Càpita di tutto, e a me capitò di diventare brigadiere verso la fine di quello stesso mese d’agosto. Mi mandavano spesso con cinque uomini, in collegamento, agli ordini del generale des Entrayes. Quel comandante era di taglia piccola, taciturno e non sembrava a prima vista né crudele né eroico. Ma bisognava diffidare... Sembrava preferire su ogni altra cosa i piccoli piaceri. Ci pensava proprio ininterrottamente ai suoi agi, e anche se eravamo occupati a battere in ritirata da più di un mese, strapazzava comunque tutti se il suo attendente non gli trovava mica all’arrivo di ogni tappa, in ogni nuovo alloggiamento, un letto bello pulito e una cucina attrezzata alla moderna.
Al capo di stato maggiore, con i suoi quattro galloni, questa smania di confort gli dava un bello sgobbo. Le esigenze domestiche del generale des Entrayes lo indispettivano. Soprattutto perché lui, giallo, gastritico al massimo e stitico, era per nulla portato al cibo. Gli toccava comunque mangiare le sue uova alla coque alla tavola del generale e sorbirsi in quella occasione le sue doglianze. O sei un soldato o non lo sei. Comunque, non arrivavo a compiangerlo perché era un grandissimo porco come ufficiale. Giudicate voi. Quando noi ci eravamo trascinati fino a sera per strade e colline, campi d’erba medica e di carote, si finiva comunque col fermarci perché il nostro generale potesse coricarsi da qualche parte. Gli cercavamo, e gli trovavamo, un villaggio tranquillo, ben riparato, dove le truppe non s’erano ancora accampate o se ce n’erano già nel villaggio di truppe, sbaraccavano in fretta, le sbattevamo fuori, in tutta semplicità; all’aria aperta, anche se avevano già formato i fasci.
Il villaggio era riservato esclusivamente allo stato maggiore, ai suoi cavalli, alle sue cucine, ai suoi bagagli, e anche a quel porcaccione del comandante. Si chiamava Pinçon ‘sto maiale, il comandante Pinçon. Spero che a quest’ora sia proprio crepato (e non di morte tranquilla). Ma in quel momento, di cui parlo, era ancora sconciamente vivo il Pinçon. Ci riuniva tutte le sere, noi del collegamento e poi allora ci strapazzava un bel po’ per rimetterci in riga e cercare di risvegliare i nostri ardori. Ci mandava tutti al diavolo, noi che ci eravamo trascinati tutta la giornata dietro il generale. Piede a terra! A cavallo! A ripiede! Così per portargli gli ordini, di qui, di là. Avremmo fatto meglio ad annegarci quand’era finita. Sarebbe stato più pratico per tutti.
“Andatevene tutti! Raggiungete i vostri reggimenti! E sbrigarsi! ecco che ti berciava.
- Dov’è che è il reggimento, comandante! gli chiedevamo noi.
- È a Barbagny.
- Dov’è Barbagny?
- Di là!
Di là, dove indicava lui, non c’era altro che la notte, come ovunque, d’altronde, una notte enorme che si mangiava la strada a due passi da noi e tanto che dal buio non ci sbucava che un pezzetto di strada grosso come una lingua.
Vallo un po’ a cercare il suo Barbagny in quel finimondo! Si sarebbe dovuto sacrificare per ritrovarlo, il suo Barbagny, almeno uno squadrone tutto intero! E uno squadrone di prodi! E io che prode non ero affatto, e che non capivo affatto perché avrei dovuto esserlo, un prode, avevo ancora meno voglia di tutti di ritrovare la sua Barbagny, di cui d’altra parte lui stesso parlava assolutamente a caso. Era come se avesse cercato strapazzandomi al massimo di farmi venire la voglia di suicidarmi. Certe cose le hai o non le hai.
Di tutta quell’oscurità così spessa che ti sembrava di non rivedere più il braccio quando lo stendevi un po’ più in là della spalla, io sapevo una cosa soltanto, ma quella proprio con assoluta sicurezza, ed è che conteneva delle volontà omicide spaventose e innumerevoli.
‘Sto ceffo dello stato maggiore non smetteva tornata la sera di mandarci a morire ammazzati e questo lo prendeva spesso dopo il calar del sole. Si lottava un po’ con lui a botte d’inerzia, ci ostinavamo a non capirlo, ci accostavamo agli alloggiamenti più o meno tranquilli fin quando si poteva, ma poi quando non si vedevano più gli alberi, alla fine, bisognava comunque rassegnarsi ad andarsene a morire un po’; la cena del generale era pronta.
Tutto capitava allora a partire da quel momento, puramente a caso. Qualche volta lo trovavamo e qualche volta no, il reggimento e Barbagny. Era soprattutto per sbaglio che li ritrovavamo perché le sentinelle della squadra di guardia ci tiravano addosso arrivando. Ci si faceva così riconoscere per forza, e passavamo quasi tutta la notte in corvé d’altra natura, a portare un sacco di balle d’avena e secchi d’acqua in quantità, a farci strapazzare fino a esserne storditi più che dal sonno.
Al mattino si ripartiva, gruppo di collegamento, tutti e cinque per gli alloggiamenti del generale des Entrayes, per continuare la guerra.
Ma il più delle volte non lo trovavamo mica il reggimento, e non facevamo altro che aspettare il giorno aggirandoci intorno ai villaggi per sentieri sconosciuti, ai margini dei borghi evacuati, e i subdoli boschi cedui, scansavamo tutto questo per quanto possibile a causa delle pattuglie tedesche. Bisognava comunque pur essere da qualche parte attendendo il mattino, da qualche parte nella notte. Potevamo mica evitare tutto. Da allora, so cosa devono provare i conigli selvatici.
Marcia in modo strano la pietà. Se qualcuno avesse detto al comandante Pinçon che lui altro non era che uno sporco assassino vigliacco, gli avrebbe fatto un piacere enorme, quello di farci fucilare, seduta stante, dal capitano della gendarmeria, che non lo lasciava mai d’un passo e che, lui, pensava esattamente a quello. Era mica con i tedeschi che ce l’aveva, il capitano della gendarmeria.
Dovemmo dunque rischiare le imboscate per notti e notti imbecilli che si susseguivano, con la sola speranza sempre meno ragionevole di ritornarne e quella soltanto e anche che se fossimo tornati non avremmo dimenticato mai, assolutamente mai, che avevamo scoperto sulla terra un uomo congegnato come voi e me, ma molto più carogna dei coccodrilli e degli squali che passano fra due acque a fauci spalancate attorno ai battelli d’immondizie e carni avariate che vanno a scaricare al largo, all’Avana.
La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne. Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera.
Lo avrei proprio dato agli squali da papparsi, il comandante Pinçon, e il suo gendarme con lui, per insegnargli a vivere; e poi anche il mio cavallo in aggiunta per non farlo soffrire più, perché non aveva più groppa ‘sto povero disgraziato, dal male che stava, solo due placche di carne che gli restavano al loro posto, sotto la sella, larghe come due mani delle mie e trasudanti, al vivo, di grandi rivoli di pus che gli colavano dai bordi della coperta sino ai garretti. Bisognava comunque trottarci sopra, un, due... Si dannava per trottare. Ma i cavalli sono ancora più pazienti degli uomini. Ondeggiava, trottando. Si poteva solo lasciarlo all’aperto. Nei fienili, per l’odore che gli usciva dalle ferite, puzzava così tanto, che si restava soffocati. Salirgli in groppa, gli faceva così male che si piegava, come per gentilezza, e allora il ventre gli arrivava ai ginocchi. Così si sarebbe detto che uno montava un asino. Era più comodo così, bisogna confessarlo. Eravamo così stanchi anche noi, con tutto quel che sopportavamo di ferraglia sulla testa e sulle spalle.
Il generale des Entrayes, nella casa riservata, aspettava la cena. La tavola era pronta, la lampada al suo posto.
“Levatevi dai coglioni, dio boia, ci ingiungeva una volta di più il Pinçon, scrollandoci la lanterna all’altezza del naso. Andiamo a tavola! Ve lo ripeto più! Ma se ne vogliono andare ‘ste carogne!” ti urlava anche. Riprendeva, dalla rabbia, mandandoci a crepare a quel modo, lo smorto, un po’ di colore alle gote.
Qualche volta il cuoco del generale ci passava prima di partire un qualche boccone, ne aveva troppo da mangiare il generale, perché beccava come da regolamento quaranta razioni tutte per lui Non era più giovane quell’uomo. Doveva anzi essere vicino alla pensione. Piegava anche le ginocchia camminando. Doveva tingersi i baffi.
Le arterie, alle tempie, si vedeva bene alla lampada, quando ce ne andavamo, gli disegnavano dei meandri come la Senna quando esce da Parigi. Aveva figlie grandi, dicevano, non sposate, e come lui, niente ricche. È forse per quei ricordi che aveva un’aria così risentita e brontolona, come un vecchio cane disturbato nelle sue abitudini e che cerca di ritrovare la cuccia ovunque gli aprano la porta.
Gli piacevano i bei giardini e i roseti, non ne mancava uno, di roseto, dovunque passassimo. C’è nessuno come i generali per amare le rose. Si sa.
Comunque ci mettevamo in marcia. Il trigo era farli passare al trotto, i ronzini. Avevano paura di muoversi prima per le piaghe e poi perché avevano paura di noi e anche della notte, avevano paura di tutto, insomma! Noi anche! Dieci volte ritornavamo per richiedergli la strada al comandante. Dieci volte ci dava dei fagnani e dei lavativi schifosi. A colpi di sperone alla fine superavamo l’ultimo posto di guardia, gli passavamo la parola ai piantoni e poi ci si tuffava d’un colpo nella sporca avventura, nelle tenebre di questi paesi di nessuno.
A forza di deambulare da un bordo dell’ombra all’altro, si finiva per riconoscerci qualcosina, o almeno lo credevamo... Se una nuvola sembrava più chiara di un’altra ci dicevamo d’aver visto qualcosa... Ma davanti a noi, di sicuro c’era solo l’eco che andava e veniva, l’eco del rumore che facevano i cavalli trottando, un rumore che ti soffoca, smisurato, tanto non lo vuoi. Avevano l’aria di trottare fino al cielo, di chiamare tutto quel che c’era sulla terra, i cavalli, per farci massacrare. D’altra parte lo si sarebbe potuto fare con una mano sola, con una carabina, bastava appoggiarla a un albero aspettandoci. Mi dicevo sempre che la prima luce che avrei visto sarebbe stata quella del colpo di fucile della fine.
Da quattro settimane che durava, la guerra, eravamo diventati così stanchi, così infelici, che avevo perduto, a forza di fatica, un po’ della mia paura per strada. La tortura di essere tormentati giorno e notte da ‘sta gente, i graduati, i piccoli soprattutto, più brutali, più meschini e carichi d’odio ancora più del solito, finiva per far esitare i più ostinati, a vivere ancora.
Ah! la voglia di andarsene! Per dormire! Anzitutto! E se non c’è più davvero modo di andarsene a dormire, allora la voglia di vivere se ne va da sola. Fin tanto che si resta in vita bisogna aver l’aria di cercare il reggimento.
Perché nel cervello d’un coglione il pensiero faccia un giro, bisogna che gli capitino un sacco di cose e di molto crudeli. Quel che mi aveva fatto pensare per la prima volta in vita mia, ma pensare davvero, idee pratiche e tutte mie, era certo il comandante Pinçon, questo ceffo da torturatore. Pensavo dunque a lui più che potevo, mentre traballavo, bardato, pericolante sotto le armature, comparsa accessoria in questo incredibile affare internazionale, in cui mi ero imbarcato per entusiasmo... Lo confesso.
Ogni metro d’ombra davanti a noi era una nuova promessa di restarci e crepare, ma in che modo? L’unico imprevisto in questa storia era l’uniforme dell’esecutore. Sarà uno di qui? O uno di fronte?
Gli avevo fatto niente, io, a ‘sto Pinçon! A lui, mica più d’altronde che ai tedeschi!... Con la sua testa di pesca marcia, i quattro galloni che gli scintillavano dappertutto dalla testa all’ombelico, mustacchi ruvidi e ginocchia aguzze, e il binocolo che gli pendeva al collo come la campana a una vacca, e la sua carta uno a mille, eh? Mi chiedevo quale rabbia di mandare gli altri a crepare lo possedeva quello lì. Gli altri che non avevano carte.
Noi quattro cavalieri sulla strada facevamo il fracasso di un mezzo reggimento. Ci dovevano sentire arrivare a quattro ore di distanza oppure è che non ci volevano sentire. Poteva anche essere possibile... Forse avevano paura di noi, i tedeschi? Chi lo sa?
Un mese di sonno su ogni palpebra, ecco quel che portavamo e altrettanto dietro la testa, in più di quei chili di ferraglia.
Si esprimevano male i miei cavalieri di scorta. Parlavano appena, per dirla tutta. Erano dei ragazzi venuti dal profondo della Bretagna per il servizio e tutto quel che sapevano non veniva dalla scuola, ma dal reggimento. Quella sera, avevo cercato di intrattenermi un po’ al villaggio di Barbagny con quello che mi stava a fianco e si chiamava Kersuzon.
“Di’ un po’, Kersuzon, ecco che gli faccio, sono le Ardenne qui, sai... Vedi niente te lontano davanti a noi? Io, vedo proprio niente...
- Tutto nero come un buco di culo”, mi ha risposto Kersuzon. Bastava...
“Di’ un po’, hai mica sentito parlare di Barbagny te durante la giornata? Da che parte era? gli chiedevo ancora.
- No.”
Ecco tutto.
Non s’è mai trovata ‘sta Barbagny. Abbiamo girato su noi stessi solo fino al mattino, fino ad un altro villaggio, dove ci attendeva l’uomo del binocolo. Il suo generale prendeva il cafferino sotto il pergolato davanti al municipio quando arrivammo.
“Ah! Come è bella la giovinezza, Pinçon!” gli ha fatto osservare ad alta voce al suo capo di stato maggiore vedendoci passare, il vecchio. Detto questo, si è alzato e se ne è andato a far pipì e poi ancora un giro con le mani dietro la schiena, incurvato. Era molto stanco quel mattino, mi ha bisbigliato l’attendente, aveva dormito male il generale, qualcosa che lo tormentava nella vescica, si diceva in giro.
Kersuzon mi rispondeva sempre allo stesso modo quando lo interrogavo di notte, questo finiva per distrarmi come un tic. Me l’ha ripetuta due o tre volte la faccenda del nero e del culo e poi è morto, ammazzato come l’hanno, poco più tardi, uscendo da un villaggio, me ne ricordo bene, un villaggio che avevamo scambiato per un altro, da dei francesi che ci avevano preso per degli altri.
È proprio qualche giorno dopo la morte di Kersuzon che abbiamo riflettuto e abbiamo trovato un piccolo inghippo, di cui eravamo molto contenti, per non perderci più nella notte.
Dunque, ci sbattevano alla porta degli accantonamenti. Bene. Allora non dicevamo più niente. Non brontolavamo più. “Andatevene! faceva, come al solito, la brutta biffa.
- Bene, comandante!”
Ed eccoci allora partiti dal lato del cannone e senza farci pregare tutti e cinque. Si sarebbe detto che andavamo per ciliege. Era ben riparato da quel lato lì. Era la Mosa, con le sue colline, con le vigne sopra, l’uva non ancora matura e l’autunno, e villaggi in legno belli secchi dopo tre mesi d’estate, che dunque bruciavano facilmente.
Avevamo notato questo noialtri, una notte che non si sapeva assolutamente più dove andare. Un villaggio bruciava sempre dalla parte del cannone. Ci avvicinavamo mica molto, mica troppo, lo guardavamo soltanto da abbastanza lontano il villaggio, da spettatori si potrebbe dire, a dieci, dodici chilometri per esempio. E tutte le sere poi verso quell’epoca, molti villaggi si sono messi ad ardere all’orizzonte, questo si ripeteva, ne eravamo circondati, come dal gran cerchio di una strana festa di tutti quei paesi là che bruciavano davanti a noi e ai due lati, con fiamme che montavano e leccavano le nuvole.
Si vedeva passarci tutto nelle fiamme, le chiese, i fienili, le une dopo gli altri, i covoni di fieno che facevano le fiamme più animate, più alte del resto, e poi le travi che s’alzavano tutte diritte nella notte con barbe di faville prima di ricadere nella luce.
Si vede bene com’è che brucia un villaggio, anche a venti chilometri. Era allegro. Un borgo da niente che non si notava nemmeno durante il giorno, in fondo a una campagnetta meschina, eh be’, si ha mica idea la notte, quando brucia, l’effetto che può fare! Potrebbe essere Notre-Dame! Ci mette anche tutta una notte a bruciare un villaggio anche uno piccolo, alla fine si direbbe un enorme fiore, poi, nient’altro che un boccio, poi più niente.
Fuma, e allora è mattino.
I cavalli che lasciavamo sellati, nei campi intorno a noi, non si muovevano. Noi, andavamo a ronfare nell’erba, salvo uno, che faceva la guardia, a turno, per forza. Ma quando ci sono dei fuochi da guardare, la notte passa molto meglio, è più niente da sopportare, non è più la solitudine.
Sfortuna che non han durato i villaggi... In capo a un mese, in quel cantone, non ce n’era già più. Le foreste anche, gli han tirato sopra, coi cannoni. Non han durato otto giorni le foreste. Fanno ancora bei fuochi le foreste, ma sta per finire.
Dopo di allora, i convogli dell’artiglieria presero tutte le strade in un senso e i civili che si mettevano in salvo, nell’altro.
Insomma, non potevamo più, noialtri, né andare né venire; bisognava restare dove si era.
Si faceva la coda per andare a crepare. Perfino il generale non trovava più accampamenti senza soldati. Abbiamo finito per dormire tutti in aperta campagna, generali o no. Quelli che avevano ancora un po’ di cuore l’hanno perso. E a partire da quei mesi lì che hanno cominciato a fucilare i soldati semplici per tirargli su il morale, a drappelli interi, e che il gendarme ha cominciato a essere citato all’ordine del giorno per il modo con cui conduceva la sua piccola guerra personale, quella profonda, vera tra le vere.