attenzione su quelle colonne disparate, non riuscì a finirle. “Io adesso, mi confessò dopo quel vano tentativo, in fondo, me ne frego delle notizie! Fa tre anni che sono qua!” Questo non voleva dire che Alcide tenesse a stupirmi giocando la parte dell’eremita, no, ma la brutalità, l’indifferenza che il mondo intero provava nei suoi confronti, lo spingeva a sua volta a considerare da sergente raffermato il mondo intero, al di là di Topo, come una specie di Luna.
Aveva d’altra parte un buon carattere, Alcide, servizievole e generoso e tutto. L’ho capito più tardi, un po’ troppo tardi. Era prostrato dalla formidabile rassegnazione, quella stessa qualità di base che rende i poveri diavoli dell’esercito o d’altre parti così pronti a uccidere o a far vivere. Mai, o quasi, chiedono il perché gli umili, di tutto quel che sopportano. Si odiano gli uni gli altri, e tanto basta.
Intorno alla nostra capanna, crescevano sparsi, in piena laguna di sabbia torrida, impietosa, quegli strani fiorellini freschi e corti, verdi, rosa o porpora, che in Europa si vedono solo dipinti e su certe porcellane, sorta di convolvoli primitivi e per niente sciocchi. Sopportavano la lunga spaventevole giornata chiusi sul gambo, e quando si aprivano la sera si mettevano a tremolare gentilmente sotto le prime brezze tiepide.
Un giorno che Alcide s’accorse che stavo facendo un mazzolino, mi avvertì: “Prendile se vuoi, ma non bagnarle, ‘ste troiette, perché le ammazzi... Sono fragilissime, mica come quei girasole che noi facevamo tirar su ai ragazzi della truppa a Rambouillet! Ci potevi pisciar sopra a quelli là!... Che si bevevano tutto! D’altronde, i fiori son come gli uomini... E più son grandi e più son ciula!” Questo a beneficio del tenente Grappa evidentemente, lui che aveva un corpo debordante e disastroso, le mani corte, scarlatte, tremende. Delle mani che non capiscono mai niente. Ci provava nemmeno a capire, Grappa, d’altronde.
Ho soggiornato due settimane a Topo durante le quali ho diviso non solo l’esistenza e la sbobba dell’Alcide, le sue pulci di letto e di sabbia (due specie), ma anche il suo chinino e l’acqua dei pozzi vicino, inesorabilmente tiepida e diarroica.
Un bel giorno il tenente Grappa in vena di gentilezze m invitò, eccezionalmente, a prendere il caffè da lui. Era geloso Grappa e non mostrava mai la concubina indigena a nessuno. Aveva dunque scelto per invitarmi il giorno che la negra andava a visitare i parenti al villaggio. Era anche il giorno dell’udienza al suo tribunale. Voleva stupirmi.
Intorno alla capanna, arrivati dal mattino, s’accalcavano i querelanti, massa disparata, colorata di stracci e screziata di testimoni schiamazzanti. Giudicandi e semplice pubblico in piedi, mescolati nella stessa cerchia, tutti puzzolenti di aglio, sàndalo, burro rancido, sudore color zafferano. Come i miliziani di Alcide, sembrava che tutti quegli esseri tenessero più di ogni altra cosa ad agitarsi nella frenesia di una finzione; facevano scoppiettare intorno a loro un idioma da nacchere brandendo sopra le loro teste delle mani contratte in un vento d’argomentazioni.
Il tenente Grappa sprofondato nella sua poltrona di giunco, scricchiolante e gemebonda, sorrideva di fronte a tutte quelle incoerenze radunate. Si affidava per sua norma e regola a un interprete del luogo che gli farfugliava di rimando, a suo modo e a gran voce, richieste incredibili.
Si trattava forse d’un montone mezzo cieco che certi genitori si rifiutavano di restituire mentre la figlia, regolarmente venduta, non era mai stata consegnata al marito, per via di un delitto che il fratello di lei nel frattempo aveva trovato il modo di commettere sulla persona della sorella di quello che custodiva il montone. E molte altre e più complesse doglianze.
Alla nostra altezza, cento facce appassionate a questi problemi di interesse e di costume scoprivano i denti a colpettini secchi o a grossi glu-glu in parole negre.
Il calore saliva al culmine. Cercavi il cielo con gli occhi dall’angolo del tetto per chiederti se non stava per arrivare una catastrofe. O almeno un uragano.
“Te li metto tutti d’accordo sùbito io!” decise finalmente Grappa, che la temperatura e le confabulazioni spingevano alle decisioni. Dov’è il padre di quella da maritare?... Portatemelo qui!
- È là! risposero venti compari, spingendo davanti a loro un vecchio negro parecchio floscio avvolto in un affare giallo che lo abbigliava con gran dignità, come un romano antico. Scandiva, il vecchio, tutto quel che raccontavano intorno, col pugno chiuso. Non aveva per niente l’aria d’esser venuto lì per sporgere denuncia lui, ma piuttosto per concedersi un po’ di distrazione in occasione di un processo da cui già da molto tempo non s’aspettava alcun esito positivo.
- Alé! ordinò Grappa. Venti colpi! e finiamola lì! Venti bastonate a ‘sto vecchio magnaccia!... Così impara a venirmi a rompere i coglioni qui tutti i giovedì da due mesi con le sue storie di montoni andati a male!”
Il vecchio vide piombare su di lui quattro muscolosi miliziani. Non capiva all’inizio quel che volevano da lui e poi si mise a roteare gli occhi, iniettati di sangue come quelli di un vecchio animale inorridito che prima non le ha mai prese. Non cercava di resistere in verità, ma non sapeva più come mettersi per prendersi col minor dolore possibile le legnate della giustizia.
I miliziani lo strattonavano per la stoffa. Due di loro volevano assolutamente che si inginocchiasse, gli altri gli ordinavano al contrario di mettersi a pancia sotto. Alla fine, ci si mise d’accordo per lasciarlo semplicemente per terra, tirandogli su lo straccio e di botto si prese sulla schiena e le chiappe flosce una di quelle scariche di legno dolce da far ragliare un somaro robusto per otto giorni. Torcendosi, la sabbia fine gli schizzava tutt’intorno al ventre, con del sangue, lui sputava sabbia urlando, lo si sarebbe detto una bassotta incinta, enorme, che torturavano per divertimento.
Quelli che assistevano si zittirono finché la cosa durò. Si sentivano solo i rumori della punizione. Sistemata la faccenda, il vecchio suonato a dovere cercava di rialzarsi e di sistemarsi addosso il suo straccio alla romana. Sanguinava abbondantemente dalla bocca, dal naso e soprattutto lungo la schiena. La folla s’allontanò rimorchiandolo e ronzando di mille pettegolezzi e commenti, in un tono da funerale.
Il tenente Grappa riaccese il sigaro. Davanti a me, ci teneva a prendere una distanza da ‘ste cose. Non che fosse penso io, più neroniano di un altro, soltanto non gli piaceva per niente che lo obbligassero a pensare. Questo lo infastidiva. Quel che lo rendeva irritabile nelle sue funzioni giudiziarie, erano le domande che gli facevano
Assistemmo ancora quello stesso giorno a due altre punizioni memorabili, dovute ad altre storie sconcertanti, una dote ripresa, veleni promessi... promesse equivoche... bambini incerti...
“Ah! sapessero tutti come me ne frego dei loro litigi non la lascerebbero la loro foresta per venirmi a raccontare le loro stronzate e rompermi i coglioni qui!... Li tengo forse al corrente dei miei affaretti io? concludeva Grappa. Però, riprese lui, finirò per credere che ci prendono gusto alla mia giustizia quei farabutti lì!... Da due anni che cerco di stancarli, ed ecco che ti tornano ogni giovedì... Mi creda se le pare, giovanotto, sono quasi sempre gli stessi che ritornano!... Dei depravati, insomma!...”
Poi la conversazione scivolò su Tolosa dove lui passava regolarmente i suoi permessi e dove pensava di ritirarsi, Grappa, fra sei anni, con la pensione. Così bisognava fare! Eravamo amabilmente al calvados quando fummo di nuovo disturbati da un negro passibile di non so quale pena, e in ritardo per scontarla. Veniva spontaneamente due ore dopo gli altri a offrirsi di prendere le legnate. Dopo aver effettuato un tragitto di due giorni e due notti dal suo villaggio attraverso la foresta per quello scopo non intendeva tornarsene indietro a mani vuote. Ma era in ritardo e Grappa era intransigente in tema della puntualità penale. “Tanto peggio per lui! Doveva solo non andarsene l’ultima volta!... è giovedì della scorsa settimana che l’ho condannato a cinquanta randellate ‘sto schifoso!”
Il cliente protestava lo stesso perché aveva una buona scusa: aveva dovuto tornare al villaggio in fretta per andare a seppellire la madre. Aveva tre o quattro madri solo per lui. Contestazioni...
“Sarà per la prossima udienza!”
Ma aveva appena il tempo ‘sto cliente di andare al villaggio e ritornare qui giovedì prossimo. Protestava. Si intestardiva. C’è stato bisogno di buttarlo fuori ‘sto masochista a grandi calci nel sedere. La cosa gli ha fatto certo piacere ma non abbastanza... Alla fine, è andato ad approdare da Alcide che ne approfittò per vendergli tutto un assortimento di tabacco a foglie al masochista, in pacchetti e in polvere da presa.
Tutto divertito da questi incidenti multipli, mi congedai da Grappa che si ritirava appunto per la siesta, in fondo alla sua capanna, dove già riposava la concubina indigena tornata dal villaggio. Un paio di tettone splendide questa negra, educata per bene dalle Suore del Gabon. Non soltanto la giovane parlava francese con la pronuncia blesa, ma sapeva anche offrire il chinino con le conserve e beccare le pulci penetranti nel profondo della pianta dei piedi. Sapeva rendersi utile in cento modi al coloniale, senza stancarlo o stancandolo, a sua scelta.
Alcide mi aspettava. Era un po’ seccato. Fu questo invito di cui mi aveva onorato il tenente Grappa a deciderlo indubbiamente alle grandi confidenze. Ed erano pepate le confidenze. Senza che lo pregassi, mi fece di Grappa un ritratto espresso al vetriolo. Gli risposi che la pensavo in tutto proprio come lui. Il punto debole dell’Alcide, era che trafficava malgrado i regolamenti militari assolutamente contrari, con i negri della foresta d’intorno e anche con i dodici fucilieri della milizia. Approvvigionava quel piccolo mondo con tabacco di tratta, senza pietà. Quando i miliziani avevano ricevuto la loro parte di tabacco, non gli restava più un soldo da prendere, s’erano fumati tutto. Fumavano perfino sull’anticipo. Questo piccolo cabotaggio vista la rarità di numerario nella regione, danneggiava la riscossione delle imposte, sosteneva Grappa.
Il tenente Grappa non voleva, per prudenza, provocare durante la sua gestione uno scandalo a Topo, ma insomma forse geloso, gli faceva la faccia storta. Avrebbe voluto che tutte le minuscole disponibilità indigene restassero, si può anche capire, per le imposte. A ciascuno il suo genere e le sue piccole ambizioni.
All’inizio la pratica del credito sulla paga gli era sembrata un po’ sorprendente e anche dura ai fucilieri che lavoravano solo per fumare il tabacco di Alcide, ma ci si erano abituati a colpi di calci in culo. Adesso, non cercavano nemmeno più d’andarsela a prendere la paga, se la fumavano prima, tranquillamente, ai bordi della capanna di Alcide, tra i fiorellini vivaci, tra due esercitazioni immaginarie.
A Topo insomma, per quanto minuscolo fosse il luogo, c’era posto lo stesso per due sistemi di civiltà, quella del tenente Grappa, piuttosto alla romana, che frustava i sottoposti per cavarci semplicemente un tributo, di cui tratteneva, secondo quanto affermava l’Alcide, una parte vergognosa e personale, e poi il sistema di Alcide propriamente detto, più complicato, nel quale già si scorgevano i segni del secondo stadio di civiltà, la nascita d’un cliente in ogni fuciliere, quella combinazione commercial-militare insomma, molto più moderna, più ipocrita, che è la nostra.
Per quel che riguarda la geografia il tenente Grappa riusciva a stimare solo con l’aiuto di qualche carta molto approssimativa che conservava in postazione i vasti territori affidati alla sua custodia. Non aveva per niente voglia di saperne di più sul conto di quei territori. Gli alberi, la foresta, dopo tutto, si sa quel che sono, si vedono benissimo da lontano.
Dissimulata tra le fronde e le pieghe di quell’immensa tisana, qualche tribù anche troppo sparpagliata marciva qua e là tra pulci e mosche, abbrutita dai Totem ingozzando invariabilmente manioca andata a male... Orde perfettamente ingenue e candidamente cannibali, stremate dalla miseria, devastate da mille pestilenze. Nessun motivo per avvicinarle. Niente che giustificasse una spedizione amministrativa dolorosa e senza echi. Quando aveva finito di amministrare la legge, Grappa si volgeva piuttosto verso il mare, e contemplava quell’orizzonte da cui un certo giorno era apparso lui, e attraverso il quale un certo giorno se ne sarebbe andato, se tutto girava bene...
Per quanto familiari e persino simpatici mi fossero diventati quei posti, dovetti comunque pensare a lasciare alfine Topo per il postaccio che m’avevano promesso in capo a qualche giorno di navigazione fluviale e di peregrinazioni nelle foreste.
Con Alcide, eravamo arrivati a capirci benissimo. Cercavamo insieme di pescare i pesce-sega, quelle specie di squali che pullulavano davanti alla capanna. Lui a quel gioco era maldestro come me. Non beccavamo mai niente.
La sua capanna era arredata solo dal letto smontabile, il mio, e qualche cassa piena o vuota. Mi pareva che dovesse metter via abbastanza soldi col suo piccolo commercio.
“Dov’è che la metti?... gli chiedevo a più riprese. Dov’è che te la nascondi la tua sporca grana?” Era per farlo arrabbiare. “Ti farai una gran baldoria della madonna quando torni?” Lo stuzzicavo. E almeno venti volte mentre attaccavamo l’immancabile conserva di pomodori, immaginavo per la sua gioia le peripezie di un giro fenomenale quando tornava a Bordeaux, di flamba in flamba. Non rispondeva niente. Ridacchiava soltanto, come se si divertisse a sentirmi dire quelle cose lì.
A parte le esercitazioni e le sessioni giudiziarie, non capitava davvero niente a Topo, allora per forza tornavo il più spesso possibile sullo stesso scherzo, in mancanza d’altri soggetti.
Negli ultimi tempi, una volta mi venne la voglia di scrivere al signor Puta, per batter cassa. Alcide si sarebbe incaricato di impostare la lettera col prossimo Papaoutah. La roba da scrivere Alcide la teneva in una piccola scatola di biscotti proprio come quella che avevo visto a Branledore, proprio la stessa. Tutti i sergenti raffermati avevano dunque le stesse abitudini. Ma quando mi vide aprire la sua scatola Alcide, ebbe un gesto che mi sorprese per impedirmelo. Ero imbarazzato. Non sapevo perché me lo proibiva, la rimisi sul tavolo. “Ah! aprila va’! ha detto infine lui. Va’ che non fa niente!” Sùbito sul rovescio del coperchio era incollata la foto di una ragazzina. Solo la testa, un volto proprio dolce davvero con lunghi boccoli, come si portavano a quel tempo. Presi carta e penna e rinchiusi in fretta la scatola. Ero molto imbarazzato dalla mia indiscrezione, ma mi chiedevo tuttavia perché la cosa l’aveva tanto sconvolto.
Immaginai sùbito che si doveva trattare di una creatura sua, di cui aveva evitato di parlarmi fin lì. Non chiedevo altro, ma lo sentivo alle mie spalle che cercava di raccontarmi qualcosa su quella foto, con una strana voce che non gli conoscevo ancora. Farfugliava. Non sapevo più dove mettermi, io. Dovevo proprio aiutarlo a farmi le sue confidenze. Per superare il momento non sapevo più da che parte prenderla. Sarebbe stata una confidenza penosissima da ascoltare, ero sicuro. Non ci tenevo per niente.
“È niente! lo sentii alla fine. È la figlia di mio fratello... Sono morti tutti e due...
- I genitori?
- Chi la tira su allora? Tua madre? gli ho chiesto io, così, per manifestargli il mio interesse.
- Mia madre, ce l’ho più neanche lei...
- Allora chi?
- Eh ben io!”
Sogghignava, l’Alcide cremisi, come se avesse appena fatto qualcosa di assolutamente sconveniente. Si riprese in fretta:
“Cioè adesso ti spiego... La faccio educare a Bordeaux dalle Suore... Ma non le Suore dei poveri, mi capisci eh!... Dalle Suore “bene”... Siccome sono io che me ne occupo, puoi stare tranquillo. Voglio che le manchi niente! Ginette, si chiama... è una ragazzina molto carina... Come sua madre d’altronde... Lei mi scrive, fa progressi, solo che, sai, una retta così, è cara... Soprattutto adesso che ha dieci anni... Mi piacerebbe che imparasse anche il piano... Cosa ne dici te del piano?... Va bene il piano, eh, per le ragazze?... Credi mica?... E l’inglese? è utile anche l’inglese?... Sai l’inglese te?...”
Mi son messo a guardarlo molto più da vicino l’Alcide, via via che confessava la colpa di non essere abbastanza generoso, con i suoi baffetti impomatati, le sopracciglia da eccentrico, la pelle calcinata. Il pudico Alcide! Quante ne aveva dovuto fare di economie sulla sua paga striminzita... sui suoi premi d’arruolamento da fame e il piccolo commercio clandestino... per mesi, per anni, in quell’infernale Topo!... Non sapevo cosa rispondergli io, non ero molto competente, ma mi superava talmente in fatto di cuore che diventai tutto rosso... In confronto all’Alcide, non ero che un cafone impotente io, grossolano e fatuo ero... Non si poteva smarronare. Era chiaro.
Non osavo più parlargli, mi sentivo all’improvviso totalmente indegno di parlargli. Io che ancora ieri lo trascuravo e perfino lo disprezzavo un po’, Alcide.
“Non ho avuto fortuna, proseguiva lui, senza rendersi conto che mi imbarazzava con le sue confidenze. Immàginati che due anni fa, lei ha avuto la paralisi infantile... Figùrati... Tu sai cos’è la paralisi infantile?”
Mi spiegò allora che la gamba sinistra della bambina continuava a essere atrofizzata e che seguiva una cura con l’elettricità a Bordeaux, da uno specialista.
“È una cosa che si guarisce, tu credi?...” si inquietava lui.
Gli assicurai che si aggiustava benissimo, proprio completamente col tempo e l’elettricità. Parlava della madre che era morta e della malattia della piccola con molte precauzioni. Aveva paura, anche di lontano, di farle del male.
“Sei stato a vederla dopo la malattia?
- No... ero qui.
- Ci andrai presto?
- Credo che non potrò prima di tre anni... Tu capisci qui, faccio un po’ di commercio... Allora questo l’aiuta un po’... Se prendo un congedo adesso, al ritorno il posto sarebbe preso... soprattutto con quell’altra carogna”
Così, Alcide aveva fatto domanda per raddoppiare il soggiorno, per farsi sei anni di fila a Topo, invece dei tre, per la nipotina di cui non possedeva che qualche lettera e il ritrattino. “Quel che mi dispiace, riprese lui quando ci coricammo, è che lei laggiù non ha nessuno per le vacanze... è dura per una bambina...”
Evidentemente Alcide faceva evoluzioni nel sublime come se fosse casa sua, per così dire con familiarità, dava del tu agli angeli, sto ragazzo, e aveva l’aria di niente. Aveva offerto quasi senza un dubbio a una ragazzina vagamente apparentata anni di tortura, l’annichilimento della sua povera vita in quella torrida monotonia, senza condizioni, senza mercanteggiare, senz’altro interesse che quello del suo buon cuore. Offriva a quella ragazzina lontana tanta tenerezza da rifare il mondo intero e questo non si vedeva.
S’addormentò di colpo, alla luce della candela. Finì che mi alzai per guardare bene i suoi tratti alla luce Dormiva come tutti. Aveva l’aria proprio normale. Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi.